La giustizia è una cosa seria
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Come funziona veramente il nostro sistema giudiziario? Quali leggi sono efficaci e quali invece intralciano l'azione della magistratura? Quali provvedimenti potrebbero essere utili a rendere davvero ostile il terreno per la criminalità organizzata in Italia e nel mondo? Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, torna a dialogare con Antonio Nicaso, studioso tra i massimi esperti mondiali di 'ndrangheta, per aiutarci a comprendere meglio gli ingranaggi di quella complessa macchina del sistema giustizia, la cui riforma ormai non è più procrastinabile.
Le proposte avanzate finora dal governo non sembrano capaci di risolvere i tanti problemi in campo, come la lunghezza dei processi, le carenze di organico nei tribunali e nelle procure più esposte alla lotta contro le mafie e il malaffare politico. Ben altre sono, secondo Nicola Gratteri, le riforme che potrebbero aiutare la giustizia: la revisione delle circoscrizioni giudiziarie che ricalcano ancora lo schema ottocentesco, quando le distanze venivano coperte a dorso di mulo, la riduzione del numero dei tribunali, l'utilizzo della posta elettronica per l'esecuzione delle notifiche, la depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale alle questioni di maggiore allarme sociale e tanti altri piccoli accorgimenti studiati nell'interesse esclusivo della giustizia. Come le tanto contestate intercettazioni che, sottolinea il magistrato, a Reggio Calabria costano 11 euro più Iva al giorno contro i 3000 di un pedinamento da Roma a Reggio Calabria (che spesso non garantisce il risultato, perché talvolta il pedinato se ne accorge e riesce a farla franca). Anche se in Italia siamo più avanti rispetto al resto del mondo nella legislazione antimafia, c'è ancora molto da fare. Serve la volontà di tutti, per offrire gli strumenti migliori alla magistratura e alle forze dell'ordine, senza intaccare i diritti e le garanzie fondamentali. Perché la giustizia è una cosa seria, ripete spesso Gratteri, e meriterebbe una riforma seria, non strillata, espressione di scelte condivise, concepite nell'interesse generale.

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Informazioni

I

La giustizia

Come funziona veramente il sistema giudiziario nel nostro paese? Quali leggi sono efficaci e quali invece intralciano l’azione della magistratura nella sua lotta contro la criminalità organizzata? Quali provvedimenti potrebbero essere utili?
Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, è noto come magistrato che dice verità scomode ed esprime opinioni controcorrente. Non è abituale commensale di nessuno e la sera cena a casa, secondo una saggia e vecchia regola di prudenza.
Parlare di giustizia, in questo momento, non è facile, tira una brutta aria. E forse non è il caso di aggiungere considerazioni cupe a uno scenario già inquieto, anche se la politica si comporta come i musicanti che continuavano a suonare mentre il Titanic stava affondando.
La giustizia è una cosa seria, ripete spesso Nicola Gratteri. E meriterebbe una riforma seria, espressione di scelte condivise, concepite nell’interesse di tutti.
L’idea di riforma fa pensare a qualcosa da correggere, da cambiare, da migliorare. Le proposte avanzate dal governo non sembrano capaci di risolvere i tanti problemi della giustizia, come la lunghezza dei processi, le carenze di organico nei tribunali e nelle procure più esposte alla lotta contro le mafie e il malaffare politico. Ben altre sono, secondo Nicola Gratteri, le riforme che potrebbero aiutare la giustizia, come la revisione delle circoscrizioni giudiziarie che ricalcano ancora lo schema ottocentesco, quando le distanze venivano coperte a dorso di mulo, la riduzione del numero dei tribunali, l’utilizzo della posta elettronica per l’esecuzione delle notifiche, la depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale alle questioni di maggiore allarme sociale e tanti altri piccoli accorgimenti studiati nell’interesse esclusivo della giustizia.
