Le signore della notte
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Le signore della notte

Storie di prostitute, artisti e scrittori

,
  1. 168 pagine
  2. Italian
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Le signore della notte

Storie di prostitute, artisti e scrittori

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Informazioni sul libro

Erano le signore della notte, come le chiamava Samuel Beckett. A frequentarle erano uomini di tutti i ceti sociali: aristocratici e contadini, borghesi e proletari, e anche grandi intellettuali e artisti, da Stendhal a Simenon, da Kafka a Hemingway, da Tolstoj a Proust, da Manet a Picasso, da Toulouse- Lautrec a Modigliani. Innumerevoli opere artistiche e letterarie le descrivono, spesso con passione e devozione. "Amo la prostituzione di per sé, indipendentemente da quel che c'è sotto... nell'idea di prostituzione c'è un punto di intersezione così complesso - lussuria, amarezza, il nulla dei rapporti umani, la frenesia muscolare e il risuonare dell'oro - che guardando fino in fondo viene la vertigine e si imparano tante cose. Ed è così triste!".scriveva Gustave Flaubert. Eppure oggi, anche se praticano, come si dice, "il mestiere più antico del mondo", la loro tenace presenza nella nostra società sembra diventata intollerabile. Nessuno ne parla più se non per dire che deve essere cancellata. Sono considerate le ultime peccatrici del sesso in un mondo che si proclama sessualmente spregiudicato. Fornire una merce o una prestazione in cambio di denaro è in teoria comune a ogni professione, ma in pratica il fatto che la loro merce sia il corpo e che quel che offrono sia il piacere le rende immonde, intoccabili, non solo agli occhi delle Chiese. Dai laici vengono accusate di essere delle untrici, di contagiare chi le frequenta non tanto sul piano fisico, ma soprattutto su quello dei valori. È davvero così? La loro sopravvivenza non è forse il fantasma di un'arcaica subordinazione femminile al potere maschile del denaro? Quale nervo scoperto della nostra sensibilità collettiva tocca la loro esistenza?
Attingendo a un vasto patrimonio letterario e con stile narrativo e brillante, Giuseppe Scaraffia ci racconta i rapporti di molte delle menti più illuminate dell'Ottocento e del Novecento con queste donne, oggi sottoposte a leggi perfino più repressive di quei tempi. Eppure sono loro, in attesa con il cellulare in mano, appoggiate al banco di un bar o ferme davanti a un falò nella notte, ad avvertirci che, se abbiamo cambiato il mondo, è meno facile cambiare gli esseri umani.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021756

