Il secolarismo
Le pagine precedenti hanno più volte richiamato il fatto che l’esigenza della nuova evangelizzazione è determinata dal contesto culturale e sociale. Per questo motivo siamo costretti a confrontarci con il tema dell’inculturazione e dell’efficacia del Vangelo nel saper entrare nelle culture, comprenderle, plasmarle e trasformarle. Per alcuni versi, questo era più facile nel passato sia quando la Chiesa evangelizzava per la prima volta, sia quando entrava in rotta di collisione con le ideologie. Infatti, il referente era facilmente identificabile e, soprattutto, si presentava in forma unitaria.
Il contesto di frammentazione odierno, la pluralità delle posizioni e soprattutto la diversificazione dei linguaggi e dei comportamenti impongono un’attenzione diversa e una fatica maggiore. Inoltre, nel momento in cui si deve parlare di nuova evangelizzazione dell’Occidente, questa stessa estensione geografica si configura come un mondo non facilmente decifrabile per la varietà delle tradizioni culturali e dei linguaggi sottesi. Si dovrà prestare attenzione, quindi, perché l’analisi e le proposte non siano eccessivamente sbilanciate su una visione europeista della realtà. È meglio seguire, pertanto, la strada che consente di verificare il denominatore comune, piuttosto che indugiare per cercare di sottolineare le differenze.
Un primo tema che si staglia all’orizzonte è la problematica della secolarizzazione che conviene tratteggiare nei suoi aspetti più visibili. È passato mezzo secolo da quando usciva il «manifesto» della secolarizzazione moderna, riproposto e modificato sulle idee iniziali di Dietrich Bonhoeffer, da parte del professor Harvey Cox della Chiesa Battista Statunitense con il suo libro La città secolare. Seguiva quasi subito un secondo testo, Dio non è così, del vescovo anglicano di Woolwich, John A.T. Robinson. Queste due opere facevano conoscere al grande pubblico le idee matrici di un movimento che aveva un orizzonte più ampio e radici molto più profonde di quanto ne conosciamo per le influenze dirette in teologia e a livello ecclesiale. Il programma era incentrato sull’enunciazione rimasta tecnica: vivere e costruire il mondo etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. La sfida veniva lanciata, all’epoca, su un terreno alquanto fertile ed era subito accolta con entusiasmo, tanto che oggi, a distanza di anni, è necessario chiedersi con quanto spirito critico fosse stata ricevuta e accompagnata. La Chiesa aveva terminato da poco il suo secondo concilio Vaticano e all’orizzonte già si intravedevano i sintomi di una crisi che avrebbe colto molti credenti; mentre l’Occidente avrebbe vissuto di lì a poco la grande contestazione giovanile del ’68. In una parola, parve a molti di trovare nelle idee della secolarizzazione la chiave di volta per imprimere al mondo la sua spinta autonoma e alla Chiesa la possibilità di scoprire la semplicità delle origini. Non era oro, però, tutto ciò che luccicava.
Etiam si daremus non esse Deum. Veniva riportata alla luce l’affermazione di H. Grotius (1583-1645) ma, a ben vedere, le interpretazioni travalicavano l’intenzione del giusnaturalista olandese. Per il filosofo, infatti, ciò che importava mostrare era il fondamento del diritto naturale, che conservava di per sé tutto il suo valore a tal punto da poter sopravvivere nonostante la divisione tra i cristiani. Progressivamente, però, dalla semplice enunciazione di un principio teorico, e per alcuni aspetti con elementi positivi in quanto puntava a una fede matura e responsabile, la secolarizzazione si trasformò in secolarismo. Questo si infiltrò nelle istituzioni fino a diventare, ai nostri giorni, cultura e comportamento di massa tale che non si è più in grado di percepirne i limiti oggettivi. Come ogni fenomeno, comunque, anche la secolarizzazione non si sottrae all’ambiguità dei volti e alla pluralità delle interpretazioni. Difficile individuare il vero ruolo che D. Bonhoeffer svolse in questo movimento; estremamente più complesso cercare di individuare il senso effettivo del suo manifesto nelle Lettere: «Dobbiamo riconoscere onestamente di dover vivere nel mondo come se non ci fosse alcun Dio, e questo è ciò che realmente riconosciamo, proprio dinanzi a Dio! Dio stesso ci conduce a questa consapevolezza: ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che possono tirare avanti senza di lui. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)! Noi siamo continuamente alla presenza del Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di Dio».