Oggi le inefficienze del sistema giustizia costituiscono sicuramente una priorità. Nove milioni di processi pendenti sono davvero un macigno. Ma per risolvere questi problemi c’è bisogno di un sereno confronto sociale e istituzionale, nel rispetto dei ruoli. Politici e magistrati dovrebbero riflettere sullo stato della giustizia, non scontrarsi, rischiando la delegittimazione reciproca.
Ci sono tante cose che non quadrano. La legge, che dovrebbe rappresentare il potere di chi non ha potere, spesso sembra non essere uguale per tutti; e nel paese prevale l’opinione che essa per alcuni sia più uguale che per altri.
Un tempo si diceva che per «coprire» gli occhi alla giustizia fosse sufficiente avere soldi e amicizie. Ora le disuguaglianze vengono legittimate in Parlamento con leggi che puniscono più gravemente l’immigrazione clandestina che il falso in bilancio o la corruzione per atto d’ufficio. Che gli straccioni e i galantuomini siano soggetti a due giustizie rimane il dubbio di sempre.
E, intanto, le mafie continuano a espandersi e a investire nelle zone più ricche del paese. Si muovono sotto traccia e si confondono tra gli onesti. Pochi denunciano e i politici minimizzano, come se quella della criminalità organizzata non fosse una questione aperta da centocinquant’anni. Fanno più paura i rom, i lavavetri, gli immigrati clandestini. Il malaffare si nasconde dietro i colletti bianchi, tra le pieghe di un sistema che favorisce i più furbi.
Un tempo si rubava per il partito, oggi per se stessi. Le cricche dilagano, impunite e impettite. Ogni tanto qualche politico disonesto finisce in galera. E la magistratura torna a essere «emergenza democratica» o, peggio, «minaccia allo Stato». Da molte parti s’invoca il rispetto della privacy, mettendo in discussione la legge sulle intercettazioni, uno strumento efficacissimo nella lotta alle mafie e alla malapolitica. E vengono proposte riforme che finiscono per garantire impunità a chi ha più potere.
È un’amara constatazione, ma sembra che questo paese abbia costantemente bisogno di mafia. Quasi non fosse capace di fare a meno dei suoi soldi e dei suoi voti.
Ma sono soldi e voti di quelle stesse mafie che si arricchiscono con i proventi della droga, del pizzo, dell’usura e che continuano a speculare sugli appalti come grandi idrovore di denaro pubblico, lasciando fluire verso imprenditori disinvolti, politici e funzionari corrotti fiumi di denaro sporchi di sangue. Le stesse mafie che votano e fanno votare: «Compare, ha vinto la destra e si sono spostati tutti a destra. Poi ha vinto la sinistra e si sono spostati tutti a sinistra». È il potere l’unica ideologia dei mafiosi.
Ma sono sempre più i politici a cercarne i voti, i favori. Come se fosse normale farsi sostenere da chi impedisce all’economia di decollare, al paese di crescere e ai giovani di sognare. Serve un riscatto della classe politica per evitare la dissoluzione d’un paese che continua a produrre collusione e corruzione, mafie e cricche.
Sapere, però, che esistono magistrati come Gratteri, impegnati a tenere ancora accesi i fuochi nel villaggio squassato dalla tempesta, e che con le loro sassate ci costringono alla riflessione, fa sperare in un’Italia che non solo resiste, ma che ha la forza di lottare. Ci sono loro, ma ci siamo anche noi.
ANTONIO NICASO: La giustizia è un mondo complesso e difficile, che i cittadini però vogliono capire. Lei che idea s’è fatto?
