Avevo rischiato le galere olandesi. Ma il crimine aveva pagato in termini di notorietà. Il mondo dell’arte mi aveva ripreso con un occhio diverso. Ero diventato una sorta di Robin Hood che rubava alle gallerie ricche per donare ai musei poveri. In più avevo celebrato il lavoro di squadra sfatando il mito dell’artista egomaniaco che vuole fare tutto da solo. Da solo io, a parte vivere, ho sempre tentato di non fare nulla. All’amicizia e alla collaborazione ho dedicato anche una mia scultura, quella che diceva che l’amore salva la vita. Idea presa così com’era dai fratelli Grimm e trasformata in opera d’arte. L’asino, il cane, il gatto e il gallo, uno sopra l’altro, che emettono ognuno il proprio verso. Insieme questi animali, nella favola originale, battono il nemico e riconquistano la libertà.
Per me l’arte ha sempre funzionato un po’ così. La libertà si raggiunge e il nemico si sconfigge insieme, in compagnia, scherzando, ridendo, combattendo. Non come un gruppo politico o un movimento artistico, ma proprio come una banda di amici o di ladri. Una solidarietà non costruita su interessi personali ma attorno a un’armonia comune. Ogni tanto alla banda capita di suonare fuori ritmo e qualche suonatore se ne va o viene buttato fuori. Capita. L’importante è continuare con lo stesso spirito.
Potrei parlare come un allenatore di calcio o un grande attaccante. Se sono arrivato dove sono arrivato lo devo esclusivamente al gioco di squadra. I titoli dei miei lavori sono sempre il frutto di conversazioni, telefonate, scambi di email. Ma anche i lavori nascono parlando con la gente, gli amici intimi e infidi. Comunque, dopo il fallito colpo iniziano a invitarmi di qua e di là. Ci siamo, verrebbe voglia di dire. Invece no. M’invitano perché annusano puzzo di bruciato. Ma nessuno si vuole veramente scottare le mani con me. Non sono ancora né un «insider» né un «outsider»: sono solo un «sider», uno che sta al lato.
Quando m’invitano a Vienna, alla famosa Secessione, mi buttano dentro lo scantinato. Ci sono e non ci sono. Vigliacchi, penso, ve la faccio vedere io. Prendo due biciclette, le metto su due cavalletti piantati nel pavimento e attacco i pedali all’elettricità del palazzo. Poi prendo le guardie e gli dico che a turno devono pedalare. Se non pedalano, niente luce. Accettano e così quando la gente visita la mostra si accorge che la luce va e viene con diversa intensità. Dipende da quanto sono stanchi o pigri i guardiani. L’arte è tutta una questione di energia investita ed energia sprecata. La mia carriera d’artista è un po’ come le lampadine che c’erano a Vienna. La luce va e viene. Dipende da quanto pedalo io, ma anche da quanto pedala la gente che mi sta attorno. Ci sono mesi che arriva un conto dell’arte stratosferico perché si sono consumate tante, anzi troppe, idee. Altri mesi il conto è basso, non si è prodotto né consumato molto. Ci sono mesi che dovrebbero darmi addirittura un rimborso perché non ho consumato nemmeno un’idea, anzi, me ne sono andate via parecchie.
Il 1997 è un anno in cui il conto è salatissimo. Dopo Vienna mi invitano a Venezia, è la mia seconda Biennale. Questa volta, dico, non posso sbagliare. Invece sbaglio di nuovo. Riempio il padiglione italiano di piccioni impagliati. Li chiamo Turisti. Venezia, i piccioni, i turisti. Non potrebbe esserci nulla di più scontato. Per salvare la frittata, in un angolo lascio qualche bicicletta rubata. Seconda occasione buttata al vento.
Mi rifaccio in Germania dove ogni dieci anni nella piccola cittadina di Münster si fa una mostra di opere da esporre in luoghi pubblici. Nel museo della città metto la torre di animali, ma per l’occasione faccio anche il capitolo finale della storia, L’amore dura per sempre. Sono gli stessi animali, uno sopra l’altro, solo che ora sono diventati scheletri. Mi avevano sempre impressionato quelle due figure di Pompei morte una accanto all’altra. Allora ho immaginato me stesso e i miei amici che ci vogliamo così bene da diventare scheletri insieme, magari al tavolo di un ristorante. Ma poi ho usato gli animali, perché davano l’idea forte di chi continua a fare quello in cui crede anche dopo la morte. Se uno ha qualche convinzione, nemmeno la morte riesce a levargliela. Non ho mai voluto essere troppo drammatico con le mie opere, o troppo diretto. Insomma, questi animali che ragliano, abbaiano, miagolano e fanno chicchirichì per me sono degli eroi, come quei rivoluzionari che alzano le braccia nel famoso quadro di Goya. Non alzano le braccia per arrendersi, ma per esultare anche mentre stanno per essere fucilati. Così questi animali, che cantano a modo loro l’inno della libertà.
