Il ragazzo che io fui
eBook - ePub

Il ragazzo che io fui

,
  1. 276 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il ragazzo che io fui

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Che Sergio Zavoli raccontasse la sua vita, attraversata da protagonista negli anni più felici della radio e della televisione, oltre che con le prove del suo talento di scrittore e poeta, lo si chiedeva da tempo. Ed ecco un libro di sorprendente modernità che, in un gioco di continui rimandi temporali, tematici e psicologici, unisce alla tensione del racconto la saldezza dello stile e alla versatilità della narrazione il puntiglio del documento, confermando, così, estro e rigore.
Già il titolo rivela non solo un legame, ma addirittura una sorta di contiguità tra gli anni dell'adolescenza, della giovinezza e della maturità con il momento in cui l'autore si decide «a rastrellare dentro se stesso», per dirla con le sue parole, «il ragazzo che io fui»: un rincorrersi, edito e inedito, di memoria e Storia, l¿alternarsi di questioni rare e quotidiane, di argomenti concreti e interiori, di tonalità elegiache, ironiche, dure, tutto segnato dai dilemmi di una contemporaneità splendida e tragica, che si misura con l'arcano privilegio di esservi nati e il grave obbligo di viverla. Ne è emerso un lungo capitolo della nostra vita, ricostruito e indagato attraverso «una ricchezza ispirata dall'immaginazione autenticata dalla realtà», così si espresse Carlo Bo, aggiungendo: «È evidente - in tanta parte di ciò che questo "maestro di scenari e interrogazioni" scrive, mostra e dice - il disegno di tenere dentro il quadrato della lucentezza, anche espressiva e stilistica, la forza e gli urti della coscienza, fino a toccare una ancor più eloquente, civile e morale, eticità». Perché rimanga, di stagioni e percorsi comuni, quella specie di controcanto che è l'irripetibile esistenza di ogni uomo: minima, nascosta, e tuttavia frammento e cifra della stessa umanità che ha fatto, fa e farà la Storia. È la «lezione» che Zavoli, raccontando se stesso, offre simbolicamente a un bambino, un tenero nipote in cui intravede una sorta di continuità non solo affettiva.
È un libro giovane, con mitezze e intransigenze, dolcezze e dolori, disincanti e speranze, che coinvolge molte età; e si fa leggere - come disse Calvino dei libri autenticamente inusuali - «tutto d'un fiato, e poi daccapo» e ciò perché, scriveva Bo, «Zavoli inclina a dar voce alla sua maggiore speculazione, diciamo pure alla sua intelligenza del mondo, che da anni va scrutando e interpellando in tutte le direzioni».
Il ragazzo che io fui, ci dice l'autore, «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare scriventista, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall'immaginazione innocente di mia madre».

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il ragazzo che io fui di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Cultura e tradizioni. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021411

Non avevamo le chitarre

Vorrei partire, Andrea, da un ricordo che può darti l’idea del tempo in cui si colloca il libro. Sta in un episodio nel quale, dando voce al mio linguaggio di bambino, racconto ciò che accadde nella casa di Rimini.
Una sera, a tavola, dissi che sognavo a colori. Mia mamma piegò lentamente il tovagliolo e dopo disse: «Bisognerà portarlo dal dottore!».
Questo succedeva nel 1929 quando andava il bianco e nero, e se qualcuno sognava in un altro modo lo faceva di nascosto e non si veniva a sapere tanto facilmente. Il mio babbo, che aveva gli occhi azzurri come i tuoi, Andrea, invece disse: «Non c’è bisogno di nessun dottore!».
I miei due fratelli cominciarono a farmi delle domande e si capiva che non mi credevano: «Vuoi dire che se sogni un prato è verde?» disse mio fratello. «E se sogni la signora Lorusso, la sogni con il rossetto delle labbra?» aggiunse mia sorella.