Davanti a movimenti di pensiero che si fondano su concetti così generici e spesso utopici, gli equivoci e gli estremismi non tardano a farsi vivi; come si è detto, la secolarizzazione degenerò in secolarismo con conseguenze negative soprattutto per quanto riguarda una comprensione dell’esistenza personale. Secolarismo, infatti, significa distacco dalla religione cristiana; questa non ha e non può avere alcuna voce quando si parla di vita privata, pubblica o sociale. L’esistenza personale, insomma, si costruisce prescindendo dall’orizzonte religioso che è relegato a un semplice ambito privato senza incidere nella vita delle relazioni interpersonali, sociali e civili. Nell’orizzonte privato, inoltre, la religione ha un suo posto ma ben delimitato; essa, infatti, interviene solo in parte e marginalmente nel giudizio etico e nei comportamenti.
A questo punto, dire che il secolarismo sia un fenomeno religiosamente neutrale equivale a non cogliere le conseguenze manifestatesi visibilmente in questi decenni. In qualsiasi modo si voglia giudicare l’autonomia dell’uomo, essa non potrà mai essere scissa dal suo legame originario con il creatore; tagliare il cordone ombelicale non può equivalere al rifiuto di chi ha generato. L’autonomia della creatura deve fondarsi sull’esperienza della gratuità senza la quale diventa impossibile una comprensione coerente dell’identità personale. Ridurre, infine, tutto il processo della secolarizzazione a una critica al fanatismo religioso o all’intolleranza significa perdere di vista la globalità del movimento e i diversi volti con i quali si è presentato. Passato, dunque, l’entusiasmo che negli anni Sessanta aveva contagiato molti, si deve concludere che il processo di secolarizzazione e il secolarismo hanno identificato troppo frettolosamente Dio come una funzione surrogatoria per la vita. Nell’orizzonte contemporaneo, comunque, in cui una cultura di morte sembra sopraffare la stessa vita, restano ancora da dimostrare le tesi di fondo del secolarismo secondo cui questo mondo è diventato «adulto» e, conseguentemente, non ha più bisogno di Dio.
Uno dei primi dati che emerge come progetto del secolarismo è il tentativo spasmodico di ottenere la piena autonomia. Il nostro contemporaneo è fortemente caratterizzato dalla gelosia per la propria indipendenza e la responsabilità del vivere personale. Dimenticata ogni relazione con la trascendenza, è diventato allergico a ogni pensiero speculativo e si limita al semplice momento storico, all’attimo temporale, illudendosi che è vero solo ciò che è frutto della verifica scientifica. Perso il rapporto con il trascendente e rifiutata ogni contemplazione spirituale, è precipitato in una sorta di empirismo pragmatico che lo porta ad apprezzare i fatti e non le idee. Senza alcuna resistenza cambia rapidamente il suo modo di pensare e di vivere, diventando un soggetto progressivamente più cinetico, sempre pronto cioè a sperimentare; desideroso di essere coinvolto in ogni gioco anche se più grande di lui, specialmente se lo rapisce in quel narcisismo non più neppure velato che lo illude sull’essenza della vita. Insomma, il processo del secolarismo ha generato un’esplosione di rivendicazioni di libertà individuali che tocca la sfera della vita sessuale, delle relazioni interpersonali e familiari, delle attività del tempo libero come di quelle lavorative.
Lo spazio dell’insegnamento e della comunicazione ne è fatalmente coinvolto e l’intero ambito della vita ne viene modificato. Per quanto paradossale possa sembrare, le rivendicazioni sociali sono sempre fatte in nome della giustizia e dell’uguaglianza, ma alla base si riscontra determinante il desiderio di vivere più liberi a livello individuale. Si tollerano e perfino si sopportano molto di più le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, piuttosto che le proibizioni che intaccano la sfera privata. Insomma, si è venuta a creare una situazione completamente nuova in cui si vogliono sostituire gli antichi valori, soprattutto quelli espressi dal cristianesimo. In un orizzonte di questo tipo, in cui l’uomo viene a occupare il posto centrale, baricentro di ogni forma di esistenza, Dio diventa un’ipotesi inutile e un concorrente non solo da evitare, ma da eliminare. Tale svolta si è attuata in maniera relativamente facile, complici spesso una teologia debole e una religiosità fondata più sul sentimento e incapace di mostrare il più vasto orizzonte della fede.
In questo contesto Dio perde la sua centralità. La conseguenza è che l’uomo stesso perde il suo posto. L’«eclissi» del senso della vita riduce l’uomo a non sapersi più collocare, a non trovare più un posto all’interno del creato e della società. In qualche modo cade nella tentazione prometeica: si illude di poter diventare padrone della vita e della morte, perché è lui a decidere quando, come e dove. Una cultura tesa a idolatrare la perfezione del corpo, a rendere selettivo il rapporto interpersonale sulla base della bellezza e della perfezione fisica, finisce con il dimenticare l’essenziale. Si cade così in una sorta di narcisismo costante che impedisce di fondare la vita su valori permanenti e solidi, per bloccarsi a livello dell’effimero. Qui, pertanto, si pone la grande sfida che attende il futuro. Chi vuole la libertà di vivere come se Dio non esistesse lo può fare, ma deve sapere a cosa va incontro. Deve avere coscienza che questa scelta non è premessa di libertà né di autonomia. Limitarsi a disporre della propria vita non potrà mai soddisfare l’esigenza di libertà. Costringere al silenzio il desiderio di Dio che è radicato nell’intimo, non potrà mai far approdare all’autonomia. L’enigma dell’esistenza personale non si risolve rifiutando il mistero, ma scegliendo di immettersi in esso. Questo è il sentiero da percorrere; ogni scorciatoia rischia di farci perdere nei meandri di una boscaglia, da cui è impossibile vedere sia l’uscita sia la meta da raggiungere.
Per quanto a fondo si possa spingere la nostra verifica circa l’attuale situazione di permanente crisi in cui il mondo versa, è necessario ribadire che questa non è primariamente di ordine economico e finanziario. Se così fosse, potremmo guardare con disinvoltura al futuro perché le soluzioni, essendo di natura essenzialmente tecnica, potrebbero essere facilmente rinvenibili. La crisi che stiamo vivendo è, anzitutto, di ordine culturale e, senza troppi distinguo, dovremmo aggiungere antropologica.1 L’uomo è in crisi. Non è più capace di ritrovare se stesso dopo le lusinghe a cui aveva dato retta, soprattutto quando aveva creduto di aver raggiunto l’età adulta e di essere pienamente padrone di sé e indipendente da ogni autorità. In effetti, questo canto delle sirene era allettante. A un uomo sempre più al centro di tutto, sostenuto da un recuperato narcisismo offuscato per decenni, incapace di raggiungere la verità perché privo di ogni fondamento, mancava un ultimo tassello per essere pienamente autonomo: l’allontanamento da Dio.
Un uomo disorientato
Il secolarismo, dunque, ha propugnato la tesi di vivere nel mondo etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Tolto Dio, tuttavia, il nostro contemporaneo ha perso se stesso. Il desiderio della ricerca del volto di Dio, che da sempre contraddistingue l’ansia più profonda del cuore umano, è diventato ogni giorno più flebile e la lontananza da Dio stesso più vistosa. L’unico volto che è rimasto riflesso è il proprio. Poco. Troppo poco per potersi definire adulti, autonomi e indipendenti. Riflettere il proprio volto può aver soddisfatto, appunto, il narcisismo sempre più imperante che caratterizza i nostri tempi,2 ma alla fine si è scoperto che in quei pochi centimetri quadrati la tristezza aveva il sopravvento e il dramma della vita si riproponeva con maggiore intensità. Sì, il dramma della vita, perché di questo si tratta. Da solo, l’uomo muore prima del tempo. Persa la relazionalità con gli altri, termina di essere persona e rimane solo individuo, monade che non ha alcuna possibilità di sopravvivenza, perché incapace di amore che genera, e la solitudine ha il sopravvento. Il cerchio si chiude così, tristemente, ma in maniera inequivocabile.
