Una bellissima ragazza
eBook - ePub

Una bellissima ragazza

La mia vita

,
  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Una bellissima ragazza

La mia vita

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

"La Vanoni è una donna che ha tolto il sonno a molti italiani" ha detto qualche tempo fa Gianni Minoli. Con quella voce "ambrata", quel corpo "da negra", quella straordinaria nonchalance con cui è passata in mezzo alle tempeste dell'esistenza quotidiana, è stata oggetto del desiderio di più generazioni di uomini. Ma è anche una donna apprezzata dalle donne. La sua libertà nel seguire ciò che le comanda il cuore e nel dire quello che le suggerisce la mente ha fatto di lei un simbolo di emancipazione femminile, sempre espressa con naturale eleganza. Un'artista che domina ancora il palco regalando emozioni come all'inizio della sua carriera. Una personalità che riesce ancora a far parlare di sé, suscitando ammirazione o polemiche, mai indifferenza. In questa autobiografia, scritta a quattro mani e una voce, la vita della Vanoni appare esattamente per quel che è: un racconto stupefacente, autoironico, sincero, senza un attimo di respiro. Una vita invidiabile, all'altezza dello smisurato talento di Ornella. Una famiglia benestante. L'esordio-rivelazione a teatro con L'idiota di Achard. La sua storia d'amore con il gigante Giorgio Strehler, e poi tanti altri amori, alcuni speciali, altri impossibili, altri ancora in "paso doble", come dice lei. Tanto teatro con il meglio della prosa italiana, da Gigi Proietti a Giorgio Albertazzi. Tantissima musica, partendo dalle canzoni della mala fino alla collaborazione con i più grandi della canzone italiana, Paoli, Tenco e Sergio Bardotti, e di quella brasiliana, da Caetano Veloso a Gilberto Gil. Tournée trionfali e dischi - su tutti "Meu Brasil" con Toquinho e Vinícius de Moraes, e "Ornella &..." con i più grandi jazzisti americani - che resteranno per sempre. L'amicizia/ competizione con Mina e con Milva. Dopo aver vissuto ogni tipo di esperienza, fra cui la depressione e anche la conversione alla Chiesa Evangelica, oggi è una donna che ama se stessa e gli altri: "Sono una signora di settantasette anni che non ha mai avuto così tanta voglia di fare felice la gente e se stessa con il suo canto".

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Una bellissima ragazza di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Media & Performing Arts e Music Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021183

I miei indispensabili amici

Ornella è circondata di amici, che sente tutti i giorni, a tutte le ore. “Amici, non della Vanoni ma di Ornella”, dice lei, Ornella. La chiamano, si chiamano, per qualunque motivo. Si scambiano pesi e leggerezze. Una volta farfalle spiritose, un’altra volta ergastolani con la palla al piede. Si spartiscono quello che capita, gioie e dolori, affanni ed euforie. Ripenso a quello che Paoli dice di lei. “È come una bambina spaventata che ha sempre bisogno di conferme.” Murata viva in una maschera che la rappresenta all’opposto forte e invincibile. L’esuberanza dei tori nell’arena. Fumano dalle narici con la morte nel cuore. Un bluff struggente. Partono a passo di carica, a incornare qualunque cosa, tornano a casa che sono carne da macello. Sanno, eccome, d’avere il nome in locandina. E che gli spettatori hanno pagato il biglietto. Ornella sta bene con gli amici. Al di là del figlio e degli amati nipoti, sono loro la sua grande famiglia allargata.
Quelli che non ci sono più
L’aspetto nel suo attico milanese e mi lascio incuriosire dal nome dell’editore in copertina, Club Tenco, e dal titolo Se tutti fossero uguali a te. È una raccolta di testimonianze in memoria di Sergio Bardotti, indimenticabile e dimenticato autore. Leggo l’introduzione di Ornella Vanoni. Una conferma. Ornella dà il meglio di sé quando si tratta dei suoi amici.
Caro Bardottino,
che bell’incontro il nostro. Risate, pianti, bevute, mangiate, progetti, sogni e quante lotte perché si avverassero, e spesso ci siamo riusciti. Sì, abbiamo volato, noi due. Spesso tenendoci per mano. Era un tempo diverso, c’era più tempo, più calma, eravamo sempre un gruppo, per scrivere, per vivere, per ridere tanto. L’ultima volta che siamo stati in sala a registrare il pezzo di Cammariere L’azzurro immenso, scritto da te, hai pianto con i singhiozzi. La mia voce si spezzava su quel pezzo così intenso e ti ho colpito il cuore. Era qualcosa di molto profondo, una lacerazione, forse una resa, anche se tu non volevi cedere. Mi manchi. Per sempre.
