L'altra faccia della Terra
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L'altra faccia della Terra

Storie di donne senza diritti e di donne che lottano per ridar loro dignità

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  1. 180 pagine
  2. Italian
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L'altra faccia della Terra

Storie di donne senza diritti e di donne che lottano per ridar loro dignità

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Informazioni sul libro

Saima, torturata e uccisa dal padre per aver cercato, con il ragazzo che si era scelta, una vita diversa a Karachi. Marie, che dopo aver perso la figlia Laurette nell'epidemia di colera seguita al terremoto di Haiti, ora insegna alle altre donne in una scuola di Medici senza Frontiere come difendersi dall'infezione. Marie Lucie che ha vagato due giorni fra le macerie di Portau- Prince stringendo a sé la piccola Marianne. Lidia, di Guatemala City, caricata a forza su un'auto e violentata tra la folla in un mercato. Anaya che ha partorito a sessanta miglia da Lampedusa su una carretta del mare in avaria. Jeany e Mercy, infettate dal virus dell'hiv in Malawi, che si curano e continuano a sperare.
Sono solo alcune delle storie al femminile che Monica Triglia ha raccolto nei centri di Medici senza Frontiere, negli ospedali dove operano i suoi dottori e il suo personale. Racconti di donne senza volto, su cui i riflettori non si accendono mai, donne ferite, violate, emarginate. Ma anche di donne che, un giorno della loro vita, hanno preso una decisione esaltante e difficile al tempo stesso, quella di entrare a far parte di msf. "Essere donna al mondo, soprattutto nelle zone in cui operiamo noi di Medici senza Frontiere, è ancora sinonimo di discriminazione, vulnerabilità, insicurezza, meno accesso alle cure e quindi maggiore suscettibilità a malattia e morte. Essere donna tra gli ultimi della Terra significa essere l'ultima tra gli ultimi. Curare una donna, restituirle la salute, significa irrobustire tutta la sua famiglia, significa dare una chance in più ai suoi figli, significa irrobustire la sua comunità, rafforzare la rete sociale."
A queste donne dimenticate Monica Triglia ha regalato una voce: attraverso le testimonianze raccolte in Pakistan, Haiti, Guatemala, Lampedusa, Malawi in contesti drammaticamente difficili, ci fa scoprire un mondo lontano ma di grande impatto emotivo, e ci dice, una volta di più, che se si vuole dare una speranza di futuro e di sviluppo a un Paese in difficoltà, si deve partire dalla donna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852020438
Categoria
Travel

Pakistan

Non giudicare

«Non giudicare.» Sono atterrata da tre ore a Islamabad e Benoît De Gryse, belga alto e biondo con il volto segnato dalla fatica, capomissione di Medici senza Frontiere (MSF) da due anni in Pakistan, si presenta così, con queste parole.
«Vuoi raccontare le donne? Vedrai sofferenza e povertà e situazioni estreme. Neonate che muoiono di fame, bambine vendute come spose a uomini vecchi, mogli che sono uscite per la prima volta dalla casa del marito solo per salvarsi dall’alluvione. Vedrai questo e anche peggio. Ma non giudicare.»
Io lo guardo, intontita dal viaggio e dal fuso orario, e mentre lo sento elencare le cose che non potrò fare per ragioni di sicurezza («Non uscirai mai da sola, non uscirai mai col buio, non uscirai a piedi, non ti avvicinerai agli alberghi internazionali e ai ristoranti e ai mercati, non stringerai la mano agli uomini perché sei una donna, non ti mostrerai con il capo scoperto, non indosserai i jeans ma il salwar kamiz, l’abito tradizionale pakistano…») mi tornano in mente alcune tra le notizie di agenzia lette la settimana prima di partire. Dieci persone saltate in aria nel corso di un’offensiva militare dell’esercito pakistano contro basi talebane. Altre diciotto uccise nell’esplosione di due autobus per un attentato suicida. Il coprifuoco parziale dichiarato a Karachi, la capitale economica ma anche la città più feroce del Pakistan, dove in un mese sono stati ammazzati novanta tra politici, giornalisti, poliziotti. La bomba esplosa davanti a una scuola di Peshawar. Il processo ad Asia Bibi, la madre cattolica condannata a morte per blasfemia… Uno stillicidio quotidiano di violenza, di morte.
Ci penso e mi chiedo: sono notizie o sono già giudizi?
