La guerra di un soldato in Cecenia
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La guerra di un soldato in Cecenia

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  1. 408 pagine
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La guerra di un soldato in Cecenia

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Informazioni sul libro

George Orwell scrisse a proposito della Guerra Civile in Spagna - alla quale aveva partecipato - che "era un'alternanza di paura e di noia". E queste parole continuano a tornare alla mente di chiunque legga le sconvolgenti pagine sull'esperienza dell'autore in Cecenia. Come dimostra la cronaca anche recente, il conflitto in Cecenia resta una ferita aperta, un mostro che a intervalli regolari torna a dilaniare la regione del Caucaso (ma anche la Russia), mietendo vittime fra la popolazione locale, i ribelli ceceni, i giovani russi chiamati a combatterla, i moscoviti vittime di attentati. Nessuno è risparmiato. Non esistono né vinti né vincitori, non si impongono ragioni assolute né da una parte né dall'altra: le vittime e i carnefici appartengono a entrambi gli schieramenti. Lo sapeva Anna Politkovskaja, l'eroica giornalista assassinata nel 2006 in seguito alle sue denunce, lo sa Arkadij Babcenko, anche lui firma coraggiosa della "Novaja Gazeta".
Babcenko ha vissuto la devastante esperienza della guerra in Cecenia una prima volta a partire dall'estate del 1996, come soldato semplice, e quattro anni dopo tornandoci da volontario. In questo libro sulfureo e disperato, emozionante e terribilmente onesto l'autore racconta il suo viaggio dall'innocenza all'esperienza, dalla vita alla morte. Per giungere fino a quella assurda situazione di esistenza sospesa tipica del soldato rientrato in patria che fatica a dare un senso alle sue giornate lontano dalla guerra. La sua penna ci accompagna in quel mondo di paure, violenze, crudeltà, rassegnazione, stenti, freddo, fame, degrado, devastazione, follia, sfortune e fortune dei soldati russi giunti in Cecenia per difendere la patria e ritrovatisi a combattere contro un nemico da annientare per non essere annientati, ma che finiscono anche per massacrarsi spietatamente fra loro.
Nel solco della grande tradizione di opere come Comma 22 di Heller e Addio alle armi di Hemingway, i racconti di Babcenko sono una sequenza di "pugni nello stomaco": un rude, meticoloso trattamento cui il lettore viene sottoposto per capire fino in fondo che cos'è - oggi più che mai - la guerra: una brutale palude di aberrazione e orrore dentro la quale è destinata a sprofondare qualsiasi forma di umanità.

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Informazioni

Alchan-Jurt

Dalle prime luci dell’alba una tediosa pioggerellina continuava a cadere. Il cielo, ingombro di nuvole gravide, appariva basso e freddo, e al mattino i soldati strisciavano con disgusto fuori dai propri rifugi interrati.
Artëm, con il giubbotto gettato di traverso sulle spalle, era seduto di fronte al portello aperto di una stufetta e, senza pensare a niente, trafficava con l’attizzatoio. La legna umida non ne voleva sapere di bruciare, un fumo acre e resinoso si diffondeva a strati per la tenda umida e si depositava nei polmoni come pulviscolo nero. Il mattino, bagnato e malinconico, ottundeva la mente: non avevano voglia di fare nulla e Artëm aggiungeva pigramente gasolio nella stufa, sperando che prendesse fuoco e che non gli toccasse cercare a tentoni nella semioscurità l’accetta, finita calpestata nel liquame ghiacciato, per poi spaccare ciocchi fradici.
Il tempo piovoso imperversava già da una settimana. Freddo, umidità, un’atmosfera pregna e nebbiosa, insieme a sporcizia permanente, erano deprimenti; il plotone scivolò pian piano nell’apatia. I soldati si lasciarono andare, smisero di curarsi.
Lo sporco era dappertutto. La grassa terra argillosa cecena impastata dai tank si rapprendeva sugli stivali a zolle pesanti, si spargeva per la tenda in un batter d’occhio, ricadeva a tocchi sui tavolacci, sulle coperte, si insinuava sotto la giacca, intaccava la pelle. Aderiva alle cuffie della radio, ostruiva le canne dei mitra, non c’era assolutamente possibilità di liberarsene; le mani, appena lavate, si risporcavano immediatamente, bastava toccare qualcosa. I soldati, intontiti, ricoperti di questa crosta argillosa, cercavano di muoversi il meno possibile, la loro vista si era indurita, si era congelata insieme alla natura, concentrandosi solo sulle giacche calde in cui si avvolgevano, preservando il calore, non avevano la forza di uscire dal loro piccolo guscio per lavarsi.
