Ho smesso di piangere
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Ho smesso di piangere

La mia odissea per uscire dalla depressione

,
  1. 168 pagine
  2. Italian
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Ho smesso di piangere

La mia odissea per uscire dalla depressione

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Informazioni sul libro

Il problema vero della depressione è che non la puoi raccontare, non la puoi descrivere. È invisibile. E non è uguale per tutti. Ma per tutti è un male profondo e assoluto. E va affrontata, perché tanto non si scappa. Anche per questo Veronica Pivetti ha deciso di condividere con noi il suo momento buio. E lo fa con toccante onestà, senza censurare i momenti dolorosi che, come spesso accade nella vita, finiscono per diventare involontariamente molto comici. ''Lei è malata, la sua tiroide non funziona più'': questo si è sentita dire Veronica nel lontano 2002. Era così. La sua tiroide ha cominciato a dare i numeri, si è starata e l'ha traghettata verso una forte depressione, complici alcuni farmaci sbagliati che le erano stati prescritti. Così è iniziata la sua odissea medica. Alcuni dottori l'hanno salvata, altri massacrata, alcuni le hanno ridato la vita, altri gliel'hanno tolta. E finalmente, nel 2008, Veronica ha incominciato a rivedere la luce e a uscire da questo micidiale periodo nero. Sono stati sei anni infami, "anni nei quali mi sono detta continuamente che era inutile vivere così. Il tempo triste sembra sempre tempo perso". Anni difficilissimi che, però, non sono passati senza lasciare un segno. "Una volta ero perfettamente funzionante, ero nuova di trinca. E credevo che fosse quella la verità. Ora sono un po' rattoppata, ho un'anima patchwork e una psiche in divenire. Ed è questa la verità. Ma va bene così, perché la vita si fa con quello che c'è, non con quello che vorremmo.