«Non giudicare.» Cercherò di non farlo durante questo viaggio in un Paese devastato nel luglio 2010 da uno dei peggiori disastri naturali della sua storia. Alluvioni monsoniche di una violenza mai vista hanno travolto un quinto del territorio, facendo duemila vittime. Due milioni di case di fango sono state «sciolte» dall’acqua; 10 mila scuole e centri sanitari rurali sono stati danneggiati; ponti, strade, sistemi idrici sono andati distrutti. In Pakistan non pioveva così da ottant’anni: milioni di persone – da 14 a 21, di cui la metà bambini (di questi, 3 milioni sotto i 5 anni) – hanno lasciato le loro case e i loro villaggi e hanno cercato scampo fuggendo, dormendo nelle strade risparmiate dal fango, nelle scuole diventate ostelli e nei campi di sfollati. Una catastrofe paragonabile, per numero di gente coinvolta, allo tsunami del 2004 nell’oceano Indiano, che ha piegato un Paese dove, già prima dell’alluvione, quasi 4 persone su 10 vivevano sotto la soglia di povertà, dove 2 donne su 3 non sanno leggere e scrivere, dove muoiono tanti bambini (66 ogni 1000 nati) e tante mamme (320 decessi su 100 mila parti).
«Siamo in Pakistan* dagli anni Ottanta: all’inizio per sostenere i progetti in Afghanistan. E a partire dal 1986, abbiamo garantito l’assistenza sanitaria di emergenza ai rifugiati afghani nei campi vicino a Peshawar. Siamo intervenuti anche per il terremoto nel Kashmir nel 2005 e per le inondazioni nel Baluchistan seguite al ciclone Yemyin nel 2007» mi spiega Benoît. Condizioni difficili complicate dal conflitto in Afghanistan e dall’escalation dei combattimenti tra le forze armate pakistane e i gruppi di opposizione nella Provincia di frontiera del Nordovest e nelle zone tribali federalmente amministrate. Scontri che nel 2009, dopo l’offensiva dell’esercito contro i talebani, hanno costretto alla fuga oltre 2 milioni di pakistani. Ora la situazione resta tesissima. Dopo l’uccisione di Osama bin Laden, si sono intensificati gli attentati kamikaze per la maggior parte commessi dai talebani che hanno giurato fedeltà ad al Qaeda.
«È in questo contesto che opera Medici senza Frontiere» dice Benoît. E lo fa, inspiegabilmente per me, almeno per ora, con un sorriso. Il primo e l’unico che mi riserverà nel corso del nostro incontro. Mi sarà chiara solo alla fine la forza di un sorriso da chi affronta tragedie umane.
Vivere in Pakistan è duro, e per le donne è durissimo. Lo capirò mentre, coperta dal velo, mi muoverò prima impacciata, poi soffocata, poi quasi rabbiosa di non essere libera. Lo capirò salendo sull’aereo che da Islamabad mi porterà a Karachi: unica donna insieme a duecento passeggeri maschi. Lo capirò ascoltando, impotente, le storie di bambine che mangiano solo se ai fratelli maschi avanza il cibo, destinate a essere vendute dalle famiglie in un mercato di carne umana nel commercio dei matrimoni, senz’altro futuro se non quello di esistere per obbedire ai padri, ai fratelli, ai mariti. O storie di donne che negli ospedali arrivano (quando arrivano) massacrate di botte, e consapevoli che non potranno fare altro che tornare a casa, dai loro aguzzini.
Come si fa a non giudicare, Benoît? Come fanno le dottoresse, le psicologhe, le responsabili di progetto, le logiste che lavorano per voi a non giudicare un Paese che considera le donne ancora come schiave? Come si fa a sospendere o a rinunciare a carriere di prestigio, vite comode, amicizie e amori per venire qui, «a dare una mano» e scoprire che le scuole femminili sono fatte saltare in aria per impedire alle bambine di studiare? Si fa, e lo si fa senza dare giudizi. «Vogliamo aiutare, occuparci dei bisogni medici delle popolazioni povere. Ci sono donne che prima dell’alluvione non erano mai uscite di casa o dal villaggio. Il loro ambiente è molto conservatore, non a causa della religione [musulmana per oltre il 95 per cento della popolazione] ma per cultura e povertà. Le famiglie vivono di agricoltura in un sistema fondamentalmente feudale, basato su grandi proprietari terrieri che affittano le terre ai contadini. In queste zone per le donne lavorare è più difficile, molte non escono mai da sole e quando lo fanno si coprono con il burqa o sono accompagnate dai padri e dai fratelli. Noi dobbiamo tenerne conto. Perché non possiamo cambiare la storia.»