La signora Lorusso era la nostra inquilina e stava al piano di sopra. Suo marito faceva il maresciallo della Regia Aeronautica e la figlia aveva la stessa età di mia sorella ma siccome era di Lecce sembrava più sviluppata. Certe volte rubava il rossetto e se lo metteva dopo la curva della strada insieme a una sua amica che le teneva lo specchietto.
Quel giorno della notizia che sognavo a colori arrivò in casa mio zio. Gli volevo bene perché faceva ridere la mamma. Siccome ero figlio di sua sorella lo zio voleva bene anche a me e diceva che da questo figlio, che ero io, la famiglia doveva aspettare qualche soddisfazione.
Tutti volevano sapere perché sognavo in quel modo ma lo zio disse che prima bisognava conoscere qualche altro fatto. «Sogni tutto a colori, e sempre, oppure solo qualche cosa e ogni tanto?»
Fece la domanda dicendo le parole tutte staccate per farmi capire bene. Io risposi: «Tutto e sempre!». E già che eravamo a quel punto lì dissi: «Anche quando penso, penso a colori. Ogni cosa un colore!».
La notizia fece un forte effetto. Lo zio disse: «Se perdiamo la calma, stiamo freschi!». Dal tono della voce si capiva che lui sapeva cosa bisogna fare in momenti come quello ma mio padre lo guardò un po’ storto. Egli infatti era molto calmo.
La mamma disse che un conto è sognare e un conto è pensare. «Pensare a colori è peggio che sognare a colori» disse. Allora bisognava portarmi dal dottore. Disse anche che il bambino non la teneva per niente tranquilla e perché lo sapeva lei. Tutti insomma sapevano delle cose su di me.
«Qui tutti capiscono tutto» disse il babbo.
Lo zio disse che bisognava stare zitti con la gente perché non si sa mai come va a finire quando in una famiglia succedono delle cose che magari in altre famiglie non succedono.
Pensò un po’ e disse anche: «Non va bene! Troppi colori! Oggigiorno è pericoloso…». La mamma era d’accordo con lui perché lo zio aveva un albergo e sapeva come è fatta la gente cioè se parla o se sta zitta. Il babbo invece non disse niente ma adesso aveva il nervoso anche lui.
Passarono dei giorni e io pensavo ai miei sogni per vedere se in essi c’erano delle cose vere. Quando sognai i tubi della stufa c’era stata la pulizia della cucina economica che si chiamava Germany ed era buonissima perché era stata fatta in Germania dai tedeschi. I tedeschi fanno le cose di ferro molto bene, come elmetti, automobili, cannoni, posate, e infatti esse durano molto di più di quelle fatte da noi o da altre popolazioni.
Mio babbo ogni anno puliva i tubi della stufa e li verniciava con la porporina d’argento così sembravano nuovi. Le prime volte che veniva accesa la cucina economica essi facevano un odore di vernice bruciata e la mamma diceva che in cucina con quel puzzo ci doveva stare lei mica noi. Mio babbo rispondeva: «Insomma, cosa vuoi da Dio?», ma senza arrabbiarsi. Per staccare la fuliggine incrostata dentro i tubi bisognava battere i tubi per terra leggermente perché altrimenti si schiacciavano e non si poteva più infilarli. Metteva un tubo fra le ginocchia, poi ne prendeva un altro e lo infilava in quello di sotto, dondolandosi di qua e di là per farlo entrare.
A me piaceva quando infilava il gomito. Esso era un tubo curvo con tante pieghe che serviva per far voltare la fila dei tubi dentro il muro. Io aiutavo il mio babbo a spingere i tubi ma lui faceva finta di farsi aiutare, perché era molto muscoloso.
Mentre faceva finta disse: «Questo figlio sta benissimo. Uno sta male se sogna a colori e pensa in bianco e nero!».
Ci guardò abbastanza soddisfatto di quella frase. Siccome il babbo aveva la faccia contenta allora tutto in una volta come quando prendevo l’olio di fegato di merluzzo dissi: «Mi capita anche di vedere i colori di un altro colore!».