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Informazioni

1

«E mi raccomando, torni presto a farci ridere!» mi ha urlato il dottor Tognetti mentre uscivo dal suo studio.
Quella mattina, come molte altre prima, avevo sperato di morire d’un colpo. Sotto una macchina? D’infarto? Poco importava, purché avvenisse e mi liberasse una volta per tutte dal dolore.
Perché soffrivo? Di cosa?
Di depressione, e non lo sapevo.
Risentivo quella frase... torni presto a farci ridere! Maledetto, l’avrei preso a calci in culo quel coglione. Io morivo lentamente, andavo a pezzi, e lui manco se n’era accorto.
Nemmeno lo immaginava che stessi in piena depressione e che la colpa fosse anche dei farmaci sbagliati che mi aveva dato un suo illustrissimo collega. Dio santo, che associazione per delinquere.
I medici mi hanno salvato, i medici mi hanno massacrato.
Alcuni medici mi hanno ridato la vita, altri me l’hanno tolta, o almeno ci hanno provato con molto impegno e poca coscienza. Alla faccia del giuramento di Ippocrate.
Ero depressa. La mia era una depressione non reattiva, cioè, non era stata scatenata da un fatto negativo. La depressione non reattiva può essere su base organica o iatrogena. Io avevo entrambi i tipi.
La solita perfezionista.
Mi ero ammalata alla tiroide, una ghiandola molto importante e altrettanto suscettibile che abbiamo nella parte anteriore del collo. Era successo in seguito a una tiroidite, una malattia che, nella maggior parte dei casi ha un esordio lento e molto raramente si presenta in forma acuta. Naturalmente io l’avevo avuta in forma acuta con relative conseguenze, acute anch’esse. Anzi, acuminate. Puntute e taglienti come coltelli.
È cominciato tutto una notte, a Bologna, durante una tournée teatrale.
Saranno state le due, le tre. Mi sono svegliata col corpo che andava a fuoco, mi faceva male tutto, sembrava che mi avessero spaccato le ossa.
Mi sentivo come minimo quaranta di febbre, pareva che il lenzuolo sfiorasse la carne viva. Sono andata in bagno a vomitare, avevo anche la diarrea. Una vera figa.
Dopo aver prodotto un’esagerata quantità di materiale di scarto mi sono rimessa sotto le coperte, convinta che mi stesse arrivando un’influenza tremenda. Ma la fronte era fresca, non scottavo affatto.
Ho tirato in qualche modo le sei del mattino e mi sono fatta chiamare un medico generico dall’albergo il quale, dopo un’occhiatina standard, ha azzardato che sì, forse mi stava proprio venendo l’influenza.
Eppure ero freschissima, avrei potuto refrigerare una stanza di cento metri cubi se mi ci avessero lasciato dentro con porte e finestre sigillate.
Ricordo bene lo sguardo impotente e il mezzo sorriso con cui quel signore annaspava in cerca di una diagnosi mentre io, spellata viva, mi dibattevo sotto le lenzuola come Linda Blair nel famoso film.
Il perplesso dottore, ovviamente, non immaginava di trovarsi di fronte a una tiroidite da manuale, né il sospetto lo ha sfiorato minimamente.
Come se non bastasse, tra un ululato e un rantolo io facevo battute e la buttavo sullo scherzo confondendogli ulteriormente le idee.
Questo è un mio grande limite. Non rinuncio a ironizzare sulle situazioni che mi vedono in difficoltà. Più me la vedo brutta più faccio la spiritosa, così gli altri ridono e col cacchio che mi prendono sul serio. Ovvio che poi non mi devo lamentare se nessuno crede alle mie sciagure.
Comunque, il medico spaesato ha diagnosticato un’influenza fantasma e se n’è andato.
Ho tentato di dormire per qualche minuto ancora, ma inutilmente. Quando non turibolavo sotto le coperte, vomitavo o defecavo, tutte cose che, come si sa, si fanno da svegli.
Il giorno stesso, avevo un appuntamento con un tizio che aveva vinto un pranzo in mia compagnia. Sì, lo so, è folle, ma a questo mondo esistono anche cose del genere: che una persona vinca la possibilità di passare un paio d’ore con un attore che gli piace. O un’attrice. Nella fattispecie io. Mi sarei sparata.
Sapevo che non sarei riuscita nemmeno a guadagnare la porta della mia stanza d’albergo in posizione eretta, figuriamoci se avrei mai potuto sostenere una bella mangiata con un fan. E avrei anche dovuto essere carina e affabile, perché ’sto disgraziato, giustamente, si aspettava l’attrice ridanciana e alla mano che era abituato a vedere in televisione.