Ci sono morti più strazianti di altre. Quando la persona cara muore lontana da te e tu non hai potuto stringerle la mano. Bardotti l’avevo sentito prima di partire per le Maldive. Stava proprio male. Usciva dall’ospedale e mi diceva “sto meglio”, ma con una voce straziante che diceva l’opposto. Tossiva in continuazione. Se non fossi stata alle Maldive sarebbe stato un dolore straziante e invece ho ricevuto un messaggino: “Mi spiace per te, Bardotti non c’è più”. Ho sentito una pugnalata al cuore e subito dopo una mancanza forte, che era già qualcosa oltre il dolore. E questo lo devo al mare, alla sua calma. Se fossi stata in mezzo alla gente a sentire le angosce sarebbe stato ancora più tremendo. È stata una grande perdita, anche se in fondo era già perduto, non era più il Bardotti di una volta. Ero andata a ricercarlo ma non c’era più. Grande vuoto. Bardotti oggi forse non sarebbe più giusto. Troppo colto, troppo curioso. Anche se poi ha scritto canzoni popolari come Piazza grande di Lucio Dalla. Hanno vissuto insieme i due, Dalla veniva chiamato “il ragno” e Bardotti “Bimbotti”. Era un po’ infantile e beveva come un pazzo. Una volta gli ho fatto un regalo: “Andiamo a San Francisco dove canto e poi a New York. Ti pago io il biglietto”. Andiamo a New York alla festa di un amico che aveva imparato l’italiano ascoltando le mie canzoni. Quello gli fa schietto: “Bardotti, un uomo come lei che viene per la prima volta a New York...” e lui, fulminante: “Sì, perché prima ero filocubano”. Era molto simpatico il mio Bimbotti. Lui e sua moglie Isa sono stati per me un riferimento fortissimo.
Bruno Lauzi se n’è andato con una dignità incredibile. Ha lottato fino alla fine, ha lavorato sempre. Ha scritto delle bellissime canzoni e ne ha cantate di bellissime di altri come Battisti e Conte. Ha tradotto in maniera straordinaria moltissime canzoni, tra le quali L’appuntamento e Dettagli. Grande amico di Gino e suo grande estimatore.
Mi manca tanto Pier Paolo Pasolini. Non posso dire che fosse proprio un amico. Non è necessario frequentarsi spesso per esserlo. Mi manca tanto leggere i suoi scritti. Mi mancano proprio le sue visioni, sempre così precise, così lucide. Lui era davvero un preveggente. Mi manca la sua personalità, la sua forza, il suo coraggio. Gli devo un complimento molto galante. Una volta con Laura Betti siamo andate a mangiare in via dell’Oca a Roma dove ci aspettava Pier Paolo. Io indossavo un vestitino di maglia di seta di Pucci, tinta unita verde chiaro. Non era corto, noi latine non siamo donne da minigonna. Mi sono girata per un attimo e lui ha detto: “Ecco l’unico culo femminile per il quale avverto un brivido”. Uomini come lui e Hugo Pratt lasciano vuoti incolmabili. Quando mi capita di pensare che ho potuto incontrare nella mia vita gente così, mi considero una donna molto fortunata e anche un po’ viziata. Difficile poi rassegnarsi al resto.
Anche con Leonard Cohen, come con Gino Paoli, siamo anagraficamente quasi gemelli. Era l’ispiratore di Fabrizio De André, altro mio amico perduto. Fabrizio quando fu rilasciato, dopo il sequestro, venne in campagna da me e da Oliviero Prunas, una casa in Lucchesia. Venne e mi disse: “Ti traduco una canzone straordinaria, La volpe azzurra di Cohen”. La cantai. Era stupenda. Non si possono ricantare tutte le canzoni di De André, alcune gli appartengono troppo, anche se io mi sono cimentata quando Dori Ghezzi mi ha invitata a cantare durante il festival di Berchidda all’Agnata, la tenuta che Dori e Fabrizio hanno creato. Uno dei concerti più emozionanti della mia vita. Alle sei del pomeriggio, davanti a un prato e tantissime persone sedute, io che cantavo le canzoni di Faber, Hotel Supramonte e Il gorilla.
Ogni tanto ci vedevamo con Fabrizio, non spesso. Cucinava molto bene. Era un mago nel preparare il court bouillon, il brodo per lessare il pesce. Qualche giorno fa ho chiesto alla mia nipotina Camilla di undici anni: “Ma qual è il cantante che ti piace di più in questo momento?” e lei, senza pensarci: “Fabrizio De André”. Mi ha colpito molto. “E cosa ti piace di lui?” “La voce.” In mezzo a tutte queste voci stridule e strane, questa sua voce che infonde calore è una rarità senza tempo. Una straordinaria voce affettiva, mai convenzionale o stucchevole. Mia nipote “sente” la musica, suona il violino ed è la sorella del gigante dal quale adoro farmi abbracciare, quando ne ha voglia.
De André è il più grande di tutti, se vogliamo parlare di poetica, spessore e voce. Poi ce ne sono di grandissimi. Penso a un certo Lucio Dalla, penso a Ivano Fossati, al Paoli che ha scritto Il cielo in una stanza o Sapore di sale, che non sono più canzonette ma capolavori. De André raccontava altre storie, l’umanità dei diseredati, dei reietti, cantava di amori perduti, era un temperamento inguaribilmente malinconico. Anche lui come me, era terrorizzato dal palco. Per convincerlo a salire su quello che per lui era un patibolo ci hanno messo anni. Hanno dovuto tirarlo su quasi con la forza. Mi diceva spesso: “Che mestiere scemo il nostro, che mestiere da cretini, mettersi sul palco, mostrarsi come animali da esibizione, farsi vedere da tutti, farsi capire da tutti. Che mestiere orrendo!”. Si lamentava, brontolava, ma gli piaceva questo mestiere. Come piace a me. Ancora, nonostante tutto, per sempre.
E poi Luigi Tenco. Tutti, incluso Gino Paoli, dicono che fosse molto allegro e spiritoso. Forse era così da ragazzo, quando lui e Gino stavano a Genova. Quando l’ho conosciuto io, a Milano, agli inizi della sua storia di cantautore, di allegro ho visto ben poco. Ma quale allegro! Eravamo entrambi di una timidezza patologica. E malinconici, da copione esistenziale dell’epoca. Luigi era tutto amore e morte. La sera di Sanremo lo vedo appoggiato a una parete, gli vado incontro e gli dico: “Luigi, ricordiamoci quando cantiamo di tenere gli occhi aperti”, perché la sua tendenza, la tendenza di tutti noi timidi, era di cantare con gli occhi chiusi. Non eravamo fatti per stare in scena, io e Luigi. Incoraggiavo lui per incoraggiare me stessa. “Se li teniamo chiusi, non arriva niente di noi, oltre lo schermo. Dài, fammi vedere come apri gli occhi.” Lui spalanca gli occhi e vedo due pupille enormi, dilatate. Sembrava un gufo. Era imbottito di whisky e di Pronox, un sonnifero, combinazione micidiale. Cosa faccio? Vado da quelli dell’RCA, c’era anche Dalida con loro, e li avverto: “State attenti a Luigi”. Avevo capito che stava malissimo. Feci il mio dovere, e comunque io, poi, dovevo fare i conti con tutti i miei casini nella testa, lo stress di Sanremo ma non solo. All’epoca mi emozionavo ancora molto. Non mi piacciono le gare. Se avessi voluto fare le gare, mi sarei dedicata allo sport, dove la competizione è quasi sempre onesta e sai perché hai vinto o perso. Hanno ricamato morbosamente sulla morte di Tenco, pettegoli e sciacalli, ma la verità è solo una. Forse per Luigi la realtà era diventata una fatica bestiale. In questi casi, uno ha tutto il diritto di chiamarsi fuori. Lo avevano costretto a cambiare il testo della canzone e questo già lo aveva mortificato. Sembra poi che lui e Dalida si siano accusati vicendevolmente dell’interpretazione. Certo, lui aveva cantato malissimo. In realtà, non era lì. Tenco aveva una voce stupenda, profonda, alla Nat King Cole, suonava molto bene il clarinetto, per questo le sue canzoni sono perfette per il jazz.
Adesso ti parlo di Gaberscik. Sicuramente ho conosciuto prima Ombretta Colli di Giorgio. A un certo punto, abbiamo cominciato a frequentarci molto. Lei, Ombretta, bellissima, Gaber spiritoso, intelligente, un uomo anche dolce. Me lo ricordo Gaber, all’epoca in cui, con Enzo Jannacci, facevano I due corsari, antesignani dei Blues Brothers, e cantavano: “Signora, forse non hai capito...”. Erano molto divertenti, poi si sono separati. Peccato, erano la coppia più stralunata della terra. Jannacci è sempre stato matto. Quando ci frequentavamo era sempre in giro con la sua Vespa, lui alla guida, dietro il contrabbassista, si chiamava Pallino, e il contrabbasso, quello vero, tra loro due. Non ho mai capito come facessero a stare su tutti insieme. Giorgio prendeva affettuosamente in giro Enzo. Diceva sempre: “Non ho ancora capito se sei un genio o un pirla”. Enzo era già fidanzato con la Pupa, che è ancora oggi sua moglie, una santa. Lui la chiamava al telefono: “Pupa, allora ci vediamo in piazza”, senza dire quale piazza. Hanno un figlio, Paolo, detto Paolino, grande musicista, eccelso pianista, con la capacità unica di galvanizzare il pubblico. Molto spiritoso come il padre, quasi matto come lui. Durante i concerti veniva fuori da sotto il piano a slacciarmi i sandali.
Una volta stavo mangiando con Ombretta nel loro giardinetto di casa e lei mi disse: “Se dovessi fare il giro del mondo, sai con chi lo farei? Con mio marito, so che non mi annoierei mai”. Ombretta era perennemente a dieta. Donna spartana, in casa sua si battevano i denti dal freddo, perché lei abbassava sempre il riscaldamento. Tu accendevi, lei, di nascosto, spegneva o abbassava. Quando Ombretta cantava, il suo chitarrista era Battiato. Mi fece morire dal ridere, raccontandomi di quella volta che, non sentendosi lei troppo bene, lui la portò in camera da letto, tirandola su lungo la scala per le braccia. Arrivò su sconquassata, che stava peggio di prima. Era un periodo felice, quello, in cui si rideva molto.
È stato un grande, Giorgio Gaber. Unico nel suo genere. È stato lui a inventare in Italia il Teatro-Canzone. Un anarchico geniale, con un senso innato della scena. I suoi fan conoscono a memoria i suoi testi. Ho partecipato lo scorso luglio al festival in Versilia a lui dedicato e mi sono commossa fino alle lacrime cantando la sua bellissima Non insegnate ai bambini. L’avevo promesso a Dalia, splendida figlia dei due. Mi aveva fatto vedere un vecchio filmato con noi due, giovanissimi e magrolini, dove io raccontavo a Gaber tutti i miei timori per un concerto che dovevo fare. Quando ho conosciuto Dalia, diversi anni fa, era al suo primo lavoro come ufficio stampa. Adesso è un colosso, in tutti i sensi. Tende a masticare molto. Mastica in continuazione, qualunque cosa. Simpaticissima, ha preso il carattere del padre e della madre. Ride sempre.
Ho cantato pure con Domenico Modugno, lui era un’esplosione travolgente, l’esatto contrario di Tenco. Solare e vitale, anche quando era triste. A Modugno io piacevo molto e si era fissato che dovessi cantare in coppia con lui al festival di Napoli un suo pezzo: Tu si ‘na cosa grande. Modugno mi diceva sempre: “Sembri una formica, con quella vita stretta stretta ti porti dietro il tuo sedere”. Venne a trovarmi a Salsomaggiore con la chitarra per farmelo sentire. Era molto bella la canzone e molto coinvolgente lui. Travolgente, direi. Cercai di spiegargli che non potevo accettare, che ero già iscritta con un altro motivo. Ma questo non bastò per fermare uno come Modugno. Mi garantì che gli organizzatori avrebbero fatto un’eccezione per me. La fecero. Vincemmo a mani basse io e Modugno, grazie alla sua canzone che divenne famosa nel mondo. Fu il mio trionfo personale, prima con Modugno e seconda in coppia con Nunzio Gallo, con l’altro brano, Amore, amore mio, bello ma malinconico.
Il mio non è stato un ’68 di proteste e barricate. "Barricate con i mobili degli altri”, diceva Flaiano. Il ’68 era qualcosa che io non riuscivo a capire molto bene ma almeno c’era un sogno dietro, un’idea. Buoni e cattivi maestri. Un grande intellettuale come Bertrand Russell, che guidava i giovani e manifestava con loro, si sdraiava per terra nei sit-in, personaggi che oggi non esistono più. Non ci sono più questi uomini, anche al di fuori della politica, capaci d’incendiare i giovani, d’indicare la direzione.
Io non sono scesa in piazza a gridare slogan più o meno creativi. In quegli anni turbolenti e ideologici, ero una donna di trentaquattro anni che cominciava a pacificarsi con se stessa. Non ero un’attivista come la mia amica Dacia Maraini, che diceva di essere lesbica ma non lo era per niente. Ero già famosa all’epoca, entrata nel cuore degli italiani cantando brani come Senza fine, Che cosa c’è, L’appuntamento soprattutto. Il mio impegno fu quello di crescere artisticamente. Mi avvicinai con due LP e un recital alla musica dei miei cantautori preferiti. Non tutti riescono a entrare nella pelle dei cantautori. Io sì, scrivevo di mio pugno, un tantino vanagloriosa. Ero, nel frattempo, traslocata dalla Ricordi all’Ariston. A Sanremo avevo già cantato Modugno, Paoli e Tenco, ma anche Bindi e Califano. I cantautori allora erano considerati un’élite minoritaria con la puzza sotto al naso. Mi piaceva l’idea di trafugare le loro emozioni e farle mie, trasferirle un po’ vampirescamente nella mia voce. Posso dire che, anche grazie a me, quel tipo di aristocrazia musicale, chiusa nelle sue segrete, divenne più popolare. E, credetemi, non ho conosciuto un solo cantautore che, sotto sotto, ma neanche troppo sotto, non apprezzasse il brivido grossolano del successo di massa. Accompagnata dal pianoforte di Pino Calvi portai a Venezia Mi sono innamorata di te di Tenco al femminile e vinsi la Gondola d’Oro. Una novità assoluta, che infranse lo schema della donna in eterna e sospirosa attesa che lo spleen maschile si risolva. “Non si vergogna di cantare sempre e solo canzoni d’amore?”, mi chiedevano i giornalisti, quasi fosse una colpa. “Ci sono Guccini e Bertoli per la protesta, bisogna sentirsi un po’ capopopolo, io non ho questa vena”, rispondevo. “Gino Paoli non ha mai scritto una canzone di protesta.”
Mi sono divertita come una pazza in quegli anni, confesso. Mi sono anche giocata una carriera molto remunerativa in Giappone, per restare a Roma, dove si folleggiava in branco. Io, il mio compagno di allora, Danilo il maremmano, Renato Zero che ancora non era famoso, quella iena di Enrico Lucherini, la mia grande amica Alba Calia, oggi vicepresidente di Rai Trade e compagna di Angela Cutò. Tutti insieme a sganasciarsi al cinema, a vedere Piange il telefono con Modugno che fa il pilota e la piccola dal cuore spezzato che, quando sale i gradini, ha un sedere che sembra un trombone. La sepolta viva era un altro culto, lacrime a furia di ridere e la gente che protestava in sala. “Perché ridete?” “È forse proibito?” Imperdibile a teatro la coppia D’Origlia-Palmi, dei guitti strepitosi dell’epoca, mitici, per cui aveva perso la testa anche Carmelo Bene. Stiamo parlando di anni e di personaggi straordinari e non credo proprio, se dico questo, di essere una rimbambita in preda a nostalgia senile. Vivevo in una villa con piscina sull’Appia Antica. In mezz’ora di macchina eravamo al mare e al sole, un pesce alla griglia a tavola, l’apoteosi per una milanese mezza svizzera come me. La domenica venivano gli amici per una spaghettata e tanto tanto vino bianco. Bisognava cacciarli con il forcone. Avevamo poi una piccola casetta di pescatori a Porto Ercole, anche lì divertimento assoluto. Affittavamo una barca che si chiamava “L’ingiustizia”, battezzata così dal marinaio, perché lui era povero e aveva messo come oblò quelli della lavatrice, e ci cospargevamo tutto il corpo di un grasso strano, schifosamente unto, una roba francese che si metteva sulle mani per mungere le mucche. Tornavamo in porto bruciati come tizzoni.
C’era dentro in quei miei LP dedicati ai cantautori anche il mio amato Fred Buscaglione. Senti se la conosci:Vedi si consuma questa sigaretta, tu mi dirai di sì o mi dirai di no”. Si chiama Una sigaretta, un pezzo fantastico di Buscaglione. L’ho cantato di nuovo nel recente concerto al Blue Note. Vado pazza per Fred. Lui e Leo Chiosso si ispiravano a Mickey Spillane, il giallista americano famoso per i suoi passaggi fulminanti. “Si spogliò. Non era una vera bionda” oppure: “Mi trovavo per la strada circa all’una e trentatré, l’altra notte mentre uscivo dal mio solito caffè, quando incrocio un bel mammifero modello centotré... che bambola!”.
Peppino Amato, nome d’arte di Giuseppe Vasaturo, è stato un grande produttore. Il più straordinario, picaresco personaggio del cinema italiano. Iniziò alla regia Vittorio De Sica; diceva di avere un complesso d’inferiorità perché in America non gli avevano dato il premio Rodolfo Valentino a cui lui sentiva di somigliare. Vissuto a Hollywood, autore di strafalcioni memorabili passati alla storia: “Sono tutti alcolizzati contro di me”, “Basta con questa novel vac”, “Faremo un film con tutti i prismi”. Storpiava nomi e lingue con un talento unico: quando andò la prima volta a Cannes, al cameriere che bussava alla suite, lui urlava “aprè”, per dire “apri”, e questo invece se ne andava perché capiva “dopo”, facendolo infuriare.
Peppino veniva dai bassi napoletani, e quando costituì la società con Angelo Rizzoli senior fu la somma di due ignoranze leggendarie. Allora Peppino era innamorato cotto di me. Quando hanno prodotto La dolce vita, alla prima proiezione privata, Rizzoli ebbe quasi uno sturbo: “Federichetto, questa non me la dovevi fare”. L’altro, invece, Amato, è impazzito. Quando gli americani insistevano per comprare il film, la cifra era talmente alta che stavano tutti per cedere. La famosa “pietra emiliana del cinema”. A un certo punto Amato disse: “Ci penso io”, e quando richiamarono rispose lui al telefono: “C’avete scassato u cazzo, avete capito che c’avete scassato u cazzo sì o no?”. Non si sono più sentiti. Una volta, pur di non firmare degli assegni che doveva, si è spaccato tutti e due i polsi. Quando stava in America s’iscrisse a una scuola di lingua italiana. Non credo l’abbia mai frequentata. Era un tipo spassoso. Una sera mi fa: “Ti porto fuori a cena”. Mi venne a prendere con una fuoriserie. Invece della freccia, tirava fuori la mano. “Ma Peppino, così mi fai agitare.” “E che ne so, addo’ sta la freccia.” Che tipo. Mi disse: “Peccato, se ti avessi conosciuto un anno fa, ti avrei fatto fare la parte di Anna Magnani nel film Via delle Mantellate”. Poi mi fa: “Ma tu cosa vorresti recitare?”, e io: “Vorrei fare la Gilda di Giovanni Testori”. Ugo Pirro cominciò a scrivere la sceneggiatura, poi Peppino morì, io ero stanca, piena di lavoro e non avevo più voglia. Non lo feci più. Mi mancava la protezione di Peppino che mi dava così tanta fiducia. Lui per me era questo, un uomo che mi amava e mi proteggeva, ma tra noi non ci fu nulla, mai avuto rapporti. Ho perso il treno del grande cinema, forse, pazienza.
In realtà, una parte da protagonista di un film mi venne offerta da Ugo Tognazzi molti anni dopo. Si chiamava I viaggiatori della sera, tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Simonetta. Non era il suo primo film da regista. Non voleva problemi e aveva chiesto ad Annie Girardot di fare la parte principale. Ma Annie non aveva tempo, in quel periodo girava un altro film. Tra i produttori c’era Oliviero Prunas, l’uomo con cui dividevo la mia vita allora. Un grande amore. Fu lui a dire: “Perché non Ornella?”. Tognazzi accettò. Conoscevo già Ugo, sua moglie Franca, i suoi figli. Ero andata spesso al suo torneo di tennis a Torvajanica, molto divertente. Tutti er...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Una bellissima ragazza
  3. Introduzione - L’uomo col cappotto
  4. In principio fu l’acqua
  5. Il canto della sirena
  6. Se non è acqua, è champagne
  7. Ti ricordi? Sì, mi ricordo
  8. Io e gli uomini, indispensabili nemici
  9. Giorgio Strehler, innamorata del suo amore
  10. Gino Paoli, l’amore impossibile
  11. Hugo Pratt, l’amore perduto
  12. E gli altri...
  13. I miei indispensabili amici
  14. Donne straziate: Mia, Marilyn e le altre
  15. La donna guerriera
  16. La depressione
  17. Leggende metropolitane
  18. Io, Mina, Milva e nessun’altra
  19. Il mondo va sempre peggio e io canto sempre meglio
  20. I corpi invecchiano, le statue no
  21. A modo mio, ho bisogno di carezze anch’io
  22. L’arca di Ornella
  23. Copyright