NICOLA GRATTERI: La giustizia è un mondo difficile da capire per chi non ci lavora dentro. Per Livio Pepino, magistrato e condirettore di «Narcomafie», la parola giustizia evoca, anzitutto, il sogno di libertà e uguaglianza per tutti che attraversa, irrealizzato, la storia dell’umanità. La giustizia dovrebbe «riconoscere e rispettare il diritto di ognuno mediante l’attribuzione di quanto gli è dovuto secondo la ragione e la legge».1 Ma non è sempre così. Spesso purtroppo la giustizia deve fare i conti con la carenza di magistrati, personale amministrativo e risorse adeguate. Attualmente il deficit di organico è enorme – mancano 1187 magistrati su un totale di 10.151 – ed è destinato ad aumentare, in tempi brevi, con le richieste di pensionamento anticipato collegate alla nuova disciplina del trattamento di fine rapporto di servizio. Nelle procure, che rappresentano la prima linea dell’intervento giudiziario nella lotta alle mafie, un anno fa mancavano 249 magistrati. In Calabria in queste condizioni si trovano 10 procure su 11, in Sicilia 18 su 19.
Stesso discorso per quanto riguarda il personale amministrativo. Nel corso degli ultimi quindici anni si è registrata una continua e significativa diminuzione degli impiegati, senza che sia stato indetto un concorso per cancelliere.
C’è poi un contenzioso patologico, come lo ha definito il vicepresidente del Csm Michele Vietti, «che nel penale è incentivato dalla continua introduzione di nuovi reati e, nel civile, non viene disincentivato dalla tanto attesa semplificazione dei riti».2
Nel III secolo il giurista romano Ulpiano definì la giustizia come qualcosa che consente di «dare a ciascuno il suo». Ma che cos’è «il suo»?
Parole ancora attuali e che rimandano al criterio di equità, e quindi di giustizia. Un concetto cui dovrebbe ispirarsi il nostro vivere quotidiano. Quello che è certo è che «a ciascuno il suo» non dovrebbe mai poter significare la titolarità o il possesso «a prescindere» dalla legittimità a possedere. Parole antiche, che ancora ci chiamano alla coerenza etica fra il «cosa» ci appartiene e il «come» quella cosa è stata conquistata. I diritti sono il frutto di un cammino di cittadinanza che deve, necessariamente, accompagnarsi al pieno rispetto della legalità democratica.
«Il suo», secondo me, è ciò che ognuno di noi saprà conquistare nella vita, guidato dal criterio del reciproco rispetto.
In un passo della Repubblica di Platone, Polemarco, interpretando una massima di Simonide, viene condotto da Socrate a sostenere che la giustizia è l’arte di fare del bene all’amico che è buono e del male al nemico che è cattivo. La giustizia presuppone dunque una società divisa in amici e nemici?
Questo è un concetto che non mi sento di condividere. La giustizia non può essere un sistema di regole basate sull’egoismo, magari legittimato da un rapporto di forza. La giustizia, per me, è tutto ciò che può portare a un corretto rapporto tra l’esercizio del diritto e la forza a pretenderne il rispetto, chiunque sia l’altro e quantunque sia forte il potere di chi glielo contende. Nella storia ci sono varie definizioni di giustizia, a testimonianza che gli uomini l’hanno sempre considerata un elemento di primaria importanza per la vita sociale. Trasimaco riteneva che «i giusti, nella relazione con gli ingiusti, perdono sempre». E io aggiungo che perderanno sempre se non ci sarà la giustizia a difenderne le ragioni. Preferisco sottoscrivere il concetto enunciato dal filosofo Blaise Pascal, secondo cui la giustizia è «impotente» senza la forza e la forza è dispotica senza la giustizia. Occorre saper coniugare la giustizia con la forza per garantire che il giusto sia forte e che il forte sia anche giusto.
Ma, secondo lei, la magistratura non ha nulla da rimproverarsi nella crisi della giustizia?
Anche noi dobbiamo fare autocritica, dobbiamo riconoscere i nostri errori. Le convinzioni ideologiche non sempre hanno consentito una gestione coerente delle carriere. In certi casi, le appartenenze hanno prevalso sui meriti.