Non è che io generalmente mi metta in palio per pranzi e cene, ma era successo che un’organizzazione di beneficenza di Bologna, la città nella quale recitavo in quel momento, mi avesse chiesto se ero disposta a regalare un paio d’ore di tempo come premio in una sorta di riffa.
Avevo detto sì.
Il malcapitato che aveva vinto ’sto pranzo sarebbe venuto all’appuntamento in compagnia di una delle incaricate dell’organizzazione di beneficenza e tutti insieme saremmo andati al ristorante. Dio santo.
Stavo sotto le coperte come una salma. Lazzaro, il giorno della resurrezione era sicuramente più in forma di me, pur essendo già di quattro giorni. Non a caso, lui era risorto.
Come se non bastasse, quella sera, ovviamente, avrei dovuto fare lo spettacolo.
Mi aspettava una giornata d’inferno. Speravo almeno di non vomitare in faccia a quel poveraccio che era stato estratto a sorte.
Durante il pranzo mi sono alzata di continuo per correre in bagno, proprio come Doris Day nel film Il visone sulla pelle, che ogni cinque minuti si ferma a una stazione di servizio sulla statale per fare pipì sperando di farsi raggiungere da Cary Grant di cui è pazzamente innamorata. Ahimè qui non c’erano né Cary, né Doris, c’ero solo io con la diarrea.
Che avranno pensato di me quei due al tavolo del ristorante? L’interessato avrà mai più comprato un biglietto della lotteria?
Non ricordo quasi nulla di quell’esperienza, ma sono sicura di aver dato di me un’immagine schifosa. Un’attrice non giovanissima, malaticcia, cupa e incontinente.
Verso le tre del pomeriggio ho riportato le mie stanche membra e i miei intestini infiammati in albergo, ributtandomi sotto le coperte in attesa di andare in teatro verso le sei. Presto, lo so, ma io amo arrivare prima, molto prima, ovunque debba andare.
Ho fatto non so come lo spettacolo e, tornata in albergo, sono svenuta fino alla mattina dopo.
I giorni seguenti la situazione è migliorata. Non so perché. Non mi ero curata affatto e continuavo a non sapere cosa mi fosse successo, ma la mia vita si è normalizzata. Tanto che ho finito la tournée in santa pace.
Però dimagrivo.
Dimagrivo a vista d’occhio, mangiavo come un bue, cagavo di conseguenza e avevo la tachicardia fissa, di giorno e di notte. Ero anche diventata totalmente insonne. Ero in uno stato di eccitazione totale, e quando dico eccitazione è chiaro cosa intendo. Anche dal punto di vista sessuale avrei potuto dar lezioni a Linda Lovelace e alle sue colleghe, se non per l’inventiva almeno per la quantità di tempo impiegato a scopare.
Sorge spontanea la domanda: perché voler guarire da uno stato di grazia del genere quando c’è gente che si piglia delle pasticche e si applica delle pompette per raggiungerlo? Sono ancora qui che me lo chiedo, ma credo che, in tutta onestà, gli eccessi possano essere divertenti se li decidi tu, non se li decide il tuo corpo, tuo malgrado.
È pur vero che sono sempre stata una persona molto attiva, quasi agitata. Anzi, proprio agitata. Tanto per dirne una, è da quando sono nata che, per riuscire ad addormentarmi, devo assolutamente muovere ritmicamente le gambe cullandomi fino a che il sonno non arriva. Non riesco mai a stare veramente ferma, perché c’è sempre una mia gamba che saltella come l’ago della macchina da cucire, anche se il resto del corpo è costretto all’immobilità. Sembra la gamba di un’altra persona, segue un ritmo tutto suo e non si ferma nemmeno se le metti un piombo alla caviglia.
Nonostante questo curriculum da agitata cronica, quando il mio corpo ha cominciato a dare i numeri e a farmi eccedere in tutto ho pensato che, forse, qualcosa non andava. Oddio, trovatemi una persona che si dispiace di dimagrire mangiando in continuazione e che si rammarica di andare di corpo come un’oloturia. Non c’è, non esiste, tutti sappiamo che mangiare ed espellere sono attività che rendono la nostra vita veramente degna di essere vissuta. Ma io stavo esagerando.
Infatti, quando anche il cuore ha cominciato a saltellarmi in petto come una molla, la questione si è fatta più delicata.