Non finisce qui la mia partecipazione a questa mostra. Devo anche mettere qualcosa in un luogo pubblico all’aperto. Giro in bici e passo accanto al lago. Di punto in bianco, o come dicono gli inglesi, fuori dal blu, out of the blue, che poi sarà il titolo dell’opera, penso che sarebbe divertente buttare un cadavere nel lago. Non ci penso due volte e dopo una settimana ritorno con il fantoccio cadavere, affitto la mattina presto un barchino e butto nel lago la fanciulla. Il lavoro diventa un po’ una leggenda, un sentito dire. Nessuno sa se davvero ho buttato il corpo nel lago. La gente che visita la mostra, però, prende la barca e va a cercare. Alcuni dicono di aver visto qualcosa, altri tornano arrabbiati perché si sentono presi in giro. Cattelan prende sempre in giro tutti. Il lavoro diventa un po’ come il mostro del lago di Loch Ness. C’è o non c’è?
La morte e l’amore mi hanno sempre interessato. Tutti e due mi hanno sempre fatto paura. Si cerca tutta la vita l’amore e al tempo stesso si tenta di nascondersi alla morte. A volte sono le persone a raccontare quello che voglio dire, ma spesso sono gli animali che parlano della paura e del dolore in modo diverso da noi. A Parigi metto in una sala del Museo di arte moderna due cani che dormono. Sono morti, ma fanno paura lo stesso. Fanno paura prima, perché sembrano vivi, ma anche dopo, perché quando uno scopre che sono morti sente la presenza della morte e si spaventa. Anche se non possono farci nulla di male, i morti ci fanno paura. Avendo lavorato all’obitorio, devo dire che però dopo un po’ uno capisce che i morti sono oggetti e non più persone. Quando ne vedi tanti, non puoi più pensare a loro come ex vivi. La vita è proprio andata da un’altra parte. Il morto è un po’ come la gabbia vuota di un canarino. Si sa che lì dentro c’era un uccello e ci chiediamo dove sia andato. La gabbia rimane però solo una gabbia. Il cadavere rimane solo un cadavere.
L’anno termina finalmente in America, in New Mexico, e anche lì finisco per lavorare con una morta, la pittrice americana Georgia O’Keeffe, alla quale dedicano un nuovo museo proprio quando io sono invitato alla Biennale di Santa Fe. Un posto assurdo. Dicono che nell’aria ci siano gli spiriti delle tribù indiane che abitavano e abitano ancora la zona. Io faccio lo spiritoso con lo spirito della pittrice e faccio fare una maschera tipo quelle di carnevale o di Topolino e Pippo a Disneyland. Durante l’inaugurazione una persona si mette il mascherone e va in giro e la gente si fa fotografare accanto a lei, come si fa appunto a Disneyland. Gli artisti, quando diventano famosi, smettono di diventare persone e diventano dei personaggi come quelli dei cartoni animati, né più né meno. Così come in qualche modo Topolino e Paperino esistono, altrettanto vero è che quando un essere umano diventa molto famoso non esiste più davvero, diventa un personaggio, una finzione. Io stesso oggi mi sento né più né meno come Pluto, il cane di Topolino, vero e finto contemporaneamente. Non ho mai capito veramente che soddisfazione uno possa provare ad avere in casa la propria foto accanto a un calciatore famoso o a un presidente americano. Ho sempre immaginato qualche celebrità che ribalta la situazione e si tiene in casa solo foto accanto a emeriti sconosciuti, per ricordare che là fuori esiste un mondo vero di anonimi, dove però la gente respira, mangia e fa la cacca come noi. Io me lo chiedo sempre quando vedo, non so, il presidente americano Obama. Ma quando va al gabinetto questo qui? M’immagino il momento in cui dice «scusate un attimo», si alza e va via per dieci minuti. Però anche immaginandolo sembra tutto una finzione. Obama è come Topolino alla fine della giornata, uno che non ha bisogno di fare nessun bisogno.
L’esperimento del New Mexico è un po’ come quelli che fecero per la bomba atomica. Funzionarono, ma poi per vedere se funzionava bene la buttarono sulla gente. Lo stesso faccio io. Per vedere se questa idea del personaggio vero che diventa finto funziona davvero, se ha la potenza giusta per colpire e affondare il mondo dell’arte, l’anno dopo lo butto a New York davanti al Museo di arte moderna. Davanti al Moma i visitatori trovano questo Picasso che li accoglie e si fa fotografare insieme a loro. Picasso è forse l’unico artista famoso quasi come Topolino, e il Moma è un po’ una Disneyland dell’arte moderna. La gente normale sorride, ride, si diverte, mentre dentro al museo persino i curatori che mi hanno invitato storcono il naso, si sentono sbeffeggiati, pensano che Picasso è una cosa seria. Anch’io penso che Picasso sia una cosa seria, ma anche Paperino lo è. Paperino porta più gente e soldi che Picasso. Non riesco ad affondare l’obiettivo. Il mondo dell’arte vacilla, ma rimane in piedi. Il mio tentativo di fondere la realtà con la finzione dell’arte mi riesce a metà. L’appuntamento è rimandato.
