Che quella bambina, venuta al mondo il 23 agosto 1924, in un torrido pomeriggio, avrebbe avuto un insolito avvenire si intuì subito, ai primi secondi di vita. Infatti, sotto gli occhi esterrefatti della levatrice – “’a mammina”, come la chiamavano in paese – e della zia, Caterina Valente, che assistette al parto, la piccola venne fuori dal ventre materno con le braccine incrociate sul petto e stranamente silenziosa, come se fosse assorta. Caterina, come lei stessa avrebbe raccontato anni dopo ai pronipoti, appena la sorella, Filomena Maria Angela, si riebbe insistette: “Dobbiamo battezzarla subito, questa bimba è del Signore, morirà presto, perciò è nata in quella posizione”. Così la neonata, con la piena approvazione dei nonni materni, Antonino Valente e Giuseppina Rettura, ricevette il battesimo il mattino dopo, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, la parrocchia di Paravati. L’intuizione di Caterina si sarebbe rivelata esatta solo in parte: l’appartenenza a Dio della neonata sarebbe stata totale, Dio come bussola dell’intera esistenza di Fortunata Evolo, detta Natuzza; però il suo cammino terreno sarebbe stato lungo e intenso, per quanto sospeso tra Cielo e Terra, tra il mondo del tangibile e quello dell’etereo o delle anime.
In famiglia, la gioia per la nascita di Natuzza è misurata, velata dalle difficoltà in cui si dibatte la giovane madre. Filomena Maria Angela ha appena compiuto diciannove anni ed è già da un po’ di tempo che non ha notizie del marito, Fortunato Evolo, partito quando lei era a un mese dal parto per l’Argentina in cerca di un lavoro e un futuro diverso. La promessa era che sarebbe tornato presto o che, se le cose fossero andate bene, lei e il figlio che aspettava lo avrebbero raggiunto. Ma dopo la partenza in nave da Reggio Calabria, non si è fatto più vivo: né una lettera né un telegramma, che Maria Angela avrebbe potuto farsi leggere dal parroco di Paravati, essendo lei analfabeta. Neppure un piccolo pacco dono o un pensiero per quel bambino che Fortunato aveva voluto fortemente e che ora sembra aver dimenticato.
Maria Angela, come molte ragazze della sua età, ha puntato gran parte dei suoi sogni sul matrimonio, pensandolo l’inizio di una nuova vita, meno sacrificata, magari in America, quella terra che ha sentito evocare di continuo dal suo uomo come un paese magico che regala il benessere e la ricchezza a chiunque vi si avventuri. E invece adesso si trova da sola, con una bambina da crescere e sfamare, guardata già con un certo sospetto dalla piccola comunità di cui fa parte.
Paura e tristezza gravavano già prima su Maria Angela che, forse per questo, alle prime avvisaglie del parto ha cercato rifugio in casa dei suoi, un umile, piccolo edificio a due piani, dalle pareti imbiancate di calce, affacciato su via Umberto I, nel centro di Paravati, dove appunto ha dato alla luce Natuzza.
Paravati – scelta da un imperscrutabile disegno, come scenario all’incredibile vicenda umana di Natuzza Evolo –, la più popolosa delle frazioni di Mileto, antica capitale normanna, negli anni Venti è un centro prevalentemente agricolo, che si estende sulle colline comprese tra le ultime falde del Poro e la valle del Mesima, con vista sulla piana di Gioia Tauro e, quando il cielo è ben terso, sullo Stretto di Messina. Tutt’intorno c’è la campagna, con i suoi uliveti e le sue tradizioni consolidate, recinto simbolico di tutta una società e una economia dalle profonde radici. La crisi agricola che interessa tutto il Sud nell’era giolittiana si fa sentire. Il lavoro della terra non basta e per questo sempre più paravatesi emigrano, in Sud America o in Libia, questi ultimi presi dall’utopia di una nuova e prospera Italia che sarebbe sorta sul suolo africano.
Di carattere volitivo e tenace, forse per sfidare la sua stessa sorte, Maria Angela non rinuncia alla propria indipendenza e, dopo la nascita della bambina, torna nella povera casa presa in affitto dal marito subito dopo le nozze, a pochi passi da quella dei genitori. È determinata ad aspettarlo lì e quindi a non arrendersi all’eventualità di non rivederlo mai più.