Tutti si distesero sulle sedie con le gambe larghe e le braccia a penzoloni. Lo zio era un parente e perciò era rimasto in piedi. Mi guardò fisso e con una voce un po’ simpatica disse: «Ragazzo mio, ti vuoi spiegare meglio? Cosa vuoi dire? Fa’ un esempio!».
Io gli esempi non li facevo volentieri perché dopo che li hai fatti non c’è più niente da dire. Però delle volte è meglio farli perché così si fa prima.
Anche il babbo e la mamma mi guardarono fisso come lo zio e allora dissi: «Per esempio, il sole lo vedo verde!». «Verde?» mi domandò la mamma con tutte le due mani dentro i capelli. La mamma aveva una bella testa di capelli. E anche una bella bocca di denti.
«Verde» dissi con la voce bassa.
Quel fatto familiare mi dispiaceva molto e ho pensato che dovevo andare da don Rossi a confessarmi.
Don Rossi giocava a pallone con noi nel campo dei Salesiani. Le squadre si chiamavano «Ausa», che era un canale puzzolente, «Topi grigi» e «Zona infetta». Si capisce dai nomi che stavamo in un posto mica tanto pulito ma non ci è mai venuta nessuna malattia neanche nella melma del canale e mio padre diceva che tutto quello che non affoga ingrassa. Lo diceva per modo di dire. Io ero dell’«Ausa» e giocavo in porta. Mia mamma mi aveva fatto le mutandine nere con l’imbottitura di fianco così se mi buttavo sentivo meno male.
«Ti confesserò domenica. Cos’è questa fretta?» mi disse. Infatti era giovedì. «Io verrei stasera alla Benedizione» dissi invece io.
Quando furono le ore 17 entrai in chiesa. C’erano solo delle vecchie che non fanno più i peccati e stanno in chiesa come a casa, fanno anche dei lavori con la lana. Una per tenersi su si portava dietro una bottiglia chiamata Vov che è bianca e non si vede se uno ha bevuto, era un regalo della nipote che voleva darle un ricostituente, ma è morta e la nonna beve un sorso ogni tanto perché dice che non vuole fare la fine della nipote…
Don Rossi mi fece sedere davanti a lui su una panca. Egli si metteva in costume sulla spiaggia e qualcuno diceva che un prete deve fare il bagno a casa sua. Però molti genitori volevano mandare da lui i loro figli. Il mio babbo diceva che i Salesiani vanno rispettati. Don Bosco infatti non era mica un vagabondo.
«Cosa c’è?» mi domandò don Rossi con voce un po’ frettolosa. «I miei sogni hanno un difetto!» «Che difetto?» «Sono colorati!» «Colorati come?» «Colorati come le cose che si vedono, rosse, gialle, blu…»
Allora, quasi all’improvviso, disse: «La Madonna che colore ha?»
Si capiva dalla domanda che ai miei sogni ci credeva, altrimenti la Madonna la lasciava stare. «Azzurro» dissi. Infatti la chiesa si chiamava di Maria Ausiliatrice per via della statua sopra l’altare che era tutta dipinta di colore azzurro mentre Gesù che era molto più basso aveva la camicia da notte bianca.
«E se sogni uno come me vestito tutto di nero, di che colore lo vedi?» «Non lo so perché non ho sognato un prete neanche una volta…»
«Veramente, io non stavo pensando ai preti, c’è tanta gente vestita di nero senza essere in lutto…» disse lui guardando di qua e di là e con la voce un po’ più bassa. Poi mi ha detto: «Ma ci sono delle cose che non sogni a colori?».
Ci pensai e dissi: «Sì, la lavagna, il gesso, la nebbia, i manifesti da morto, il “Resto del Carlino”, il pianoforte, la Juventus, la neve, le rondini e altre cose che non mi ricordo». Don Rossi quando parlava metteva una gamba sopra quell’altra e allora si vedeva lo stivaletto con tanti bottoni in fila, neri come quelli della veste ma molto più piccoli. Saranno stati trenta e anche di più. Mentre li contavo, lui con un dito si toglieva il sudore sotto il colletto bianco e muoveva la testa facendo anche delle smorfie forse per il caldo. Poi disse: «Perché ti vuoi confessare?».