La stufa iniziò a ravvivarsi. Tremuli riflessi ramati furono sostituiti da una continua brace bianca; la stufa iniziò a fischiare, a sparacchiare carboncini di resina, un caldo tepore si propagò a ondate per la tenda. Artëm protese le mani illividite e screpolate verso i fianchi rossastri della stufa, contemplò la danza del fuoco, aprendo e chiudendo le mani, gustandosi il calore.
La cortina si spalancò, facendo sventolare l’umida tenda catramata sulla parete opposta, e Artëm ebbe uno scatto a causa del freddo che gli investì le gambe. Il soldato che stava entrando si fermò sulla soglia, lasciando l’ingresso aperto, e iniziò a scrostare con il badile l’argilla attaccata agli stivali. Senza alzare la testa, Artëm ringhiò:
«Non siamo sul tram! Chiudi!»
La cortina frusciò, schermando l’aria, e nella tenda entrò il comandante del plotone. Aveva più o meno venticinque anni. Lui e Artëm erano quasi coetanei, in tutto avevano un paio di anni di differenza, ma Artëm si sentiva molto più adulto di quel comandante eternamente ragazzino dall’allegria puerile, con due grandi orecchie a sventola, che aveva conosciuto la guerra da un solo mese e non aveva ancora visto niente.
Il comandante si distingueva per due particolarità. Innanzitutto, a qualunque azione si accingesse la prima volta, non gli riusciva mai, o comunque gli riusciva male. Per questo motivo durante gli schieramenti non facevano che sfotterlo; nel reggimento, tutti lo chiamavano Malfatto. Al quartier generale, scherzando, sostenevano che Malfatto da solo aveva causato più danni di tutti i cechi messi insieme.
In secondo luogo, di ritorno da una riunione, non poteva fare a meno di appiopparti un incarico. Con la sua vocetta squillante, contento come se gli avessero regalato una caramella, Malfatto, parlando fitto, distribuiva i vari compiti ai soldati che rispondevano scontenti; dopo li spediva sulla strada a pedate, mandandoli lungo la linea al freddo e al vento, a interrare un cavo di contatto o chissà che altro.
Malfatto, dopo aver dato un’occhiata di sfuggita ad Artëm, passò oltre verso la propria branda, si sdraiò e si accese una sigaretta. Un burroso blocco d’argilla si staccò dal suo tacco, come un iceberg che si separa dalla terraferma, e atterrò su un altro stivale lasciato accanto alla stufa perché si asciugasse. Soffiando fuori una nuvola di fumo, Malfatto fissò il soffitto.
“Ecco che comincia” pensò Artëm, osservandolo. Sembrava un bambino a conoscenza di un segreto che non riesce più a trattenersi dal raccontare, anche se non hai nessuna voglia di sentirlo. “Cavolo, non riesce proprio a non seccarti, a non romperti con i suoi incarichi, questo coglione con le orecchie a sventola. E ogni volta monta su la stessa scena.”
Malfatto fece ancora un paio di tiri, poi spostò lo sguardo su Artëm, e come se lo vedesse per la prima volta gli si rivolse in tono allegro:
«Preparati. Devi andare con il comandante del quartier generale ad Alchan-Jurt. I ceceni hanno sfondato uscendo da Groznyj, seicento uomini. Le truppe del ministero degli Interni li hanno bloccati ad Alchan-Jurt.»
«Se quelli degli Interni li hanno bloccati, lasciamo anche che li prendano» commentò Artëm, senza nemmeno alzare la testa, continuando a trafficare nella stufa. «I rastrellamenti sono lavoro loro. Noi che c’entriamo?»
«C’è un buco da tappare,» riprese con foga il comandante «alla palude. La 15a compagnia ci è già arrivata: loro staranno a destra, a sinistra ci sono le truppe degli Interni, in mezzo nessuno, ci sbattono noi.» All’improvviso si fece serio, meditabondo. «Prendi la radio, due batterie di riserva. Il giubbotto antiproiettile è obbligatorio, è un ordine del comandante di battaglione. Se devi toglierti qualcosa, lo lasci giù lì.»
«Faccenda seria?»
«Non so.»
«Staremo via a lungo?»
«Non lo so. Il comandante di battaglione ha detto più o meno fino a sera, poi vi rilevano.»