Parte prima

DONNE DI VITA

I

INIZIAZIONE

Ma torniamo al passato. Quale padre porterebbe oggi il figlio da iniziare sui viali della città notturna? Una volta invece affidare un debuttante alle materne cure delle prostitute era considerata una tipica soluzione. Non sempre l’inizio era entusiasmante. Lo studente Gustave Flaubert, futuro frequentatore di postriboli, era stato iniziato a sedici anni in una modesta casa di piacere, frequentata dai compagni di scuola. Il risultato non era stato positivo. «Sono uscito da quelle braccia pieno di disgusto e d’amarezza.» Per il bellissimo e audace Alphonse Daudet le porte dei postriboli si erano aperte a tredici anni, grazie a una prostituta adolescente che l’aveva poi fatto adottare dalle sue colleghe. A Émile Zola piaceva raccontare che, da studente, era rimasto otto giorni a letto con una donna. Quando era uscito, aggiungeva, era talmente esausto che doveva appoggiarsi ai muri per non cadere. Quelle vanterie, in realtà, mascheravano un’adolescenza solitaria e sguarnita di amori. Timido e ansioso, Zola era stato iniziato da Berthe, una prostituta con cui aveva convissuto. Se era rimasto per giorni tra le lenzuola, era stato solo perché, spinto dalla necessità, si era impegnato l’ultimo paio di pantaloni e non poteva uscire.
Era stato il professor Adrien Proust a spingere il figlio. «Avevo un tale bisogno di vedere una donna per farla finita con le mie cattive abitudini di masturbazione, che papà mi ha dato dieci franchi per andare al bordello» confessava Marcel al nonno, aggiungendo che per l’emozione aveva rotto un vaso da notte e non era riuscito ad avere nessun rapporto. «E quindi mi servono sempre dieci franchi per soddisfare le mie voglie, più altri tre franchi per ripagare il vaso da notte.» La lettera terminava in tono umoristico: «Ma non oso chiedere così presto dei soldi a papà e ho sperato che saresti gentilmente venuto in mio soccorso in questa circostanza che, come sai, è non solo eccezionale ma addirittura unica: non capita due volte, nella vita, di essere troppo turbato per poter fare all’amore».
Leone Tolstoj era stato iniziato a sedici anni da una ragazza ubriaca di una casa di tolleranza. Lo avevano trascinato lì i suoi fratelli. Quando ebbe finito, rimase fermo vicino al letto e pianse.
James Joyce a soli quattordici anni investì in un’indimenticabile esperienza postribolare il denaro ottenuto dai premi scolastici.
Gabriele d’Annunzio ebbe la sua prima esperienza, «l’ora dell’etèra», alla stessa età, ma con diversa soddisfazione. A Firenze, durante una gita scolastica, eluse la sorveglianza del bidello e impegnò l’orologio d’oro, dono del nonno, per potersi pagare una prostituta. Entrato nella stanza, spezzò una fiala di profumo al gelsomino per creare l’atmosfera adatta. Poi sentì «placare e cullare i miei sussulti da una tenerezza quasi materna, da non so che malinconica dolcezza di ninna nanna». Come souvenir dell’impresa regalò alla meretrice un vecchio violino.
Paul Morand aspettava ansiosamente di essere abbastanza alto per essere ammesso in un bordello. Un giorno aveva accompagnato, con altri amici, un compagno apparentemente più adulto e all’uscita si erano precipitati sul fortunato tempestandolo di domande: «Com’è fatta una donna? Ci si entra dentro? È possibile?». Franz Kafka aveva resistito agli inviti del padre a diventare uomo in un postribolo e glielo aveva rimproverato nella Lettera al padre.
Pierre Drieu La Rochelle aveva debuttato quasi a diciott’anni tra le braccia di una bionda un po’ grassa, riluttante a spogliarsi. Malgrado la donna gli sembrasse brutta, volgare e troppo anziana, l’esperienza lo travolse, anche se era stata molto rapida. Quando le confessò che era la sua prima volta, lei rispose: «Ah, se me lo avessi detto, sarei stata più lenta. È una cosa carina. Ma fa’ attenzione alle malattie».