Ecco il monito di Benoît. Me lo confermerà Giorgia, la psicologa che aiuta le bambine e le donne del Sindh a superare i traumi dell’inondazione. Insegna alle mamme che i bambini piangono per fame e non per cattiveria, convince le suocere a permettere alle nuore di curare i figli denutriti. Me lo racconterà Olga, la ginecologa che a Hangu, Nordovest del Paese non lontano dall’Afghanistan, davanti alle donne picchiate che le chiedono gli antidepressivi per sopravvivere alla disperazione, vorrebbe gridare di rabbia. E invece le cura e le conforta.
Rabia, che nessuno ha voluto comprare
A Jamshoro, distretto del Sindh, nel campo degli IDP (Internally displaced people, persone costrette a fuggire dalle loro case per l’alluvione), un gruppo di ragazzine infila collane e chiacchiera sotto l’occhio vigile di due operatrici pakistane del Mental health team, il team di supporto psicologico di Medici senza Frontiere. Fatima, Mithee, Haleemma, Rajul… parlano della fuga per la salvezza, della loro nuova vita qui, dove mai sarebbero arrivate se non ci fosse stata l’inondazione. Chi ricorda la casa dove viveva, chi le piccole cose perdute, chi il fratello o la nonna che non ce l’hanno fatta e sono rimasti sotto il fango. Storie drammatiche raccontate con la leggerezza di chi è ancora bambina.
L’onda d’acqua è arrivata che era già buio. Rabia la ricorda bene, quell’onda che ha travolto la sua casa di fango. Svegliata con le sorelle nel cuore della notte, erano riuscite a scappare insieme ai genitori. La mamma teneva in braccio il fratellino di due mesi. Un maschio arrivato per l’orgoglio del padre, dopo le tante gravidanze di una moglie che sembrava saper partorire solo bambine.
Finora Rabia non ha fatto parola di quella notte, ma oggi con le amiche del campo ha voglia di raccontare. Forse ha bisogno di parlare. E allora ecco, il ricordo della pioggia violenta che la investe nella fuga insieme alla famiglia. La pioggia. Il buio. Il fango. La paura. Le lacrime. Un mondo ignoto e nemico. Ricorda Rabia, e racconta. Le ragazze lasciano cadere a terra le perline, e la ascoltano. Dove andiamo, padre? Ci salveremo? Lui non risponde, e la madre stringe a sé il fratellino: il bambino sta male, piange, la fronte scotta per la febbre. La pioggia. Il buio. Il fango. La paura. Le lacrime. Ecco uno spiazzo di tende improvvisate, più alto sulla strada rispetto ai villaggi allagati. Uno spiazzo dove hanno trovato riparo altri disperati. Ce l’abbiamo fatta? Siamo salvi? Il padre non risponde, il figlio maschio sta peggio, non piange più, non reagisce più. Poi l’uomo urla. Ci vogliono soldi: soldi per un medico, soldi per le medicine. Ma la famiglia di Rabia non ha una sola rupia… Urla l’uomo: il mio bambino, il mio unico figlio, non può morire. Ci vogliono soldi, e per trovarli il padre decide: venderà Rabia a qualche vecchio di quel campo di tende, la venderà a chi la vorrà come sposa in cambio di una manciata di rupie.
A Jamshoro è sceso il silenzio. Le ragazzine, immobili, quasi trattengono il fiato. E guardano Rabia che rivive il tormento di quelle ore. Non farlo, padre, non cedermi a uno di questi vecchi, non vendermi. Ho 10 anni, ho paura, non farlo. La vuoi mia figlia? È bella mia figlia, è giovane, prendila: è tua se mi dai le rupie per il mio bambino maschio. Rabia ricorda, il volto teso di chi a 10 anni già conosce l’angoscia e la disperazione: tirata per le braccia, buttata addosso a quei vecchi, sbattuta nel buio come un insetto impazzito. La pioggia. Il buio. Il fango. La paura. Il terrore. Nessuno parla e ora anche Rabia tace. Poi alza lo sguardo. Non mi hanno voluta. Nessuno di quei vecchi aveva soldi da dare a mio padre che tentava di vendermi. Mio fratello è morto per colpa mia.
«Sono storie che stordiscono» dice Giorgia Micene, 39 anni, torinese, capelli corti e aspetto da ragazzina, laurea in psicologia con specializzazione in psicoterapia, in Pakistan per MSF da poco più di tre mesi. «Ogni notte, per mesi, Rabia ha vissuto il tormento di “quella notte”. Fino a quando è riuscita a parlarne alle amiche e alle mie colleghe del gruppo che si occupa del disagio psicologico. Poco per volta l’abbiamo aiutata a capire di aver vissuto qualcosa di tremendo di cui non doveva vergognarsi, e di non essere responsabile della morte del fratellino. Grazie al nostro sostegno, si sta liberando di uno schiacciante senso di colpa.»