«Perché, se gli altri non sognano a colori, vuol dire che faccio peccato…» «E chi ti ha detto che è peccato fare le cose che gli altri non fanno? Bisogna vedere…»
Non sapevo cosa rispondere ma se era per il costume da bagno per me andava bene come faceva lui. Però non dissi niente ed egli mi fece un discorso. Me lo ricordo perché era molto bello.
Il mio babbo, che con i preti andava così così, mi disse che aveva ragione don Rossi e io fui contento.
«Si parte domattina presto» aveva detto il babbo, che ci fece salire in classe terza. Io stavo un po’ fuori dal finestrino e lui mi teneva con un dito infilato nella cinghia. La mamma invece guardava da un’altra parte perché non mi voleva vedere in quella posizione. Mia mamma non poteva mai stare alla finestra perché diceva che cadeva di sotto. Poi mi entrò un po’ di fumo in un occhio allora la mamma si voltò di scatto e con voce non molto bella disse al babbo: «Sei contento adesso?», e si sono guardati mica tanto bene… Però una volta il tovagliolo della mamma era caduto sotto la tavola e per prenderlo si sono toccati la testa, e lui ha baciato i capelli della mamma. Io li ho visti. Poi sono tornati su e hanno fatto finta di niente. Io anche.
Quando arrivammo dal Professore egli era molto frettoloso e mio babbo disse alla mamma: «Cominciamo bene…». Mi guardò in fondo agli occhi con una lampadina, poi mi fece guardare i punti che diceva lui e mi disse di camminare con le braccia larghe e gli occhi chiusi. Quando li ho aperti fece con le labbra un mucchietto e disse solo: «Um!». Allora il mio babbo chiese il conto al Professore. Egli disse che non mi aveva trovato niente però il babbo gli ha dato i soldi lo stesso.
La mamma gli domandò se mi dovevano portare da un altro Professore, quello del sistema nervoso, ma lui si mise a sorridere e disse: «Io il figliolo lo lascerei stare! Ha solo un po’ di immaginazione…».
In treno ho chiesto al babbo cosa vuol dire immaginazione, lui ci ha pensato un po’ e ha detto: «Immaginazione è quando vedi delle cose che magari altri non vedono…».
Io sono rimasto un po’ impressionato però lui se ne è accorto e ha detto: «Ma vedere quello che altri non vedono non è niente di male! Anzi certe volte è anche un bene!».
Stette un po’ zitto poi si grattò la testa e voltato verso il finestrino disse: «Anche se bisogna stare attenti perché l’immaginazione delle volte va bene e delle volte non va bene! La vita non è tutto bianco o tutto nero!». Poi con un piccolo sorriso disse così: «Ne vedrai di tutti i colori bambino mio!».
Allora fui molto contento per i colori e per il bambino mio. Ma soprattutto per i colori. Arrivò il controllore dei biglietti. Li ha messi uno sopra quell’altro e ha fatto un buco con la macchinetta. Il mestiere di fare i buchi nei biglietti è molto diverso dagli altri perché si fa con le gambe larghe altrimenti uno cade o va a sbattere.