I giorni e i mesi passano, Natuzza, una bimba paffuta dagli occhi neri grandi e vispi, cresce a vista d’occhio e Fortunato non torna. La sua assenza e i suoi silenzi diffondono presto il veleno del pettegolezzo e delle maldicenze. Se il marito se ne sta all’estero, si bisbiglia, è perché la moglie “non era buona”. E così Filomena Maria Angela passa da vittima a colpevole: insomma, è colpa sua, della sua condotta, se è stata abbandonata.
La ragazza, di carattere fiero, lotta con tutte le sue forze, anche contro il pregiudizio. Non si sottrae neppure ai lavori più umili, pur di farcela, di mantenere sua figlia, alla quale vorrebbe procurare una vita diversa dalla sua. Ma una donna giovane e sola, in un piccolo centro rurale, va incontro anche alle angherie e ai soprusi degli uomini. Due anni dopo la nascita di Natuzza, Maria Angela, senza essersi mai risposata, ha un secondo figlio, Domenico. Poi ne arrivano, a distanza ravvicinata, altri quattro: Antonio, Francesco, Vincenzo, Pasquale. Tutti vengono dichiarati da Maria Angela all’anagrafe col cognome Evolo, nonostante Fortunato non abbia più rivisto la moglie dal giorno della sua partenza. Dei padri naturali non si sa nulla, e la copertura anagrafica – possibile per il principio della paternità presunta in seno al matrimonio – non basta a tacitare le malelingue. Anzi i pettegolezzi aumentano, si fanno più velenosi, prendendo a bersaglio Maria Angela, ma anche i suoi figli, specialmente quelli venuti dopo Natuzza, additati in paese come “i bastardi”. Apertamente Paravati non parla di “scandalo”, ma nel silenzio serpeggia virulenta la crudeltà della non accettazione.
Che fine ha fatto Fortunato e perché non fece più ritorno? A queste domande il tempo non ha dato una chiara e univoca risposta. Si sono fatte soltanto delle ipotesi. La più verosimile è che in Argentina lui abbia incontrato un nuovo amore: è certo, infatti, che si risposò – senza che il suo primo matrimonio sia mai stato sciolto in Italia – con una sudamericana d’origine italiana di nome Maria. Soltanto parecchio tempo dopo la sua partenza iniziò a scrivere qualche lettera alle sorelle Evolo, chiedendo anche notizie della sua bambina, che però non cercò mai di contattare direttamente. Il vuoto lasciato dal padre, e le pesanti conseguenze che ne derivarono, in termini di amarezza, stenti e pregiudizi nei confronti della madre, lasciò certamente un segno profondo nella piccola Natuzza, privata per sempre del ricordo, anche solo sfumato, del volto del padre, di una sua carezza o di un suo abbraccio. La figura destinata a trasmettere sicurezza a lei mancò del tutto, e fu anzi fonte indiretta di ansia e paura nel quotidiano.
Nonostante questo, nulla di simile al rancore si stratificò nei sentimenti di Natuzza, che sin dalla più giovane età mostrò un vivo slancio d’amore, non solo per i fratelli ma anche per tutti i piccoli amici. E nutrì, nei confronti di quel papà che non c’era, più affetto e curiosità che non astio o malanimo. Oltre settant’anni dopo la mistica confiderà al suo direttore spirituale, padre Michele Cordiano, di essere andata, quando ormai era adulta e “guidata dal suo angelo custode”, in bilocazione – ossia in viaggio astrale, mentre fisicamente era come ogni giorno a Paravati – in Argentina a vedere quell’uomo che nella realtà tangibile non aveva mai incontrato. E di aver poi dialogato con la sua entità, poco dopo la sua morte: allora lui le apparve, chiedendole perdono per esserle stato lontano e per aver dubitato delle strane facoltà di Natuzza, delle quali gli avevano scritto le sorelle.