Incontro Giorgia in questa città, polo universitario di un certo rilievo nel Paese, a una ventina di chilometri da Hyderabad e a 150 chilometri a nordest di Karachi. Ci troviamo in un borgo dove, prima dell’alluvione, si stavano costruendo casermoni per gli operai del posto. Edifici rimasti a metà, con le tende e la plastica come porte e finestre: all’interno si sono accampati gli sfollati dai villaggi allagati del Sindh. Famiglie che hanno deciso di non tornare nei loro paesi, in case che non esistono più.
Nel grande spiazzo dove picchia il sole gli uomini in fila da una parte, le donne in fila dall’altra, aspettano la distribuzione di cibo. Nel portico, lo staff di MSF si occupa dei bambini malnutriti. Qualcuno piange e grida e si agita, altri fissano il vuoto, intontiti dalla debolezza, sfiniti. Sono magri: Fatima ha due anni ma le daresti non più di nove mesi. Non serve contare per accorgersi che le bambine malnutrite sono molto più numerose. «Ma non bisogna generalizzare.» Anche Giorgia, come Benoît, non vuole giudicare. «Incontro papà preoccupati e molto affettuosi con le figlie. Certo, per una famiglia le bambine sono soprattutto un costo. Dovranno trovare un marito e dovranno avere una dote.»
Non pronuncia la parola «vendute», ma si sa che i matrimoni in molti casi sono un reale commercio; si sa che è tradizione secolare delle tribù di etnia pashtun cedere bambine come spose ai clan rivali a cui devono un risarcimento. È una pratica detta swara che significa «partire in groppa all’asino» come fanno le ragazzine quando vengono consegnate. Si sa che in certe aree del Pakistan la nascita di una femmina è considerata una disgrazia. «I maschi sono più importanti, soprattutto nelle comunità rurali. Se muore un figlio, la famiglia perde valore sociale. E poi i bambini sono più bravi ad attirare l’attenzione. Quando ci sono molti fratelli e sorelle e il cibo non basta per tutti, vince il più forte…» Il più forte non è mai una femmina, e Giorgia lo sa. Mi racconta del ruolo delle nonne paterne, che dettano legge nella famiglia del figlio. Nonne che sono state mogli sottomesse e che, diventate suocere, assumono un ruolo di comando. Ma continuano a privilegiare i nipoti maschi.
Il Pakistan è uno dei sette Paesi al mondo con il numero maggiore di bambini malnutriti. Ne soffrono 38 piccoli fino ai 5 anni su 100.* Nel Centro nutrizionale che si affaccia su questo grande cortile polveroso, mamme e nonne si accalcano per far visitare i figli e i nipoti. Gli operatori di Medici senza Frontiere ne accolgono uno per volta, prendono il bimbo, gli diagnosticano il grado di malnutrizione misurando la circonferenza del braccio con uno speciale braccialetto chiamato MUAC. Poi lo visitano, lo pesano, controllano l’altezza. Se il piccolo è in condizioni critiche, viene alimentato con il sondino naso-gastrico. Quando si riprende, inizia la cura con il latte terapeutico che contiene le vitamine e i minerali necessari anche a far tornare l’appetito.
«Lo stimolo della fame è importante» mi spiegano i medici. «Se il bambino è deperito perché negli ultimi tempi ha mangiato poco, gli ritornerà velocemente. Ma se soffre di malnutrizione da più di due mesi, possono essere guai.» Indispensabile, in questo caso, è il plumpy nut, alimento pronto all’uso, conservato in bustine sigillate. È una pasta composta da arachidi, olio, latte in polvere, zucchero, vitamine e minerali. «Ne deve mangiare tre dosi ogni giorno: in passato ne consegnavamo una certa quantità alla famiglia perché gliele desse quotidianamente. Poi, una volta alla settimana, i medici controllavano i progressi del bambino.» Ma in famiglie che hanno in media nove figli, dare la crema di arachidi a uno mentre gli altri stanno a guardare può essere complicato. «Le buste venivano divise… e i piccoli denutriti non riuscivano a riprendersi.» Così ora i bambini rimangono al Centro di Jamshoro tutto il giorno o tutta la settimana. Compresi quelli che abitano fuori da questi casermoni. Gli operatori di MSF vanno a prenderli con un pulmino al mattino, insieme alle mamme, alle nonne o alle sorelle maggiori. E li riportano a casa la sera. In pochi giorni ricominciano a giocare, e allora vuol dire che è fatta.