D’inverno qualche sera i miei genitori facevano andare il grammofono. Allora invitavano delle persone che stavano di casa vicino a noi. Io e i miei fratelli andavamo a letto ma non dormivamo perché volevamo sentire i discorsi. Io ero molto contento e una volta mi è venuto quasi da piangere perché sentivo la mamma che si divertiva molto e parlava con la voce differente. Nei bicchierini metteva sempre la marsala oppure il vermut e si sentivano molti grazie e lei diceva ma si figuri e altre frasi gentili e anche educate. Il babbo invece metteva su i dischi. Nell’etichetta c’era un cane che ascoltava la musica seduto davanti al grammofono e quando il disco cominciava a girare girava anche lui. Quando il disco stava per fermarsi il babbo caricava il grammofono con la manovella e il cane ricominciava a girare sempre più svelto. Il disco era pieno di righine per farci stare dentro la puntina del grammofono. Insomma bisognava immaginare molto altrimenti si doveva pensare solo a quello che già c’era e basta. Mia mamma secondo me immaginava abbastanza, quasi quasi avevamo lo stesso difetto. La domenica mattina quando faceva i letti cantava qualche canzone imparata dai dischi e più che altro le piaceva son fili d’oro. Mentre cantava si capiva che stava immaginando perché nel cantare sorrideva, oppure si fermava per molto tempo a spolverare sempre la stessa cosa mentre guardava fuori dalla finestra.
Sono passati molti anni, adesso chi sogna in bianco e nero deve essere molto povero oppure è uno che ha un carattere triste e si trova meglio col grigio non solo nei vestiti ma anche quando dorme. Solo quando è venuto il cinema e la televisione a colori i bambini hanno cominciato quasi tutti a sognare e a pensare colorato, ma prima come ho detto era un difetto.
I bambini oggi sono più fortunati perché ci sono molti colori e si può scegliere quello che vuoi, ma anche perché se dicono una cosa un po’ strana i grandi mica li portano dal dottore. Infatti una volta mentre pensavo un po’ troppo il maestro disse: «Guarda questo scolaretto che invece di pensare sta immaginando!».
Per me pensare e immaginare si assomigliano ma per molta gente non va bene nemmeno oggi se uno sogna come gli pare e ha tutte le immaginazioni che gli vengono in mente.
Così ho raccontato il mio difetto dell’infanzia. Che poi era un difetto per modo di dire.
***
Chi ha scritto questo documento? In realtà, ero io che volevo raccontare un episodio della mia prima giovinezza con le parole di allora. E vorrei chiederti, Andrea, di partecipare a un’amabile finzione, che ti sarà chiara quando ne capirai il senso non più recondito. Gli è che nello scrivere pensavo alla tua immaginazione. E mi è venuto in mente di portarti con me, lungo queste pagine, camminando insieme e tenendoci per mano come quando stavo con la mia in quella di mio padre. Lo so, è un rimando un po’ acrobatico di ruoli e sentimenti, ma mi rallegra immaginare te alla mia età di allora, e me alla tua di oggi. Non so che cosa potrà venirne al libro, ma confido che un giorno questo scambiarci le nostre vite quasi per gioco possa tenere ancora più vivo il nostro reale sodalizio.
Forse è di taglia troppo larga, alla mia età, l’idea di un libro che mette insieme farfalle e pachidermi, lucciole e lanterne, carezze e finimondi; e sono qui, ancora in cerca, con un racconto dovuto a estri e pressioni editoriali, microfoni e lapis, pagine documentali e altre di tonalità, per così dire, d’autore. Vorrei che il libro procedesse galoppando a fruste levate contro le tentazioni crepuscolari del quasi scomparso, del prossimo a finire, insomma del morente; o addirittura già morto, rimasto solo in un’aura fatta di parole suggestive, nate per essere poetiche, secondo le deboli clausole dello stile di antica memoria.
Con i tuoi anni, Andrea, al tempo mio saresti stato poco meno di un «figlio della lupa». Si chiamavano così i bambini in grado di portare una divisina che li faceva tutti «romani», cioè allevati da una lupa, generosa e paziente, che dentro un cesto abbandonato lungo il Tevere aveva visto due pargoli, Romolo e Remo, e se li era messi sotto la pancia per consegnare qualcosa di «eterno» ai fondatori di Roma. Il latte di una lupa doveva dire di che razza svelta, coraggiosa e temibile avrebbero fatto parte i due gemelli; che, nati da Marte e succhiato quel latte, non ci pensarono un minuto: si misero subito a litigare sul confine che segnava la nascente città. Remo, per scherno, lo aveva varcato e Romolo, futuro re di Roma, pensò di chiarire la faccenda con un largo anticipo, cioè ammazzando suo fratello.