Picasso perse la verginità a quindici anni in una casa di tolleranza. Nella Spagna dell’epoca l’alternativa era il matrimonio, si giustificava Luis Buñuel, anche lui iniziato in un bordello. Jacques Prévert a tredici «con una donna infetta».
Michel Leiris aveva ascoltato avidamente le esperienze del fratello, uscito dal luogo «in cui si può affittare una donna e farle tutto quel che si vuole». Evelyn Waugh fece la sua prima esperienza in una casa chiusa di Marsiglia. Georges Simenon era arrivato a vendere l’orologio del padre per pagarsi una prostituta nera che moriva dalla voglia di possedere. All’ultimo momento Mario Soldati, intimorito e ubriaco, non osò salire in camera. Gli rimase il ricordo di «carni rosee e sfatte, veli, maschere di donne». Solo qualche anno dopo, da militare, avrebbe raggiunto «il sospirato traguardo» in un postribolo di Novara.
«A diciott’anni» scrive Gesualdo Bufalino «si entrava per la prima volta in un bordello ed era per i più una cresima lieta, come prendere gli ordini di un sacerdozio profano.» La casa di tolleranza era diventata il luogo di una cerimonia di iniziazione, di un rito di passaggio.
Ai timidi, incapaci di avvicinarsi alle amate, le prostitute sembravano una soluzione. Negli anni Venti, prima di diventare un grande seduttore, l’impacciato Antoine de Saint-Exupéry aveva frequentato spesso l’ambiente delle donne di piacere. Naipaul, durante il suo lungo matrimonio, aveva continuato a vedersi con le prostitute, proprio a causa della sua insicurezza verso le altre donne.
Niccolò Tommaseo invocava: «Mio Dio, tutte le donne pubbliche con le quali ho peccato, beatele!». Vincent van Gogh provava «affetto e amore per quelle donne che vengono condannate e maledette e disprezzate dagli uomini di chiesa». Quando vagava solo e malaticcio per la città, gli «sembrava che quelle donne fossero delle sorelle». Frequentava, insieme all’amico Paul Gauguin, le case di tolleranza più povere. Una lo colpì per le tinte: «Tutto il colore più puro e sfacciato che c’è», dalla calce azzurrata della grande stanza ai militari in rosso, dai civili in nero alle donne in rosso. «Il tutto visto con una luce gialla.»
Malgrado la sua esperienza di pianista nei bordelli di Buenos Aires, un mestiere esercitato a suo tempo anche da Giacomo Puccini, Dino Campana nei casini rimaneva in un angolo a capo chino, turbato e pronto a schermirsi se qualcuna prendeva l’iniziativa di sedersi al suo fianco. Ma quando aveva la sensazione di non essere osservato, guardava tutto attentamente, cercando di assorbire ogni particolare.
La timidezza poteva mascherarsi da truculenza. A diciott’anni Stendhal stese in poche ore il pornografico resoconto in versi della sera precedente, spesa in un lupanare di Brescia. Sottotenente dei dragoni, aveva descritto col tipico umorismo da caserma, grondante di doppi sensi, l’assalto silenzioso dei suoi compagni d’arme a quella fortezza senza difensori. I dragoni avevano bussato a tutte le porte, poi eccitati dall’«accento argentino di due voci femminili» si erano buttati su quelle «puttane». Nella frenesia, «tutti si eccitano e vogliono fottere nello stesso momento». Mentre Stendhal e un commilitone stavano sodomizzando le ragazze, era spuntato uno sbirro che aveva tentato di disturbarli, ma, opportunamente minacciato di castrazione, si era ritirato.