Eccoli, i bambini guariti. Gridano come tutti i coetanei del mondo, si rincorrono, litigano, ridono. Molti sono sporchi, molti hanno i segni della scabbia. «Noi spieghiamo alle famiglie che l’igiene è fondamentale, che devono lavarsi, gli diamo il sapone. D’altra parte è gente che ha perso tutto, non ha potuto salvare altro che la propria vita e, se c’è riuscita, quella degli animali, con i quali vive in promiscuità. Gli animali sono una ricchezza, ma possono portare malattie ai bambini.»
Giorgia parla a lungo con le mamme. «Anche con loro è importante lavorare» mi spiega. «Sono donne stanche, sfiancate dalle gravidanze. Allattano e già sono incinte di nuovo. Spesso il latte è povero, e il bambino che attaccano al seno non si nutre a sufficienza. Per la debolezza diventa nervoso, grida e piange, non vuol essere toccato. Oppure diventa apatico, guarda nel vuoto senza reagire, o dorme sempre. Così accade che queste mamme stremate si stacchino da lui, quasi lo lascino perdere.» Come la gatta che allontana il gattino più debole. «Il nostro compito è riannodare il rapporto, fare interagire mamma e bambino. Innanzitutto con il contatto fisico.»
Entriamo in una stanza. Hawa è seduta su un tappeto, accanto a lei Husna, la sua bambina. Vicino c’è Soni con la figlioletta Lal Khatoon. Le due madri accarezzano piano le figlie, sfiorano il ventre, le braccia, e le piccole ridono, sono serene. «È il massaggio infantile, lo facciamo in gruppo così le donne chiacchierano tra loro, godono di qualche momento di tranquillità mentre, con le carezze e gli sfioramenti, recuperano il rapporto con i figli.» A insegnare come si fa sono le operatrici pakistane di MSF, con cui le mamme hanno più confidenza e con cui possono parlare l’urdu o il gran numero di dialetti del posto. «In Pakistan è tradizione massaggiare con molta energia i bambini fino ai 6 mesi» mi dice Mona, la responsabile locale del Mental health team «quasi a dar loro una forma, a modellarli. Noi dobbiamo convincere le madri a non stringerli troppo, a essere delicate. Le prime volte ci guardano sgomente, poi si stupiscono quando si accorgono che, proprio con la delicatezza, i loro figli si tranquillizzano. Ritrovano così il piacere di tenerli in braccio.»
È una bella giornata oggi a Jamshoro. Il sole sta scendendo, il vento solleva la polvere. Due donne si affacciano da una finestra senza vetri, ci invitano nella loro casa. Saliamo scale senza corrimano, entriamo in stanze spoglie e senza porte. In un angolo qualche abito e un po’ di cibo.
Ci accoglie Jamila. Perché sei qui? le chiedo. E lei racconta: «È successo tutto in cinque minuti. Ho visto salire l’acqua, ho preso i miei figli, le capre, del pane secco. Siamo scappati verso le colline. Il giorno dopo siamo tornati. La casa era distrutta, la scorta di frumento per un anno che avevamo immagazzinato perduta per sempre. Ho cominciato a urlare e a chiedermi perché doveva succedere a noi, povera gente. Ora siamo più miseri di prima, non abbiamo più nulla: ho venduto le mie capre per poter comprare qualcosa da mangiare. Qui ho trovato chi ci aiuta».
Mi volto, e vedo Raila, appoggiata a un muro, in un angolo. Sta cullando un bambino. Non riesco a darle un’età, poi mi dicono che è una nonna. «Ho perso mia nuora nell’alluvione» sussurra. «Il fango è arrivato silenzioso nella notte e quando qualcuno ha dato l’allarme era troppo tardi, l’acqua aveva già iniziato ad allagare tutto. La mamma di Nazakat non ha fatto in tempo a uscire dalla sua stanza. Mio figlio ha salvato la vita dei bambini ma non quella della moglie, non l’hanno più trovata.» Raila ha paura di un’altra alluvione. Ha visto in televisione le immagini dell’inondazione in Australia. Ha sentito dire dalla gente del campo che è un segno, che l’acqua tornerà a travolgere il Pakistan.
«Uomini e donne hanno il terrore dentro. Si rivolgono a noi medici per sapere se ci sono strumenti per prevenire un simile disastro. È una normale reazione psicologica, il meccanismo che scatta qu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'altra faccia della Terra
  3. Prefazione
  4. Introduzione
  5. Pakistan - Non giudicare
  6. Haiti - Là dove il tempo non passa
  7. Guatemala - Non è un Paese per donne
  8. Lampedusa - L’isola della speranza
  9. Malawi - Il caldo cuore dell’Africa
  10. Le ragioni di una scelta
  11. Appendice
  12. Ringraziamenti
  13. copyright