Mi sono ritrovata un giorno in sella alla mia bicicletta mentre pedalavo freneticamente per arrivare a villa Glori, splendido parco di Roma. È vero, stavo facendo una salita, ero affaticata, ma il cuore mi batteva talmente forte che non sentivo più il rumore del traffico. Non sentivo i clacson, le moto che mi sfrecciavano di fianco, le pernacchie assordanti dei motorini...
Sentivo solo il martello del mio cuore tachicardico che mi spaccava i timpani perché stava per saltare fuori dalla cassa toracica. Alien.
Sono arrivata a destinazione convinta di esplodere di lì a poco e mi sono seduta su una panchina.
Ero distrutta, sudata come un bue e praticamente sorda.
Non lo sapevo ancora, ma, come mi disse il medico che mi visitò qualche tempo dopo, avevo rischiato un infarto.
Lì a villa Glori, totalmente ignara, mi sono limitata a riposare un po’, a tentare di respirare con un ritmo che non ricordasse una bossa nova e a farmi passare la paura.
Poi mi sono rimessa in cammino portando a mano la mia bicicletta e giurando a me stessa che non l’avrei usata mai più. E così ho fatto.
Per la poca dimestichezza che ho sempre avuto con le medicine e il totale disinteresse nei confronti di tutto ciò che è salute in generale, non mi sono precipitata da un dottore a raccontare quello che mi era successo, come avrei dovuto fare. Una vera deficiente. Grazie a Dio, però, proprio in quei giorni, dovevo presentare una serata benefica organizzata da alcuni medici che raccoglievano fondi per un’associazione di volontariato.
Mentre stabilivo col socio fondatore dell’associazione il programma della serata, mi è venuto in mente che tutto sommato era un medico e che avrei potuto anche raccontargli quello che mi era successo.
Gliel’ho raccontato e l’ho visto impallidire. Mi ha ordinato di fare immediatamente le analisi della tiroide.
«Di che?» gli ho chiesto io.
Mi ha spiegato cos’era la tiroide, mi ha spiegato a che serviva e si è raccomandato, una volta fatte le analisi, che gliele portassi a vedere.
«Ok, lo farò» ho detto.
Quindi, dopo forse dieci anni dall’ultima volta che avevo visto l’ago di una siringa, sono andata a farmi un bel prelievo.
Era il 14 giugno del 2002.
Risultato: un disastro. I miei valori tiroidei erano molto simili al gioco del lotto: numeri a caso più il jolly.
Ho portato al dottore la cartellina e lui mi ha spedito immediatamente da un suo amico endocrinologo dal quale sono andata fiduciosa e baldanzosa.
A quel punto sono cominciati i miei guai.
8 luglio 2002.
Il dottor Simoni, dopo un’attenta analisi delle mie analisi, mi ha chiesto come mai non fossi morta.
«Non saprei» ho risposto. Sembrava deluso.
Così lo ha chiesto anche alla mia amica Giordana che mi aveva accompagnato alla visita.
Anche lei non sapeva che rispondere. Ero inequivocabilmente viva, che gli piacesse o no.
Simoni ha mostrato tutto il suo disappunto per la nostra scena muta e ha deciso di tranquillizzarci dicendo che era solo questione di tempo: avrei potuto avere un infarto da un momento all’altro. Sembrava quasi soddisfatto, ma questa potrebbe essere una mia visione distorta dettata dal rancore.
Il livello di ipertiroidismo a cui ero arrivata, ha detto Simoni, mi metteva di diritto fra quei malcapitati che da un momento all’altro avrebbero potuto fare il botto.
Il mio primo pensiero è stato Che culo! L’ho scampata!
Il primo pensiero di Giordana è stato Oddio, sta morendo.
Questo, tanto per dare un’idea del mio modo di vedere la vita e di quello della mia migliore amica.
Preoccupato per la mia situazione sanitaria, Simoni ha detto che era assolutamente necessario sistemare la mia tiroide. Dovevo cominciare una cura, lui mi avrebbe seguito passo passo.
Per la cronaca, ecco alcuni sintomi dell’ipertiroidismo: dimagrimento (ne ho già parlato, mangiavo e dimagrivo. Divertente, ma sospetto), intolleranza al caldo (sudavo anche da ferma), tachicardia (assordante), diarrea (sempre. E lì ho capito che ne uccide più la stitichezza che la spada perché ero circondata dall’invidia generale), nervosismo, tremore alle mani, irregolarità mestruale (il gioco della tombola sarebbe stato più scientifico), occhi sbarrati o sporgenti (non è successo, ma ho passato intere mezz’ore a fissare lo specchio temendo di sbulbar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ho smesso di piangere
  3. Prefazione
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. Copyright