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Di fronte alla tenda del quartier generale c’erano già tre BTR pronti. Su due stavano salendo accigliati gli uomini della fanteria, la testa riparata dalla pioggia con un poncho impermeabile. Sul primo veicolo sedeva il capitano Sitnikov, il comandante del quartier generale. Con una gamba che dondolava nel portello di comando, urlava qualcosa e gesticolava. In quella posa, nella fretta che regnava intorno al quartier generale, Artëm fiutò subito nervosismo. A mano a mano che si era avvicinato alle tende aveva aumentato sensibilmente il passo, si era adeguato al ritmo del moto comune. Si era tolto il ricetrasmettitore portatile dalla spalla mentre si avvicinava al veicolo, per poi allungare il braccio verso il corrimano preparandosi a salire sul blindato:
«Signor capitano, si parte subito?»
«Subito, stiamo solo aspettando Ivenkov.»
Sapendo che mancava ancora l’attendente di Sitnikov, Artëm si tranquillizzò.
Non aveva nessuna voglia di sedersi sul veicolo bagnato, quindi restò giù. Aspettando Ivenkov, iniziò a sbattere gli stivali contro la ruota, ritardando sino all’ultimo il momento in cui avrebbe dovuto togliersi i guanti, afferrare il corrimano bagnato e arrampicarsi su quel BTR scivoloso: sentiva freddo solo a guardarlo.
Artëm bussò un paio di volte sulla corazza con il calcio del fucile.
«Ehi, autista!»
«Che c’è?» Un meccanico-autista sconosciuto e sporco si affacciò dal boccaporto e gettò un’occhiata malevola ad Artëm.
«C’è che due non fa tre. Dammi qualcosa da mettere sotto il culo, la corazza è tutta bagnata.»
L’autista sparì inghiottito dal boccaporto, frugò rumorosamente. Un minuto dopo un cuscino unto e bisunto volò attraverso il portellone, rotolò lungo il blindato e cadde proprio sotto i piedi di Artëm, in una piccola pozzanghera. Artëm imprecò. Tentando di non sporcarsi, lo sollevò con due dita e cercò di pulirlo contro il portello. L’argilla sul cuscino si spalmò tutta. Artëm imprecò di nuovo e lo lanciò indietro, sul veicolo.
Dalla tenda saltò fuori Ivenkov al galoppo e corse verso di loro, con gli occhi sgranati. In ogni mano trascinava un “Calabrone” e due “Mosca” che gli urtavano le gambe. Artëm si tolse un guanto, salì alla svelta sul BTR, prese da Ivenkov i “Calabroni”, i “Mosca” e la radio, gli porse il braccio e, schiena contro schiena, piombarono sul cuscino lurido.
«Andiamo!» disse Sitnikov, e l’autista, dopo aver girato di scatto il BTR, si avviò in direzione Alchan-Jurt.
La pioggia aumentò di intensità. Il BTR, sforzando il motore che muggiva, strisciava lungo la carreggiata larga un metro e infossata. Il fango zampillava a fiotti da un chilo verso il cielo basso, colpiva la corazza, volava dentro il colletto, sul viso. Soprattutto, ricadeva indietro, sul veicolo che procedeva attaccato al loro, quello della 9a compagnia; Artëm, sorridendo, guardava la fanteria prendersela con quell’idiota dell’autista. Poi qualcuno picchiò sul capo del guidatore, che si distanziò.
Un elmetto, rotolando lungo il veicolo, colpì Artëm sulla coscia. Lui lo raccolse, lo svuotò dell’acqua piovana che si era accumulata al suo interno, lo indossò: per lo meno il berretto sarebbe rimasto pulito.
Ivenkov gli diede una gomitata nella schiena:
«Artëm! Ehi, Artëm!»
«Che c’è?»
«Hai da fumare?»
«Sì.»
Artëm infilò la mano nella tasca davanti del giubbotto antiproiettile, frugò a lungo cercando le sigarette e i fiammiferi in mezzo alle gallette, l’alcol, le cartucce e Dio solo sa cos’altro; alla fine scovò un pacchetto di Prima malconcio, ed estratte due sigarette ne diede una a Ivenkov. Voltandosi l’uno verso l’altro, proteggendo con il palmo della mano la fiammella, le accesero.
La sigaretta fra le mani bagnate si rammollì presto, l’aria ci passava attraverso. Artëm sputò i residui di tabacco che gli si erano attaccati alle labbra, si riparò con l’elmetto e sprofondò nel bavero della giacca. Avvolse la cinghia del mitra intorno al braccio e con il piede accese la radio che stava sul blindato. Mise un auricolare sull’orecchio sinistro, ascoltando, e l’altro lo fece passare dietro la nuca. In linea non si sentiva niente. Artëm chiamò un paio di volte “Pioniere”, poi “Corazzato”, ma nessuno rispose. Spense l’apparecchio per risparmiare la batteria.