Fin da piccolissima, Natuzza, educata più dalle circostanze che dagli insegnamenti materni, e spinta da un irrefrenabile moto interiore, sviluppa un forte, per non dire eroico, istinto protettivo nei confronti dei fratelli minori, di cui riesce a prendersi cura perfettamente durante le assenze della mamma.
Spesso in casa non c’era nulla da mangiare, neppure un pezzo di pane. E lei, a soli cinque, sei anni, come racconterà a don Cordiano e a don Pasquale Barone – il parroco di Paravati che dal 1980 l’ha seguita da vicino ed è poi diventato il presidente della Fondazione Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime che oggi ne prosegue l’apostolato – si piazzava davanti al laboratorio del fornaio, aspettando silenziosamente che questi, impietosito, le elargisse qualche pagnotta invenduta. La bambina non solo sopportava la lunga attesa e, spesso, la fredda indifferenza e il senso di fastidio che percepiva al suo semplice avvicinarsi al forno, ma anche le parole dure verso i suoi fratelli quando, ottenuto il suo scopo, si sentiva dire: “Mi raccomando mangialo tutto tu e non darlo a quei bastardi!”.
Allora Natuzza si sedeva silenziosa sul marciapiedi e, rannicchiatasi su se stessa, fingeva di addentare la pagnotta, e invece con la mano la spezzava e ne faceva cadere i tocchi dentro il vestito, all’altezza del petto, così che, una volta rientrata in casa, potesse distribuire indisturbata ciò che aveva ricevuto. Altre volte, per essere più lesta, raccoglieva la sottana fino a farne una sacca, vi lasciava cadere furtiva il pane intero e poi correva via. Questa è stata la scuola di vita di Natuzza Evolo, che non fu mai neppure iscritta alle scuole elementari, poiché era assolutamente impensabile per la sua famiglia provvedere all’istruzione.
A mano a mano che, crescendo, stringeva amicizia con i coetanei di Paravati, la bambina mostrava un insolito altruismo anche verso di loro. Confiderà lei stessa a don Cordiano:
Nell’animo mio ero felice, sempre, pur soffrendo. Io ero piccolina, non avevo nemmeno dieci anni. Quando un bambino si faceva male a un piede, e allora non avevano neppure le scarpe, io prendevo della camomilla, la bollivo in una cioccolatiera vecchia, prendevo una grasta [dialettale per “pentola di terracotta”, N.d.R.] di quelle di Monsoreto, vecchie, versavo quella camomilla là dentro, prendevo una pezzuola e pulivo i piedi a tutti i bambini che erano nella ruga [dialettale per “quartiere”, N.d.R.] mia. Non appena glieli pulivo, dicevano: “A me è passato il dolore al piede, sai?”. “E chi te lo ha fatto?” “Mia sorella, mia mamma, mia zia” ognuno diceva così. Allora me li portavano da me. “A Tuzza” diceva uno di quelli “pure Roberto ha il piede ammalato come il mio, glielo fai?” E io: “Sì, subito”. Ero piccolina e facevo queste cose. Chi mi spingeva? Qualche anima del Cielo, se no io che ne sapevo di queste cose?1
Instancabile, la bambina che già si occupava delle faccende domestiche e di accudire i fratelli, nel tempo libero, rinunciando anche ai giochi all’aperto con i coetanei, andava in campagna a raccogliere il “cucco”, il fiore di sambuco, e altre erbe curative, che poi appendeva a una cordicella, vicino alla porta di casa, a seccare, in modo da averli a portata di mano per i suoi “pronti interventi”. Non erano solo i bambini a rivolgersi a Tuzza; a volte lo facevano anche gli adulti, specialmente per le congiuntiviti o altri fastidi agli occhi. E lei, quando non aveva modo di bollire le erbe per il decotto – non sempre c’era la legna per accendere il fuoco – le ammollava un po’ nell’acqua della fontana e poi le usava per lavarci gli occhi dei suoi “pazienti”. Nello stesso periodo, Natuzza imparò a fare l’olio di mandorle con il frantoio, un ottimo rimedio contro gli arrossamenti e le screpolature, e per proteggere la pelle delicata dei bambini. Lo userà, più avanti negli anni, anche per i suoi figli.