A me ha sempre fatto tristezza il destino degli animali. Obbligati a essere quello che sono per tutta la vita. Se gli uomini possono cambiare identità, cambiando sesso, professione, mariti e mogli e persino colore dei capelli e forma del naso, perché un povero animale deve rimanere sempre quello che è? Mi sono immaginato un merlo che si sveglia e si accorge che dentro di sé è un cane. Non può farci niente. Non è come una persona che si sveglia donna e capisce di essere uomo e fa di tutto per cambiare sesso. No, il merlo che si scopre cinosessuale non può farci nulla. A meno che qualcuno non provi ad aiutarlo. Tentar non nuoce. Così un giorno ho acquistato tanti merli indiani, quelli che imparano a imitare le voci della gente, e li ho portati da un amico che aveva un canile dove i cani abbaiavano in continuazione.
Ho lasciato i merli nelle loro gabbie per molti mesi, vicino ai cani. Quando sono tornato, quasi tutti gli uccelli avevano imparato ad abbaiare. Alcuni meglio di altri. Ne portai a casa un paio. Per qualche anno mi fecero da cani da guardia. Quando arrivava qualche intruso vicino alla porta, loro iniziavano ad abbaiare ferocemente e la gente scappava. Poi, a poco a poco, hanno dimenticato come si faceva il cane e hanno iniziato a parlare l’arabo, imitando le voci degli inquilini arabi che urlavano nel cortile. Li ho dovuti mandare via perché la notte mi svegliavo pensando che qualcuno fosse entrato in casa e mi stesse parlando in arabo. Li ho regalati a un venditore marocchino, che fu tutto contento. Ogni tanto passo a trovarlo nella sua bottega, e uno dei merli è sempre lì; l’altro è morto, ma il superstite parla perfettamente arabo. La cosa mi ha dato una certa soddisfazione, aver cambiato identità e cultura a un animale. Il merlo Muezzin, una delle mie migliori opere d’arte. Pensai persino di mostrarlo in qualche museo o galleria, ma poi decisi che sarebbe stato ingiusto e un po’ razzista. Avrei fatto imbestialire animalisti e fondamentalisti, e forse anche i linguisti.
Dicono che la mia arte è l’arte del dispetto. Ha bisogno di qualcuno da colpire, umiliare, imbarazzare. Il giorno che mi mancheranno i dispetti non avrò più nulla da dire.
Non è proprio così. Rispetto e dispetto nella mia mente si confondono sempre. Quando rispetto qualcuno o qualcosa, mi viene il desiderio di farlo entrare in qualche modo dentro a quello che faccio. Magari sbagliando. Quando però non rispetto qualcuno, allora mi viene istintivo fargli un dispetto. L’ho fatto a una mostra a Londra. Non ho mai sopportato i tifosi di calcio. Una volta, a Padova, un gruppo di ultrà padovani inseguì me e un mio amico, non ricordo più per quale motivo. Da allora li ho sempre odiati tutti, di tutte le razze, di tutte le squadre, di tutte le nazionalità. A Londra arrivai un sabato sera e m’imbattei proprio in un gruppetto di hooligans che tornava da una partita: erano ubriachi marci ed era impossibile capire se la loro squadra avesse vinto o perso, erano ugualmente dei disperati. Il mattino dopo, quando incontrai il gallerista che mi voleva organizzare la mostra, gli dissi che la mia opera sarebbe stata semplicemente una lapide di granito nero con sopra incise tutte le partite che la nazionale inglese aveva perso. Mi guardò con quegli occhi freddi e il sorriso idiota che possono avere a volte solo gli inglesi. Capii che mi odiava ma era troppo polite, educato, per dirmelo. Due giorni dopo l’apertura della mostra ricevemmo anche delle minacce di morte. Non ho mai più lavorato con quel gallerista, e pochissimo in Inghilterra.
Quando tornai a Milano raccontai al mio amico gallerista la reazione degli inglesi. Lui mi disse che se avessi osato fare una cosa del genere con le partite perse dal Milan, di cui era un tifoso sfegatato, mi avrebbe appiccicato al muro. Gli dissi che era un’ottima idea. Quando fu il momento di fare un’altra mostra con lui, il lavoro consistette proprio nel gallerista appiccicato al muro con il nastro adesivo industriale. Una crocifissione vera e propria. Una crocifissione quasi riuscita. Dopo qualche ora, infatti, il pover’uomo alzò gli occhi al cielo pallido come la morte e disse: «Maurizio, Maurizio, perché mi hai abbandonato». Un’ora dopo era su un’ambulanza che lo portava d’urgenza al pronto soccorso, aveva avuto un collasso. Tutti pensarono che fosse tutto studiato e organizzato. La verità era che il poveretto aveva veramente rischiato di rimetterci la buccia.
Finzione e realtà sono molto confuse nel mio lavoro e nel mio modo di pensare. Per tanto tempo ho chiesto ad altri di rispondere alle mie interviste, a volte ho mandato altre persone a parlare in pubblico dicendo che erano me. Poi è diventata una formula che non funzionava più, così mi sono ...