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La grigia campagna cecena, che scorreva lentamente all’indietro circondata da nubi e nebbia, senza né inizio né fine, era angosciante. Una pioggia sottile bagnava il viso, colava lungo l’elmetto, gocciolava nel bavero; in basso, da sotto le ruote del BTR il fango schizzava sul volto.
Artëm era già fradicio e sporco. I guanti, umidi, non tenevano caldo, si erano fastidiosamente incollati alle mani, il bavero sfregava contro le guance, la corazza del veicolo gli segava la schiena.
“Sto delirando, sono in un sogno assurdo” gli venne da pensare. Che cosa ci faceva lì? Cosa ci faceva, lui, un moscovita, un ragazzo russo di ventitré anni, con una laurea in giurisprudenza, in quella campagna estranea, non russa, a mille chilometri da casa sua, su un suolo estraneo, con un clima estraneo, una pioggia estranea? Come c’era finito? Perché? Perché quel mitra, quella ricetrasmittente, quella guerra, quella burrosa melma cecena al posto di un letto pulito e caldo, di una città ordinata come Mosca, di un bell’inverno bianco e nevoso?
No, lui qui non c’era, a rigor di logica, lui qui non c’era e non avrebbe dovuto esserci. Non c’era niente di russo, tutto estraneo, lui non aveva proprio niente a che fare con quel posto. Ma quale Cecenia, per l’amor del cielo, dove si era mai vista una roba del genere? Era un sogno, chiaro, un’allucinazione pazzesca.
O forse il sogno era Mosca, e in realtà andava così fin dalla sua nascita, stava su un veicolo corazzato, puntellandosi con noncuranza al corrimano con la gamba, la cinghia del mitra avvolta intorno alla mano?
Artëm estrasse un’altra sigaretta.
Curioso, si era adattato presto a viaggiare sul blindato. Le prime volte si afferrava a tutti i corrimano, si appigliava a tutte le sporgenze, eppure veniva sballottato lo stesso per tutto il BTR, come un calzino in una lavatrice. Ma nel giro di una settimana, il suo corpo aveva trovato in modo autonomo le posizioni ottimali, per cui adesso poteva sedere in qualunque punto del veicolo in movimento, persino sulla canna della mitragliatrice pesante, quasi senza reggersi e senza mai cadere.
Anche adesso che il BTR saltellava da una parte all’altra per fosse e pozzanghere, lui e Ivenkov, semisdraiati comodamente sul blindato, fumavano, con una gamba che penzolava rilassata dalla corazza; se ne infischiavano. Soltanto questa pioggia bastarda e il fango avevano rotto...
Artëm chiamò Ivenkov. Quello si voltò, lo guardò con un’espressione interrogativa. Artëm gli strillò nell’orecchio:
«Ascolta Ventus, dimmi, dove stiamo andando? Sei sempre lì a cazzeggiare al quartier generale, sai sempre tutto.»
«Dalle parti di Alchan-Jurt.»
«Questo l’ho capito. Ma cosa c’è lì? Sitnikov che dice?»
«I cechi. Basaev. Da Groznyj sono venuti via seguendo il corso del fiume circa seicento uomini; ad Alchan-Jurt si sono imbattuti nelle truppe del ministero degli Interni. Adesso sono circondati.»
«Grazie tante, questo lo sapevo anch’io! Voglio capire cosa dobbiamo fare, prendere Alchan-Jurt?»
«Sa il diavolo. Non per adesso, almeno credo, siamo diretti a tendere un’imboscata. Le truppe del ministero degli Interni li prenderanno e li spingeranno da quella parte, usciranno verso di noi. Lì ci pensiamo noi.»
«Come, con un plotone?»
«Dietro di noi ci sono ancora i mortai, mentre la nostra fanteria è già arrivata sul post...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La guerra di un soldato in Cecenia
  3. Dieci episodi di guerra
  4. La pista
  5. Mozdok-7
  6. L’estate del ’96
  7. Argun
  8. Il sogno di un soldato
  9. Capodanno
  10. L’assalto
  11. Pace
  12. Carico speciale
  13. Alchan-Jurt
  14. Il campo di battaglia sbagliato
  15. L’uomo di Dio La favola di Egorov e di come andò in Cecenia
  16. Igor’
  17. L’obelisco
  18. Lajs
  19. Specnaz
  20. Solo, è nero!
  21. Prendi Baraev!
  22. Salve, sorella
  23. Traditori Anche loro hanno combattuto in Cecenia. Dall’altra parte del fronte
  24. Battaglione penale
  25. L’Operazione “Vita” continua...
  26. Copyright