Gli stenti e le preoccupazioni del vissuto familiare, quindi, non solo non abbattevano Natuzza, ma anzi sembravano centuplicarne l’energia e l’apertura verso gli altri. Fu sempre in quel periodo – la bambina aveva sei-sette anni che iniziarono per lei una serie di visioni e altri inspiegabili fenomeni come i primi contatti con quella realtà sovrannaturale che ne avrebbe pervaso l’intera esistenza. Generalmente le poche biografie della mistica2 li datano più avanti negli anni, ma lei stessa spiegherà poi ai suoi direttori spirituali di aver taciuto con tutti quanto le accadeva, un po’ per un istintivo pudore, un po’ per i consigli che le diede il canonico Clemente Silipo, parroco di Paravati, quando lei ebbe il coraggio di aprirsi e di chiedergli se tutti vedessero ciò che lei vedeva. Con spirito e amore paterno, il sacerdote le aveva consigliato di tenere per sé quelle cose, come un dono prezioso, di cui non tutti potevano beneficiare e quindi non tutti potevano comprendere.
Ma che cosa vedeva e sentiva da piccola Natuzza? Le prime apparizioni sacre avvennero in un modo e in circostanze tali da lasciare persino a lei, a lungo, il dubbio circa la natura di quell’entità. La mistica spiegherà molti anni dopo, sia ai figli sia a padre Cordiano, come la prima volta che vide la Madonna, attorno ai cinque anni, non avesse capito che si trattava di Lei: “Non sapevo neppure chi fosse la Madonna. Poi ho cominciato a vederla spesso dagli otto anni in poi. Una bella signorina, una bella ragazza”.3
Qualche volta quest’adolescente bruna e bellissima, materializzatasi dal nulla, si avvicinava al lettuccio di Natuzza, la guardava con quella tenerezza materna che probabilmente Maria Angela non poté mai dare a sua figlia, e l’accarezzava quasi a consolarla del pesante fardello quotidiano che la bambina portava eroicamente sulle sue spalle.
Conferma Anna Maria Nicolace, terzogenita della mistica:
La Madonna appariva a mia madre da bambina, così spesso e “normalmente” da indurla a pensare che succedesse a tutti. Per questo ne parlò al suo parroco, don Silipo, il quale cercò di non dare troppa importanza ai suoi racconti e, senza spaventarla, senza mettere alcuna malizia nelle sue parole, le fece capire che si trattava di un “dono” riservato solo ad alcune persone e che era meglio tenerlo per sé, come un dolce segreto. Sempre alla stessa età – lei si occupava, praticamente a tempo pieno, dei fratellini Domenico e Antonio –, riceveva quasi ogni pomeriggio la visita di un bambino bellissimo, che si sedeva accanto a loro a giocare al lancio delle noccioline. Poi all’improvviso si alzava sorridendo, e se ne andava via, accennando un saluto con la mano; e Antonio, che era cagionevole di salute e quindi spesso costretto a casa, piangeva perché senza un quarto giocatore non potevano proseguire con il loro passatempo preferito.
Natuzza non ne aveva mai avuto la certezza, ma per anni continuò a pensare che quello strano amichetto che compariva e scompariva in continuazione lasciandola confortata e con la sensazione di non essere sola nel duro compito di badare, lei bambina, ai due fratelli più piccoli, fosse Gesù Bambino. Poteva essere il Cristo che si manifestava nelle sue sembianze infantili per esserle ancora più vicino. Almeno così lei sperava, ma non lo disse a nessuno, ritenendo la cosa troppo ambiziosa. Finché non arrivò la conferma, oltre settant’anni dopo, in un messaggio ricevuto da Gesù, durante la Quaresima e trascritto dalla figlia Anna Maria:
Ti ho scelto nel grembo di tua madre, prima che tu nascessi. Mi innamorai di te e tu di me. Vedi, l’Amore mio è dolce come quello di un papà che è nel Cielo, mentre l’amore di un papà della Terra è grande, ma ha mille cose da pensare [...]. Quando eri bambina ho giocato con te come se fossi un papà della Terra. Ti ho cresciuta.4
Fu a quel punto che Natuzza, volendo spiegare alla figlia il sig...