I «figli della lupa» portavano, al centro del petto, una «M» che voleva dire Mussolini. Figli anche suoi, parve dire quel simbolo, destinato a riunire due razze di quelle che si fanno notare. Anche tu, Andrea, saresti stato ammesso alla parte tenera del corteo, che luccicava negli occhi delle mamme. Sfilavate per primi, un po’ a sghimbescio, con le maestre che vi rimettevano in riga a ogni piccola sbandata, cioè continuamente.
A Buenos Aires, ai tempi di una lunga dittatura, come uscivi dall’aeroporto e t’immettevi sulla grande autostrada che porta nella capitale trovavi un’enorme scritta: «In questo Paese gli unici privilegiati sono i bambini!». A prescindere dal contesto, era un’idea gentile. E anche in Cina, oggi, nel primo treno veloce che unisce Pechino a Shanghai ho letto un dépliant nel quale era scritto, in cinese e in inglese: «I nostri bambini prenderanno con gioia tutti i treni del mondo, e conosceranno la nostalgia per la loro Patria». Peccato che in piazza Tian’anmen, «la Porta della pace celeste», abbiano anticipato quel progetto stroncando con i carri armati la prima voglia di libertà degli studenti, i quali volevano semplicemente avvicinare il giorno di quella gioia garantita dai treni in viaggio per il mondo.
Le ferrovie si prestano molto ai discorsi sui bambini: i treni che li portavano nelle colonie marine tra Rimini e Riccione ribollivano d’entusiasmo, e si erano fatti una loro reputazione anche quelli chiamati, genericamente, «popolari», cioè per le famiglie.
Con le chitarre dei Beatles, Yesterday e Let it be al posto di Birimbo Birambo e Fiorellin del prato, non avremmo cantato «per vincere ci vogliono i leoni», né avuto un solo sospetto sulla necessità di «credere, obbedire e combattere». Dovemmo accordare la giovinezza sulle tonalità di una patria smisuratamente radiosa, anziché ascoltare un poeta che ci incitasse a credere in «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Anziché farci cantare «Dio ti manda all’Italia come manda la luce, Duce, Duce, Duce!», sarebbe stato sufficiente elettrificare il Paese; e tralasciando il volo delle aquile prendere per modello quello delle allodole, che corrono veloci dentro i campi di grano. Eppure, in quella strana gioventù imparammo anche a essere felici; e lo fummo, perché gli anni giovani modellano la bellezza a nostra insaputa, e si cresce anche al di fuori di noi: per esempio, a tredici anni, fingendo di rivivere una remota magnificenza romana, addirittura imperiale; e perché non ci distraessimo da quel destino rullavano i tamburi e squillavano le trombe.
Ma, lo dico per amore di metafora, non avemmo le chitarre. Chissà se un solo accordo, una semplice carezza delle dita sulle corde – un suono, insomma, estraneo a tutto quel fragore – non sarebbe parso una premonizione. Charlie Chaplin, mentre a Norimberga l’inseminatore di una nuova razza pron...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il ragazzo che io fui
  3. Non avevamo le chitarre
  4. Venuti dal mare
  5. Parole come uccelli
  6. Ritornarono anche le maschere
  7. Quella S e quella I
  8. I giorni della conchiglia
  9. Quel giorno, quando rinacque l’uomo
  10. La sfortuna, mito triste della grandezza
  11. «Osta, lui!»
  12. Prima e dopo la Luna
  13. Tra giardini e boscaglie
  14. La preghiera del padre
  15. Silenzi e grida
  16. La rabbia, i fiori e le chitarre
  17. Le voci della notte
  18. E se finiscono le parole
  19. Siamo nati per vivere
  20. L’infanzia negata
  21. Il bambino che non ride più
  22. La scienza e l’etica
  23. Copyright