A Firenze, nel 1902, Paul Klee era entrato con due amici in un casino, in cui inaspettatamente regnava un’atmosfera solenne che li mise in imbarazzo. Nessuno parlava, la maîtresse lavorava a maglia e le signorine stavano sedute compostamente. Se non fosse stato per il loro succinto abbigliamento avrebbero pensato di avere sbagliato indirizzo. Interdetti, benché non fossero dei novellini, fecero dietrofront. A quel punto una delle pensionanti li apostrofò: «Che, forse si vergognano? perché se ne vanno?». Loro scoppiarono a ridere e scapparono via.
Nell’Educazione sentimentale Gustave Flaubert ricorda che con un amico si erano meticolosamente preparati a entrare per la prima volta in una casa chiusa. Si erano presentati trepidanti, con grandi mazzi di fiori, come fidanzati in visita, ma «il caldo, il timore dell’ignoto, una specie di rimorso, e persino il gusto di vedere, con una sola occhiata, tante donne a disposizione» lo avevano paralizzato e poi spinto alla fuga. Molti anni dopo, però, poteva concludere con il compagno di avventura di quel giorno: «Il nostro meglio, forse, lo abbiamo avuto allora».
Ancora più timido, nel 1865 lo studente Friedrich Nietzsche, a Colonia, era stato portato in un postribolo da un vetturino cui aveva chiesto di consigliargli un ristorante. Si vide improvvisamente circondato da un gruppo di figure in tulle e lustrini che lo guardavano speranzose. Non riuscì a dire nulla, finché un pianoforte, «l’unico oggetto dotato di anima di quella compagnia», non gli offrì una via di fuga. Gli bastò accennare qualche accordo per riprendersi e uscire. Musica o no, fu comunque allora, con ogni probabilità, che prese la sifilide. Molti anni dopo, ormai scivolato nella pazzia, si vantava: «Quando ero a Nizza, ho consumato con un gran numero di prostitute».
La soggezione verso le ragazze poteva anche portare il cliente a un’intimità più profonda. Drieu La Rochelle si lasciava coccolare dalle loro mani sapienti. Anche se avrebbe preferito venire subito al dunque, sapeva che per loro era un’abitudine e un rito. Inoltre, aveva paura di sembrare inesperto.
C’era anche un altro tipo di timidezza, che nasceva dalla consapevolezza dell’irrisorietà della somma pagata rispetto a quanto si riceveva. Per lo scultore Alberto Giacometti le prostitute, ricorda Jean Genet, erano divinità irraggiungibili, davanti a cui inginocchiarsi. «Non ricordo di avere ascoltato mai senza turbamento» confessa Mario Soldati «il ticchettìo dei tacchi delle ragazze che scendevano e che tra poco sarebbero apparse, dono meraviglioso, nel salotto dove le attendevo. Dono meraviglioso, anche perché me ne sono sempre sentito indegno.» A Londra Paul Morand avrebbe voluto sperimentare le «case disordinate», come le chiamava la legge inglese, ma non era riuscito a trovarle. Gli avevano detto che il genere di servizi che cercava fosse offerto anche da alcune manicure, ma aveva rinunciato a verificare per evitare che si ripetesse un’esperienza adolescenziale: la prima manicure gli aveva appena spuntato le unghie, la seconda gliele aveva accorciate di più, alla fine della giornata non aveva più unghie, ma non gli era successo niente.
Durante la seconda guerra mondiale, Vitaliano Brancati era entrato con un amico in un postribolo tanto diverso dagli altri da fargli sospettare di trovarsi in una casa borghese. Non c’era traccia delle statuine di Venere o di Cupido, l’arredamento era sobrio, le luci fioche. Incerti sul da farsi i due si erano divisi un giornale e stavano leggendo quando l’allarme aereo fece uscire da tre porte nascoste dalle tende dodici «meravigliose ragazze» succintamente vestite.
Poco dopo una di loro chiese a Brancati se volesse seguirla. «Vengo pure io?» domandò l’ultima arrivata. Lo scrittore sorrise, approvando, e a quel punto alle due se ne aggiunse una terza. Fu in quell’occasione che venne soprannominato Laocoonte, in omaggio al mitico troiano alle prese con dei serpenti scatenati.