Ma non è possibile accettare che alcuni ci considerino gli unici responsabili di un sistema in crisi o, ancora peggio, dei fannulloni superpagati, riuniti in una corporazione impegnata a proteggere gli interessi di una casta accusata delle peggiori nefandezze. Lo dobbiamo ai colleghi che hanno pagato con la vita la passione per la giustizia e a quanti lavorano con impegno e in silenzio.
La crisi della giustizia in Italia ha un’origine complessa e non avrebbe senso tentare di semplificarla attribuendo ogni responsabilità alla politica. C’entra sicuramente anche la crisi di ideali che attraversa la nostra nazione e forse anche il mondo della magistratura. Ne è un esempio la cosiddetta «desertificazione» delle procure, con le numerose scoperture degli uffici giudiziari requirenti che, secondo alcuni, sarebbe dovuta a una legge, approvata sotto la precedente maggioranza di centrosinistra, che vieta ai magistrati di prima nomina di svolgere le funzioni di pubblico ministero. Le critiche non sono mancate neanche al nuovo governo di centrodestra, ritenuto responsabile di non avere subito modificato quella legge. Devo però ammettere che, pur non avendo nessuna intenzione di prenderne le difese, il governo ha tentato di evitare la scopertura delle procure più periferiche. Dapprima ci ha provato concedendo incentivi economici e di carriera; poi con un sistema che consentiva di assicurare il trasferimento d’ufficio verso le sedi scoperte. E quando, da entrambi i rimedi, non sono venuti gli effetti sperati, il governo ha deciso di derogare al divieto dell’invio dei magistrati di prima nomina nelle sedi del Sud.
Ma siamo poi tanto sicuri del fatto che un gruppo di giovani magistrati, ancora privi della necessaria esperienza, possa risolvere i problemi delle sedi requirenti periferiche? O non sarebbe stato meglio poter contare su magistrati esperti da contrapporre alle agguerrite organizzazioni mafiose? Forse anche tra i magistrati si vanno affievolendo la motivazione, la idealità, la voglia di combattere che, al momento dell’entrata in magistratura, li aveva spinti a mettersi in gioco per il trionfo della giustizia.
Sembra che anche il nostro autogoverno a volte preferisca gli atteggiamenti di tipo corporativo. Mi risulta per esempio che il Csm, mentre veniva annunciata la desertificazione delle procure, abbia realizzato la più grossa movimentazione di magistrati mai avvenuta prima, bandendo ogni sei mesi tutte le sedi più appetibili (come Roma o Milano), cosa che mai era avvenuta in passato. Un’opportunità che, come era prevedibile, ha invogliato molti colleghi a chiedere il trasferimento lasciando scoperte tante altre sedi del Sud.
Più che dare degli incentivi e approvare la legge sui trasferimenti d’ufficio il ministero che cosa poteva fare? E la magistratura poteva evitare la soluzione corporativa?
Certo è che la somma di queste decisioni si è trasfusa in una cultura impiegatizia dell’inamovibilità, non legata alle garanzie alte e nobili dell’indipendenza, ma alla scelta di svolgere il proprio compito nel modo più comodo, anche in presenza di una emergenza nazionale.
E, in questa emergenza, noi magistrati dovremmo interrogarci per cercare di capire anche il perché del nostro cambiamento.
Come dovrebbe essere un magistrato?
La migliore definizione è quella di Rosario Livatino, il giudice-ragazzino ucciso dalla mafia nel 1990: «L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma è anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella indisponibilità a iniziative e ad affari, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione e il pericolo della interferenza».
Parole e concetti di straordinaria attualità, che disegnano il modello di professione nel quale ogni magistrato dovrebbe riconoscersi.
Nel XVIII secolo Cesare Beccaria, autore dell’opera Dei delitti e delle pene, scrive: «Non c’è peggiore giustizia di quella che arriva in ritardo».
È vero. In Italia ci sono processi che non finiscono mai. Da anni i codici di procedura penale e civile subiscono continue e inutili riforme. Come se al legislatore fosse utile una giustizia che non funziona. È emblematica la legge sul falso in bilancio, diventata ormai inapplicabile perché a nessuno conviene che venga applicata. A volte la giustizia sembra una macchina costruita per macinare acqua, per rimanere ferma.
Quindici anni fa, per i tre gradi di giudizio, trascorrevano in media otto anni e dieci mesi; oggi ce ne vogliono nove e mezzo. Il nostro è uno Stato autolimitativo che fa di tutto per porsi dei paletti, anche quando non se ne vede la necessità. Non possono esserci scelte costituzionali mirate che consentano alla politica di controllare il giudice, ma neanche leggi che possano ostacolare il sistema giudiziario nella persecuzione dei reati.
Eppure da tempo si parla di processo breve, di riti abbreviati. Sono utili alla giustizia?
Nessun beneficio per il sistema giustizia. Si tratta di meccanismi che consentono di accorciare le pene degli imputati, ma non i tempi del processo. E non capisco come si possa continuare a sostenerne l’utilità. Sarebbe meglio riflettere e non cedere alle facili suggestioni.
Nei processi di mafia, il rito abbreviato non serve a nulla. Non velocizza i processi e aiuta i mafiosi a ottenere pene meno pesanti. Basta seguire la prassi giudiziaria per capirlo.
Se quaranta imputati su cinquanta chiedono di essere giudicati con il rito abbreviato, in caso di condanna beneficeranno della riduzione di un terzo della pena. Per dimostrare la penale responsabilità degli altri dieci imputati, da giudicare con il rito ordinario, bisognerà sentire in dibattimento nel contraddittorio delle parti decine di testimoni, spesso ufficiali di polizia giudiziaria, e ripercorrere la posizione penale degli altri quaranta imputati, già giudicati con il rito abbreviato. E allora, dov’è il guadagno per la giustizia? Dov’è l’abbattimento dei costi e dei tempi? Se veramente si vuole combattere la mafia bisogna che la giustizia possa contare sulle necessarie risorse di uomini e tecnologia. Della clemenza si potrebbe fare un uso migliore se dedicata a chi vuole collaborare con la giustizia e non a chi si arricchisce sulle spalle della gente onesta.
La riforma della giustizia è un tema ricorrente. Secondo lei serve? E serve a tutti?
Non si può giudicare compiutamente una bozza. È più corretto valutare l’articolato di un disegno di legge, di una proposta, di un decreto. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha garantito che non ci sarà nessuna ingerenza del potere esecutivo in quello giudiziario. Aspettiamo con fiducia che dalle parole si passi ai fatti. Finora, le intenzioni di questa riforma non sono state molto chiare. Si è parlato di separazione delle carriere, di responsabilità civile dei giudici, di differente articolazione del Csm, di modifiche per la Corte costituzionale (con decisioni a maggioranza qualificata dei due terzi dei membri e non più a maggioranza semplice). C’è molta confusione. Come ha spiegato efficacemente il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, «la priorità oggi è costituita dal malfunzionamento del sistema giudiziario, che sconta ormai da troppo tempo una grave crisi per la mancanza di un’adeguata risposta alla legittima domanda di giustizia dei cittadini, con effetti negativi sulla credibilità dell’istituzione nel suo complesso e su quella dei singoli magistrati, che vengono spesso individuati quali unici responsabili delle palesi disfunzioni e sui quali finiscono per concentrarsi inevitabilmente le insoddisfazioni della collettività».
Serve una riforma seria, ma non strillata. Prendiamo per esempio l’idea della separ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La giustizia è una cosa seria
  3. Prefazione
  4. La giustizia
  5. Cupole e sangue
  6. La droga
  7. Da Rosarno a Milano
  8. Il potere
  9. La speranza
  10. Note
  11. Ringraziamenti
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright