La mafia uccide d'estate
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La mafia uccide d'estate

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  1. 372 pagine
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La mafia uccide d'estate

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Il 9 maggio 2008 Angelino Alfano fa il suo ingresso a via Arenula in qualità di ministro della Giustizia del nuovo governo Berlusconi. E subito si trova coinvolto nella serie di commemorazioni delle tante persone - magistrati, preti, medici, politici, giornalisti, membri delle forze dell'ordine - cadute durante la loro eroica e implacabile lotta contro la mafia: in maggio Giovanni Falcone; in luglio Paolo Borsellino, Boris Giuliano e Rocco Chinnici; in agosto Ninni Cassarà; a settembre Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pino Puglisi, Mauro De Mauro e Rosario Livatino... Uccisi in anni diversi, ma sempre, curiosamente, nel corso della più lunga e calda stagione del Meridione italiano. La mafia uccide d'estate è l'autobiografia politica di un "antimafioso siciliano berlusconiano" e il racconto, personale e sincero, di un percorso di intensa partecipazione alla vita civile e di costante impegno istituzionale, che culmina nel triennio da Guardasigilli dedicato a fronteggiare tre grandi emergenze: la mafia, la lentezza dei processi e il sovraffollamento delle carceri. In un'analisi lucida e obiettiva, Alfano spiega come, attraverso gli strumenti della giustizia, anche la politica ha contribuito a combattere la criminalità organizzata, e ricorda quali azioni il suo ministero ha intrapreso per rendere efficiente il nostro sistema giudiziario e per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, cercando di non dimenticare mai che ogni detenuto è, innanzitutto, una persona. E, in particolare, si sofferma - senza nascondere la fatica, le amarezze e le accanite resistenze incontrate lungo il cammino - sul tentativo di attuare una riforma costituzionale della giustizia volta a modernizzarne il funzionamento e a favorire un armistizio tra politica e magistratura (il cosiddetto Lodo Alfano). Un impegno, quello di Alfano, a tutto tondo, che non si esaurisce nel pur complesso scenario italiano, ma ha un meno noto e non per questo meno significativo sviluppo nello sforzo di "contribuire alla nascita dell'Europa dei diritti e dei doveri comuni". È proprio nel quadro di una riflessione sulla giustizia al di fuori del nostro Paese e sull'opera dei Guardasigilli di tutti gli Stati del mondo per la creazione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, che assume un ruolo emblematico in queste pagine il resoconto appassionato del suo personale contributo al processo di consolidamento del sistema della giustizia internazionale, a partire da due presupposti fondamentali: il sentimento etico che rifiuta l'ingiustizia in ogni sua forma e la crescente consapevolezza della necessità di considerare alcuni crimini, particolarmente ripugnanti, alla stregua di violazioni perseguibili su scala universale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021480

Parte seconda

LA GRANDE RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

VII

Grandi riforme, grandi resistenze

Il Lodo Alfano: storia di un armistizio mai siglato
Dopo l’approvazione del cosiddetto «Lodo Alfano» Giovanni Floris a «Ballarò» si meravigliò del fatto che continuassi a chiamare tale provvedimento «Legge per la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato». In effetti mi faceva una certa impressione chiamare una legge con il mio nome e, in ogni caso, sembrava che parlassi di me in terza persona come Giulio Cesare nel De bello gallico.
Francamente mi sembrava troppo.
«Guardi che comunque il suo cognome resterà legato a questa legge e, se lei non farà molto altro, questa legislatura e questo suo incarico di governo si abbineranno a essa, per quanto la riguarda.» Dopo tre anni posso dire di aver fatto e contribuito a fare tanto. Ma il giornalista tutti i torti non aveva se mentre scrivo queste pagine, cercando su Google «Lodo Alfano», trovo più di settecentomila risultati in meno di un secondo e la lista degli esiti è capeggiata da Wikipedia, cioè dalla più importante enciclopedia della Rete (fatta dagli utenti della Rete), di cui il «Lodo Alfano» è divenuto una voce autonoma. In realtà quella legge un Lodo non fu mai, e piuttosto si capovolse nel suo contrario; una sorta di nemesi. Il Lodo, quello vero, è una decisione emessa da arbitri imparziali per risolvere un conflitto tra le parti evitando che queste litighino in tribunale. Le sue origini sono nobili, la semantica ci riporta al Medioevo, le sue prime applicazioni ai signori feudali. A questo istituto il codice di procedura civile italiano dedica il Titolo VIII, denominato «Sull’arbitrato», del suo libro (il IV) sui procedimenti speciali. Anche De Gasperi ne propose uno nell’immediato dopoguerra, e al Lodo De Gasperi si ispirò Pier Paolo Pasolini nel Sogno di una cosa, un romanzo concepito nel 1949 e pubblicato nel 1962. Era, quel Lodo del 1946, un tentativo per mettere pace tra latifondisti e contadini risarcendo i secondi dei danni di guerra e imponendo ai primi di assumere manodopera disoccupata. La lotta di classe passò anche per quel Lodo e i contadini si ribellarono contro i latifondisti per ottenerne l’effettiva attuazione. Accadde in Friuli, a Casarsa, e vi partecipò anche Pasolini.
Il primo a pensare di mettere pace tra politica e giustizia fu Antonio Maccanico che, benché senatore della Margherita, durante la XIV legislatura (iniziata nel 2001) in cui tale partito era all’opposizione e il governo era presieduto da Silvio Berlusconi, propose una sospensione temporale molto breve (sei mesi) per i processi al presidente del Consiglio in coincidenza con la presidenza italiana del semestre europeo. Era ancora vivo il ricordo di quel 1994, nel corso del quale fu inviata un’informazione di garanzia al presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi anche allora) impegnato a presiedere, a Napoli, una conferenza internazionale sulla criminalità organizzata. Da quell’avviso di garanzia scaturì, in sede politica, la caduta del governo ma, successivamente, in sede giudiziaria, la vicenda si concluse con un nulla di fatto. Nel frattempo la sinistra, nel 1996, era andata al governo. Senza quell’avviso di garanzia le cose si sarebbero svolte in modo diverso e ciò si può dire senza possedere la sfera di cristallo.
Bisogna ammettere che Maccanico aveva il profilo, lo standing, direbbero i modernisti della lingua, del mediatore onesto e imparziale. Imparziale per come lo si può essere nell’Italia di oggi in cui le parti divengono fazioni, gli avversari si tramutano in nemici, la controversia dialettica in rissa, secondo un processo di scivolamento verso l’eccesso che non mostra alcun indizio di rallentamento. Piuttosto, gli otto anni trascorsi da quello spiraglio aperto da Maccanico hanno fatto ulteriormente precipitare verso l’eccesso il dibattito (rectius, la contesa) politico italiano. Ma il lettore consideri questa pagina come una lunga parentesi, e io torno immediatamente al punto: Antonio Maccanico aprì un varco, e ad aprirlo fu un ex segretario del Quirinale, giurista di pregio, uomo già vanamente incaricato, nel 1996, di compiere un tentativo di non far finire malamente la prima legislatura della Seconda Repubblica, avviatasi con le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994. Insomma, per l’Italia di oggi più di quanto potesse chiedersi: senatore di una parte, ma sui generis.
Il centrodestra sosteneva, con il capogruppo di Forza Italia, Renato Schifani, che un buon principio non può avere una scadenza semestrale, ma che la sospensione dei processi dovesse valere per l’intero mandato. Condivisi, da semplice parlamentare, questa impostazione. Maccanico disconobbe il proprio impegno e la legge, che giornalisticamente era stata già definita «Lodo Maccanico», prese il nome di Schifani. Rimase Lodo, ma Lodo non fu. Anzi, fu il suo contrario: durissima battaglia parlamentare, mobilitazioni di piazza; allora come oggi, sotto l’incontestata e incontestabile bandiera dell’uguaglianza dei cittadini senza distinzione alcuna (articolo 3 della Costituzione). Quella legge fu approvata dal Parlamento nel giugno 2003, impugnata dai giudici di Milano e rapidamente bocciata dalla Corte costituzionale nel gennaio 2004. Punto e daccapo.
Diventato ministro, in tanti mi suggerirono di tornare all’immunità parlamentare del 1948 e gli stessi, tutt’oggi, lo suggeriscono, a maggior ragione visti gli esiti della «vicenda Lodo». Fui contrario allora e sono contrario ancora adesso. Non perché mi sono estranee le ragioni dei sostenitori, che anzi proverò a specificare, dal momento che hanno fondamenta solide. Ma perché le cose giuste devono essere fatte nel momento giusto, e una cosa giusta fatta nel momento sbagliato diviene ingiusta, in quanto il contenuto concreto della proposta sarà travolto e sopraffatto proprio da quell’insieme di circostanze che rendono sbagliato il momento. Per l’immunità vale esattamente tutto ciò. Non è il momento. È questa la realtà. E un governante che non fa i conti con la realtà non è un buon governante, a maggior ragione quando la realtà si oppone esattamente non alle ragioni altrui, ma a quelle proprie del governante, cioè di chi è chiamato a decidere. Che oggi non sia il momento non significa che non lo sarà mai né che il momento stesso sia lontanissimo, poiché in politica e nella società in generale, e nel nostro paese in particolare, le condizioni e con esse le opinioni sono mutevoli e, sovente, non c’è neanche da portare troppa pazienza.
Nel furore del contrasto in corso, nel calore di questa controversia i cittadini accoglierebbero un intervento generalizzato sull’immunità – cioè un ripristino della norma del Costituente – come un inaccettabile privilegio della classe politica. E ciò anche da parte di tanti cittadini che poca fiducia hanno nella magistratura nonché di tanti nostri elettori. Sarebbe considerata la strada sbagliata per perseguire un obiettivo giusto, e cioè assicurare che il governo eletto possa governare e rendere effettivo un equilibrio tra i poteri.
E questo nonostante le buone ragioni di chi dice: «Ritorno alla Costituzione del 1948 qui e ora»; non cito neanche gli altri paesi europei e l’Unione europea, che un’immunità si è data per i propri parlamentari. Sarebbe un modo per trarre dal diritto comparato o da una sovranità crescente e superiore (quella comunitaria europea) la fonte per affermare in Italia la bontà dei temi a sostegno dell’immunità che, viceversa, proprio con argomenti italiani potrebbero essere affermati (quelli a sostegno dell’immunità).
Val la pena ricordare la simmetria su cui il Costituente costruì la tripartizione (quando parlo di tripartizione di poteri mi riferisco alla loro configurazione classica, laddove invece in Italia il rapporto tende a essere tra i poteri legislativo/esecutivo e ordine giudiziario) dei poteri chiamati a «parlarsi» e a interagire tra loro, ma al tempo stesso dotati, tutti i poteri, di argini alti per evitare che uno potesse interferire e condizionare l’azione dell’altro. Il meccanismo si reggeva sui grandi bastioni dell’originario articolo 68 della Costituzione (la prima parte del secondo comma stabiliva che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun altro membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale») e dell’articolo 101, che specifica la soggezione dei giudici «soltanto alla legge», con la successiva specificazione dell’articolo 104, che al primo comma ribadisce che «la magistratura costituisce un organo autonomo e indipendente da ogni altro potere», con ciò dando luogo, in sede costituzionale, alla distinzione tra i poteri legislativo ed esecutivo da un lato e l’ordine giudiziario dall’altro. Dunque: completa autonomia e indipendenza e soggezione soltanto alla legge (cioè nient’altro che alla legge) sul confine della magistratura e della sua azione. Richiesta di autorizzazione alla Camera di appartenenza per avviare un procedimento penale nei confronti di un parlamentare, e ciò per salvaguardare il Parlamento e il singolo suo componente da azioni della magistratura capaci di interferire nella libera attività dei soggetti e delle istituzioni rappresentative della sovranità popolare. Questo l’equilibrio voluto dal Costituente.
Nei decenni di applicazione della Costituzione l’autonomia della magistratura fu salvaguardata, gli scandali politici non mancarono, carriere politiche folgoranti furono troncate, tutto secondo la fisiologia di una democrazia giovane che, cammin facendo dal 1948 in poi, rafforzò le proprie istituzioni e vinse sfide importanti (prima fra tutte quella contro il terrorismo). Nella fisiologia, perché mai, con i due argini costituenti ancora solidi, la normale dialettica tra i poteri divenne conflitto permanente. Mai divenne motivo di uno scontro sociale. Purtroppo dello strumento dell’immunità, dell’autorizzazione a procedere, il Parlamento abusò e il popolo reagì. La classe dirigente di allora, la Democrazia cristiana in primis, credette di salvare se stessa cancellando l’immunità quasi a cancellare i propri peccati. Accadeva nel 1993.
L’anno successivo il popolo disorientato non manifestò particolare gratitudine e abbandonò la Dc, divenuta nel frattempo Partito popolare italiano (Ppi), che concluse in tal modo la propria esperienza. In quegli ultimi (quasi) vent’anni senza immunità, praticamente tutti i presidenti del Consiglio sono stati posti sotto inchiesta. Qualcuno, benché divenuto icona laica del paese, è ancor oggi sentito dai magistrati per episodi tuttora da chiarire avvenuti negli anni del suo governo (Carlo Azeglio Ciampi sulle revoche del 41 bis dai pm di Palermo), alcuni sono stati prosciolti durante le indagini preliminari (Romano Prodi e Massimo D’Alema), altri processati e assolti, ma costretti a chiudere in ragione delle indagini (Giulio Andreotti), altri sono stati condannati e hanno scelto di riparare all’estero (morendo lì) non riconoscendo legittimità ai tribunali del paese in cui erano stati primo ministro (Bettino Craxi), altri sono morti durante le indagini (Giovanni Goria) e nessuno può escludere un nesso tra l’indagine e la malattia. Romano Prodi perse il governo per l’arresto della moglie del ministro della Giustizia.
Berlusconi, nonostante tutto, è ancora in campo a denunciare l’aggressione giudiziaria subita e lo squilibrio dei poteri tra una magistratura fortemente politicizzata in alcune sue frange estreme (davvero distanti dalla stragrande maggioranza dei magistrati) e un Parlamento nonché un capo del governo privi di un’effettiva protezione dalle ingerenze della magistratura inquirente. Milioni di cittadini lo hanno ininterrottamente votato dalle politiche del 1994 alle amministrative del 2011, e consegnandogli le chiavi di palazzo Chigi in tre delle cinque gare elettorali disputate gli hanno confermato la loro fiducia (dalla XII alla XVI legislatura repubblicana tuttora in corso).
Di queste mie opinioni, convinzioni direi, ero portatore anche quando, divenendo ministro, si pose la questione di una legge che assicurasse la governabilità e il diritto al pieno dispiegarsi della volontà popolare senza assicurare impunità. E proprio per tutte le ragioni suesposte non condivisi l’opinione di chi preferiva un ritorno all’articolo 68 della Costituzione del 1948 o a sue varianti un po’ più tiepide. Ribadisco, pur riconoscendo la bontà e talvolta il pregio delle argomentazioni a sostegno dell’immunità parlamentare. E non solo perché il momento non mi sembrava adatto, ma anche perché non mi sembrava giusto impegnare il Parlamento in una laboriosissima discussione sull’immunità di tutti e mille i parlamentari proprio mentre la nuova maggioranza e il governo (nei primi cento giorni e molto di più), vivevano una straordinaria luna di miele con il paese. Sarebbe stato un grave errore politico che avrebbe potuto pregiudicare l’intera legislatura. Proprio così, la reintroduzione dell’articolo 68 avrebbe necessitato la «doppia lettura» prevista dall’articolo 138 della Costituzione per le modifiche della Carta, e dunque almeno un anno e mezzo per giungere, infine, a un referendum popolare senza quorum. Si sarebbe trasformato in un lunghissimo dibattito sulla casta e sui suoi privilegi e il neonato governo Berlusconi si sarebbe trovato sulla graticola a difendere, per diciotto mesi in Parlamento e di fronte all’opinione pubblica, un argomento tutt’oggi degno di grandi approfondimenti e analisi ma la cui persistente impopolarità sarebbe sciocco non cogliere.
Ancor oggi in tanti (sia di destra sia di sinistra) in Parlamento e anche per strada (soprattutto addetti ai lavori) mi chiedono, di fronte all’esasperarsi del conflitto, «Ma perché non avete subito reintrodotto l’immunità? Dovevate farlo non appena insediati». Confesso che la domanda mi produce, al contempo, sorriso e amarezza. Il sorriso nasce dalla considerazione che, in materia di giustizia, si verifica lo stesso processo di immedesimazione che porta tutti gli italiani ad avere in mente la formazione più idonea per vincere i Mondiali, ovviamente più e meglio dell’allenatore della Nazionale. E ciò si verifica ogni quattro anni.
In materia di giustizia sono innumerevoli gli interlocutori in possesso di una ricetta vincente per smaltire l’arretrato nel civile, garantire la certezza della pena, gestire o eliminare il sovraffollamento nelle carceri, digitalizzare i servizi, appianare i conflitti tra politica e magistratura. E ciò si verifica non ogni quattro anni, ma ogni giorno. L’amarezza, invece, deriva dalla constatazione di una frequente non comprensione della difficoltà nella quale deve muoversi nel nostro paese chiunque si trovi a gestire il ministero della Giustizia. E non mi sento di dire «oggi», cioè chiunque si trovi «oggi» in via Arenula. No. Anche negli ultimi vent’anni è stato così, e chi avesse dubbi potrebbe chiedere qualche parere ad Alfredo Biondi o a Giovanni Maria Flick, a Filippo Mancuso o a Piero Fassino, a Roberto Castelli o a Clemente Mastella. Senza distinzione di colore politico. La «pace» con la magistratura è parzialmente garantita solamente assicurando una volontà di non toccare alcunché sul piano delle possibili riforme, e mettendo a disposizione tuttavia «più mezzi e più risorse» come chiede l’Anm.
Immaginatevi la vita con un governo come il nostro che sta intervenendo su tutti i codici per innovare e ammodernare il sistema in un tempo di crisi economica mondiale (della serie: «Macché più mezzi e risorse, qui c’è da stringere la cinghia»).
Questo ho risposto, con sorriso amaro, a chi mi ha chiesto, e ancora chiede, perché non abbiamo immediatamente provato a reintrodurre l’immunità parlamentare. Da qui la decisione di recuperare la filosofia della legge del 2003 (il Lodo Schifani), bocciata dalla Corte costituzionale, per sanarne i vizi e mantenerne lo spirito di fondo, che continuo a sostenere e difendere. Prima di accennare ai contenuti tecnici, è proprio lo spirito di fondo che occorre sottolineare per potere dire, sulla base delle risultanze, se ha giovato al paese l’ulteriore bocciatura che la Corte ha inflitto al «mio» Lodo, oppure se a conti fatti non sarebbe stato meglio averlo ancora in vigore. È uno di quei casi in cui, contrariamente al detto, la storia potrebbe farsi con i «se» e con i «ma». Per noi si trattava di avviare bene la legislatura, di tutelare la sovranità popolare che aveva espresso il nostro governo, non andare allo scontro frontale con la magistratura poiché il Lodo non avrebbe avuto alcun impatto sul funzionamento del sistema giustizia.
Ebbi il primo assaggio dei rischi connessi alla legislazione penale quando fu presentato un emendamento che chiedeva ai magistrati di dare priorità ai reati recenti e di maggiore allarme sociale e di lasciare in coda gli altri. L’emendamento fu subito ribattezzato «blocca-processi» per l’interpretazione dell’opposizione che vi riscontrava la volontà del governo di fermare i processi del presidente del Consiglio.
A dimostrazione del fatto che il mio intendimento non era polemico, ma costruttivo, lasciai decadere quell’emendamento ed imboccai la strada che mi portò al «Lodo» (ormai lo chiamo così per semplificare).
L’idea era, senza troppi giri di parole, quella di stabilire una tregua tra politica e magistratura. (La soluzione ci sembrò peraltro di una certa eleganza.)
Il presidente del Consiglio, insieme al presidente della Repubblica, del Senato e della Camera, avrebbe goduto della sospensione dei processi per la durata del proprio incarico, solo per una volta, poiché prevedemmo la sua non reiterabilità, e durante il periodo di sospensione si sarebbero bloccati i termini di prescrizione, sicché la pretesa punitiva dello Stato (e specificamente dei pm di Milano) sarebbe rimasta del tutto impregiudicata. Capimmo subito che era pura illusione pensare che la nostra proposta sarebbe stata accolta per quel che era: un tentativo di restituire normalità alla nostra democrazia, consentendo a chi ha vinto di poter governare e a chi ha perso di poter preparare la rivincita senza contare sulla variabile giudiziaria come elemento essenziale della rivincita stessa. Pensammo, ma fu appunto l’illusione di un istante, che anche la sinistra avesse qualche utilità a ricostruire la propria fisionomia ricollocando la questione giustizia nel suo spazio naturale: una vicenda importante per l’Italia ma non la vicenda nazionale da cui far dipendere il destino di governo del più grande partito della sinistra e dell’intera opposizione.
La nostra illusione si fondava sulla recente nascita del Partito democratico e sull’esordio in Parlamento del suo leader Walter Veltroni. Il Pd aveva l’ambizione (che il tempo ha trasformato in velleità) di rappresentare una sinistra europea, socialdemocratica, in grado di accogliere una significativa componente cattolica costituita dai gruppi dirigenti provenienti dalla sinistra dell’ex Dc.
L’atto di nascita del Pd fu segnato da due scelte moderne e di grande portata innovatrice come le primarie per l’elezione del leader e la cosiddetta «vocazione maggioritaria». La prima scelta produsse la leadership di Walter Veltroni, che volle farsi interprete della seconda. In sostanza Veltroni tentò di colmare la debolezza strutturale del governo Prodi: l’evidente eterogeneità della coalizione che si esprimeva nei continui contrasti riguardanti scelte difficili e impegnative legate soprattutto alle politiche estere ed economica. Ciò non sorprende in quanto la sinistra raccoglieva forze politiche che avevano una differente «visione» delle cose dell’Italia e del mondo. Sicché, utilizzando appieno le potenzialità della legge elettorale (che pone soglie di sbarramento per i partiti troppo piccoli e offre un premio di maggioranza alla coalizione vincente), Veltroni puntò sulla compattezza come grande segnale di rottura rispetto al caravanserraglio che aveva sostenuto il governo Prodi.
Berlusconi vinse le elezioni, ma il Pd, che volle come unico alleato Di Pietro, ottenne un ragguardevole 33 per cento che gli consentì di diventare una forza tra le più grandi della sinistra europea. L’esordio in Parlamento dello stesso Veltroni come leader dell’opposizione ci lasciò ben sperare. Ma forse fu proprio la gara che in Parlamento e nel paese si aprì tra il Pd e l’IdV a condizionare la svolta cui le prime scelte dei Democratici sembravano preludere.
Così tutto restò come prima. Il Pd non manifestò alcuna apertura nei confronti della nostra proposta di armistizio tra politica e magistratura e del conflitto rimase prigioniero anch’esso, come prigionieri ne erano stati il Partito comunista (Pci), il Partito democratico della sinistra (Pds) e i Democratici di sinistra (Ds). Prigionieri, ritengo, inconsapevoli, perché convinti di esserne solamente beneficiari. Da questa prigionia ci eravamo illusi che il Lodo potesse liberare anche il Pd, che a quel punto avrebbe potuto e dovuto aggiornare programmi e strategie non potendo più contare sulle inchieste ai danni di Silvio Berlusconi per svolgere la sua azione politica. Avrebbe dovuto e potuto contare solo sulla forza delle proprie idee e, dunque, avrebbe dovuto aggiornarle, o meglio elaborarle. Com’è ovvio, il nostro non era un ragionamento filantropico, ma era una valutazione ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La mafia uccide d'estate
  3. Premessa breve
  4. Il giorno prima
  5. Parte prima LA VERA LOTTA ALLA MAFIA
  6. Parte seconda LA GRANDE RIFORMA DELLA GIUSTIZIA
  7. Parte terza PER CONCLUDERE
  8. Epilogo
  9. A chi sarà ministro della Giustizia nel 2033
  10. Copyright