II

CENTRI BENESSERE

Molti medici sostenevano che le case chiuse garantivano l’igiene sessuale delle nazioni, evitando destabilizzanti eccessi altrimenti necessari per soddisfare bisogni in gran parte fisici. Alfred de Musset confessava che le donne pubbliche lo spingevano «sulla strada delle visioni». E aggiungeva: «Si esce dal letto senza rimorsi e senza preoccupazioni, interamente purificati dalle inquietudini erotiche che ci hanno costretti a ricorrere alla cura».
Gustave Flaubert e Hippolyte Taine ne discutevano animatamente. Per l’autore di Madame Bovary il sesso era soltanto un bisogno immaginario, di cui si poteva benissimo fare a meno. L’austero Taine sosteneva invece che, se ogni quindici giorni non frequentava il bordello, non riusciva a lavorare con la consueta concentrazione. Al che Flaubert ribatteva che un rapporto mercenario non poteva dargli un sollievo paragonabile a quello di un incontro amoroso: «Ci vuole un po’ di emozione». Solo la brevità e l’innocenza dell’amplesso mercenario scaricavano la tensione accumulata in Simenon dalla scrittura. Doveva essere ogni volta una nuova prostituta per fare arrivare il piacere alla sua massima astrazione.
Non sempre gli artisti cedevano gioiosamente alla tentazione. Il tormentato Tolstoj constatava tristemente: «Più ci si trattiene, più il desiderio si rafforza. Le cause della passione sono due: il corpo e l’immaginazione. È facile tenere testa al corpo, ma quando l’immaginazione agisce sul corpo è molto difficile». In una di quelle crisi era entrato in un lupanare. «Ho fatto un cenno a qualcosa di rosa che da lontano mi sembrava delizioso, e ho aperto la porta. Lei è venuta. Non posso più vederla, è sgradevole, disgustosa, la odio perché per colpa sua ho infranto le mie regole.»
Molti continuavano a provare un senso di colpa. Il bellissimo Alphonse Daudet confessava che il vino lo spingeva irresistibilmente nei bordelli, anche se si sentiva colpevole verso la moglie, che peraltro lo perdonava regolarmente. Il giorno del suo anniversario di matrimonio si era fermato fuori da una misera casa chiusa per aspirare a pieni polmoni, «come un cane in calore», l’odore acre della prostituzione.
«L’appagamento del desiderio» diceva Kafka «mi sembra in fondo innocente e non mi lascia quasi nessun rimorso.» Prima del matrimonio Graham Greene quando si dirigeva verso un lupanare aveva come un riflesso condizionato: «Devo andarmi a confessare». Sentiva «di avere ceduto al primo vagito del suo corpo lubrico» e avvertiva «il terrore di vivere, di continuare a sporcarsi, poi pentirsi e a sporcarsi di nuovo».
Per Drieu il bello delle prostitute è che «sono leggere e non fanno perdere tempo all’arte. Le altre vogliono essere felici, terrenamente felici. Per le prostitute il sesso è fonte di denaro, non di felicità».
Un giorno Louis Aragon stava aspettando la prescelta in una stanza squallida, quasi interamente occupata da un letto largo e basso. Poi la porta si era aperta lasciando entrare una ragazza vestita solo delle calze. Vedendolo nudo ed eccitato, era scoppiata a ridere. Ma non aveva dimenticato le regole. «Vieni, carino, che ti lavo. Scusami se ho solo acqua fredda. Qui è così.» Poi, prevenendo ogni richiesta, aveva indicato l’inguine del poeta e aveva chiesto che cosa preferisse «lui».
La franchezza del rapporto mercenario rassicurava gli avventori. «Qui non c’è niente da fare, soltanto il bordello e nient’altro. Io pago, brutta parola, ma voglio tranquillità, e a questo prezzo la ottengo» confidava nel 1885 all’amico Émile Zola il pittore Paul Cézanne, allora a Aix-en-Provence. Le sbornie del bisessuale Paul Verlaine erano destinate a «concludersi in una casa chiusa per spegnersi in ondate di voluttà... a un tanto l’ora». Analogamente John Steinbeck aspirava a «un buon bordello, dove si possa andare a ubriacarsi e a scaricarsi, nello stesso tempo e senza complicazioni».