Se Dio viene relegato in un angolo, il più oscuro e lontano della vita, l’uomo perde se stesso, perché non ha più senso relazionarsi con sé e tantomeno con gli altri. È necessario, pertanto, riportare Dio all’uomo di oggi. Se non lo si vuole proporre per un motivo di natura religiosa, lo si dovrebbe fare almeno per ridare ossigeno a un uomo ansimante, confuso e sempre più depresso. Se il nostro contemporaneo vuole uscire dalla patologia che intacca la sua vita e ritrovare il posto centrale, che gli compete, deve ricercare il volto di Dio, impresso in quello del suo Figlio fatto uomo, Gesù di Nazareth, che ne ha rivelato in maniera definitiva i tratti fondamentali. Sul volto di quell’uomo è impresso il volto di Dio (cfr. Col 1,15). Non si trova altrove; per cercarlo è necessario fissare lo sguardo su di lui. Per certi versi, si ritorna a Nazareth, in quella sinagoga dove egli di sabato andò, come d’abitudine, per leggere la parola dei profeti. Là egli non solo diede voce alla parola antica, ma ne proclamò il compimento nella sua persona. «Gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20). Così l’evangelista esprime in modo plastico la verità sottesa. Probabilmente dovremmo essere capaci di riprendere la stessa espressione se vogliamo compiere la nuova evangelizzazione. Nella sinagoga egli si rivela come l’evangelizzatore che porta la salvezza, per questo è necessario tenere lo sguardo fisso su di lui.
L’Occidente in crisi
Il cristianesimo non è nato in Europa, ma certamente l’Europa nasce con il cristianesimo. Questa semplice affermazione avrebbe bisogno di uno spazio più congruo per poter essere illustrata. A nessuno, comunque, sfugge la verità storica che è impressa in questa tesi. Il cristianesimo rimane legato a quella terra giustamente chiamata «santa», perché ha visto compiersi il punto culminante di ogni fenomeno religioso: l’incarnazione del Figlio di Dio. In lui si compie e completa la rivelazione di Dio all’umanità. A partire da Abramo, padre di quanti attestano la fede nel monoteismo, la storia si è sviluppata in quella terra alla luce della «promessa» e dell’«alleanza» segno di una costante premura da parte di Dio. Come afferma l’apostolo: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge» (Gal 4,4-5). A partire da questo fatto, all’uomo viene dato un nuovo annuncio; è sempre Paolo che lo sintetizza con le parole: «Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna perché tutti voi siete uno in Gesù Cristo» (Gal 3,28). In altre parole, cambia la visione dell’uomo e del mondo. La fede in Gesù Cristo abbatte i confini perché tocca l’uomo nel suo più intimo. Su suo comando, comunque, da quella terra partirono i suoi discepoli, attraversando il mondo per annunciare a tutti la sua morte e risurrezione come germe di salvezza per quanti avrebbero creduto in lui. Questo è il dato storico.
Altrettanto storico, tuttavia, è il fatto che il cristianesimo si è sviluppato e ha radicato la sua forma concettuale in quelle terre e in quel pensiero che oggi conosciamo come parte dell’Europa. Paolo più di altri ha percorso questi territori annunciando il Vangelo. I suoi viaggi ad Atene, Corinto, Tessalonica, la regione della Galazia, Malta, Cipro, Roma, la Spagna attestano la prima presenza del cristianesimo nelle nostre terre. Nei filosofi dell’antica Grecia i primi pensatori cristiani trovarono il supporto necessario per spiegare il mistero della fede e con quelle categorie e linguaggi plasmarono la verità del Vangelo. Inoltre, l’opera geniale di Leone Magno e la sua capacità, nella crisi dell’impero, di far comprendere alle nuove popolazioni cosiddette «barbare» la ricchezza della tradizione romana, farla convivere con la loro cultura, giungendo a una sintesi impensabile fu un’opera di grande rilievo culturale e politico, confrontabile nei secoli successivi con l’azione di Gregorio Magno che inviò ovunque i monaci benedettini come evangelizzatori fino a raggiungere i paesi nordici. La stessa opera fu svolta dai monaci Cirillo e Metodio, che papa Giovanni VIII aveva inviato nell’880 a evangelizzare le terre a oriente; svolsero un’azione culturale incredibile, giungendo perfino a inventare l’alfabeto che ancora oggi viene utilizzato. Se sommiamo tutto questo alla forza trainante della fede vissuta da milioni di pellegrini che, spostandosi da una terra all’altra, creavano i presupposti per lo scambio di culture, di tradizioni e di tecniche diverse, allora si comprende quanto la storia ci consente di conoscere nello scorrere di tanti secoli.
Il cristianesimo ha plasmato l’Europa, infondendo in essa il senso di universalità ereditato dalla cultura grecoromana e trasformato alla luce della fede. Non è un caso che uno degli ultimi poeti dell’impero romano, Rutilio Numaziano, ormai sotto l’influsso incalzante del cristianesimo potesse scrivere: Di tutti i popoli hai fatto una sola patria. Non più il Pantheon, tuttavia, con gli dei delle popolazioni assoggettate a Roma, era segno di pace per i vari popoli. Ciò che ora si veniva costruendo, diventando asse portante e garanzia di convivenza per l’unità dei popoli, era il concetto di uguaglianza posto dal cristianesimo. Noi siamo stati, fino dalle nostre origini, convinti assertori e sostenitori che, indipendentemente dalla cultura e dallo stato sociale, tutti appartengono alla stessa natura umana; hanno un solo Padre, Dio, che ama tutti senza distinzione e un solo salvatore, Gesù Cristo. La città degli uomini, insomma, veniva costruendosi sulla base di ciò che era la città di Dio.
Fondamentale diventava il principio di verità coniugato con quello di libertà, vera caratteristica della fede cristiana. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32) rimarrà nei secoli l’emblema di una originalità propria del cristianesimo che non ha confronti. Queste fondamenta e lo sviluppo nel corso dei secoli, che segnano il dissolversi dell’impero romano e il lento passaggio al medioevo e da qui, nei secoli successivi, all’inizio della modernità, possono essere differentemente interpretati, ma non negati. Ribadire questa verità non ci rende orgogliosi, anche se ne avremmo motivo, ma provoca ad assumere ulteriori responsabilità, soprattutto in un momento di crisi come quello che viviamo.
Ritorniamo, così, ai nostri giorni dove «crisi» sembra uno dei termini tra i più utilizzati del nostro vocabolario quotidiano. Assistiamo a questa condizione spesso inermi o, forse, incapaci di trovare la via maestra per uscirne. La crisi, comunque, non è mai un evento esclusivamente negativo; essa contiene elementi che provocano a esprimere un giudizio di merito su quanto si vive e obbliga a trovare le forme più adeguate per poter andare oltre. Si può pensare, anche positivamente in tempo di crisi, purché l’oggetto del nostro riflettere, e il conseguente impegno, conducano a verificare il reale contributo delle diverse forze in campo alla realizzazione di ulteriore progresso. Da questa prospettiva, si deve ricordare che alla base di ogni civiltà esistono principi che ne condizionano e determinano lo sviluppo, la sopravvivenza o la distruzione. Tre in modo particolare sono comunemente accettati: la cultura, la religione e la legge. È tipico di ogni società riconoscersi in una cultura e negli aspetti che la specificano nel confronto con altre; della cultura fanno parte la lingua, le tradizioni, l’arte nelle sue diverse manifestazioni e tutto ciò che costituisce l’agire e il pensare personale e sociale. La religione, da parte sua, è in grado di soddisfare l’interrogativo fondamentale dell’uomo sul senso della propria vita; ciò significa che viene data risposta al perché dell’amore, del dolore, della sofferenza, della morte, e al dubbio se esista qualcosa dopo la morte... insomma, tutto ciò che è racchiuso in quell’istanza secondo la quale l’uomo non è solo ciò che mangia. In lui c’è qualcosa che lo trascende, un «infinito», che egli stesso sperimenta in ogni atto della sua esistenza personale e che non può reprimere. Infine, c’è la legge, quell’insieme di disposizioni che regolano la vita sociale e consentono di identificarsi in un sistema di pensiero e di comportamenti che si fa garante della giustizia, del bene ...