Più l’alcolismo minava la salute di Toulouse-Lautrec, più le prostitute alzavano i prezzi. Il denaro regolava ineluttabilmente gli scambi. Walter Benjamin ricordava i cuscini ricamati dei bordelli con la scritta «solo un quarto d’ora». Non sfuggì alla regola della gita al bordello, il giorno di capodanno, un adolescente bellissimo come Pierre Drieu La Rochelle. Inebriato dai profumi e dagli odori, aveva scelto una ragazza bionda, magra e ricciuta, la quale però, intuendo la sua mancanza di denaro, si era data da fare per mandarlo via. «Negare di avere pagato delle donne è una debolezza piccolo-borghese» asseriva Roger Vailland.
Le case chiuse risolvevano peraltro i problemi di chi era riluttante a impegnarsi sentimentalmente. Un giorno Joris Karl Huysmans, pressantemente corteggiato da una contessa infatuata delle sue pagine, si era rifugiato, alla Botte de paille della rue Mazarine, tra le braccia della «brava Isabelle»: «Quant’è più semplice!».
Certo non sempre le attrattive delle prostitute erano semplicemente rasserenanti. Una volta Huysmans aveva avuto una sorta di ossessione erotica per una fanciulla «straordinariamente viziosa». Ma un ricco americano di Cincinnati se l’era portata oltreoceano, lasciandolo nella disperazione.
Anche gli omosessuali frequentavano le case di tolleranza. Per Jean Lorrain, un habitué dei postriboli, su cui aveva scritto La Maison Philibert, «l’amore ha qualcosa di animalesco che riposa ed eccita al tempo stesso il cervello degli intellettuali».
Un giorno Oscar Wilde, in un bordello, aveva seguito una donna nella sua stanza, per poi riemergerne disgustato e paragonare il sapore dell’esperienza a quello del montone freddo.
Nelle case di piacere non temeva di andare nemmeno Proust, che anzi passava molto tempo a chiacchierare con quelle che per lui erano le depositarie di tanti interessanti segreti. Il contatto avveniva secondo un preciso rituale. L’autista dello scrittore andava a chiamargli la tenutaria che si presentava nell’auto, ferma davanti al portone. Proust le chiedeva sempre almeno due o tre pensionanti che faceva sedere vicino a sé, sui sedili. Poi sorseggiando con loro del latte, si addentrava per alcune ore in argomenti come l’amore o la morte. Verlaine, il compagno di Rimbaud, al tramonto della sua turbolenta esistenza ebbe un’ardente stagione erotica con prostitute affascinate dalla sua gloria e indulgenti sulla sua trascuratezza, in cambio dei suoi ultimi soldi.
Henri Murger, dopo qualche bicchiere bevuto per consolarsi di avere svenduto il suo libro a un astuto editore, si faceva prestare dieci franchi per andare al casino. «Quello di place Louvois è caro, ma è quello che preferisco. Tutti i lettori della Biblioteca nazionale si ritrovano lì.»
A un giornalista che lo intervistava sull’ambiente più adatto alla scrittura, William Faulkner aveva risposto: «Il miglior posto che mi abbiano offerto è quello di tenutario di una casa chiusa».
In quel clima quasi domestico, l’amata cameriera di Marguerite Yourcenar portava di pomeriggio la bambina per farle recitare davanti agli avventori e alle ragazze in déshabillé una poesia imparata dal padre, Notte di maggio di Musset: «Poeta prendi il liuto e dammi un bacio».
C’era anche chi mascherava la serialità del rapporto mercenario con la griglia dello studio statistico. Tra il 1892 e il 1907, Pierre Louÿs, raffinato erotomane, aveva registrato tutti i suoi incontri a pagamento. Il tema dominante era quello di un piacere che, un secolo prima, poteva costare la pena di morte, la sodomia. Una strada poco ortodossa, già prediletta dal marchese de Sade. Nelle sue scrupolose annotazioni, oltre alle reazioni delle prostitute e alle proprie, Louÿs descriveva in poche parole le sue compagne. Si andava dalla «vecchia e brutta, ma alta che doveva essere stata bella» alla «brunetta piena di passione» che aveva acconsentito solo a patto di essere a sua volta masturbata da lui.
Anche l’insospettabile Simone Weil si era intrufolata in un bordello travestita da operaio per studiare la prostituzione. D’altronde le tenutarie apprezzavano l’interesse delle persone di cultura. «Vorremmo vedere, un’occhiata per ragioni di cinema, sono De Sica» si scusò, nel 1947, l’attore e regista. «Gu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le signore della notte
  3. Introduzione
  4. Parte prima DONNE DI VITA
  5. Parte seconda DONNE DI CARTA
  6. Epilogo
  7. Bibliografia
  8. Fonti iconografiche
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright