Neanche con un morso all'orecchio
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Neanche con un morso all'orecchio

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  1. 216 pagine
  2. Italian
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Neanche con un morso all'orecchio

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Informazioni sul libro

La morte del padre è l'evento che cambia il corso di un'esistenza. Quello che fa diventare grandi, fa decifrare il senso di una vita intera. Un percorso faticoso, raccontato senza sconti da Flavio Insinna, in un libro intimo e introspettivo. Rivolgendosi al padre in un corpo a corpo serrato, un mattatore della TV popolare illuminata dai grandi ascolti esplora il mondo in ombra dei sentimenti e del dolore, dei conflitti e dell'amore. E il padre di Flavio diviene padre nostro. Suo e di tutti, nel corpo vivo delle parole.
Neanche con un morso all'orecchio è un originale memoir sulla lunga adolescenza di un eterno Peter Pan (che a 45 anni vive ancora in casa con mamma e papà) costretto a diventare di botto responsabile. Sul conflitto tra il desiderio di entrare vittoriosi nella vita adulta e il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, costi quel che costi. Un po' come un giovane Holden, Flavio Insinna è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o di poter sbagliare nelle sue scelte di vita, di lavoro e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale, ereditato dalla figura paterna, e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e di costruito. Un sentimento del tutto originale per chi ha fatto della fiction il proprio mestiere. Sul filo della comicità, da attore consumato, Insinna non si nega nessuna gag nella nostalgica rievocazione di ricordi autobiografici, per farne un racconto divertente e commovente.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852022791

La luce della finestra accesa

Anche stanotte torno a te come la spiaggia al mare. Ci sono le stelle e persino la luna, papà. Sarebbe la serata perfetta, buttare la spazzatura, fare il giro del palazzo e poi, come tanto tempo fa, ti accompagnerei a riportare la tua macchina in garage.
Mamma e Valentina dormivano quando sono uscito, o almeno mi sembrava. Ma lo sai, papà, che mamma ogni tanto russa? La cosa un po’ mi fa sorridere, un po’ mi infastidisce. Ma come, la donna più meravigliosa del mondo russa? Boh... se tu potessi parlarmi ora, mi spiegheresti in un misto di dolcezza e scienza medica che “a una certa età, sai, le vie respiratorie eccetera, eccetera, gli anziani, sai Flavio, il corpo umano è come una macchina che quando invecchia diventa un po’ più rumorosa...”.
Sentire la propria mamma che russa è inaccettabile come la prima volta che l’ho vista con gli occhiali.
È successo anni fa. Lei era in salotto. Io entrai di corsa per salutarla prima di uscire, stava cucendo qualcosa con il televisore acceso in sottofondo. La scena era consueta, rassicurante. Mamma sul divano che cuce e mi sorride mentre esco. “Fatti dare un bacio, tesoro di mamma” mi dice. Tutto secondo copione, ma qualcosa non era come sempre. Esco dal salone, torno indietro, la guardo senza farmi vedere, la guardo ancora... cazzo! Gli occhiali!
“Da quando, mamma, porti gli occhiali...?”
“Ehm... sì, bello di mamma, mi sto facendo vecchia.”
“Non lo dire neanche per scherzo, tu sei sempre tu. Sempre e per sempre.”
La stringo, la bacio, torno sulle sue guance come da bambino, affondo, sprofondo nella sua pelle morbida come nient’altro al mondo e scappo via.
In ascensore penso a mia madre che invecchia!
Le mamme diventano anziane, il loro sorriso no. La vita non perdona neanche loro. Il tempo passa sui loro corpi e li stanca senza pietà. Mia madre sta diventando vecchia, sempre più lento passa il filo nella cruna dell’ago. Mia madre invecchia e non si può trattare, non c’è prezzo da pagare per fermare il tempo.
Ma le madri, quelle vere, quelle come la mia, sembrano diventare anziane, vecchie. In realtà non è vero. Sembra così ma in realtà si stancano solo, non invecchiano. Si stancano tanto, troppo ma non muoiono. Dopo averci donato tutta la loro vita, vanno di là, a riposarsi un po’.
Ti prego, mamma, dimmi che tu non sarai mai vecchia, mai stanca e non ti scorderai la casa, i nomi, le persone. Penso. Ho paura. Una lacrima scende insieme a me. In ascensore.
Che bella serata sarebbe, se ci fossi anche tu, papà, giù in macchina con me. La luce illumina la tua finestra, è accesa anche stasera. I pensieri corrono da me a te, poi di nuovo a me. Ti stanno visitando? Ti controllano? Magari in questo preciso istante un medico sta sentenziando il tuo decesso? Oppure stai sognando una cosa che ti piace? Apri gli occhi e sorridi come Robert De Niro nell’oppieria di C’era una volta in America? Oppure un’infermiera passando dice: “Ma perché non lo fanno morire in pace ’sto povero vecchio?”.
La luce della finestra è ancora accesa e “’sto povero vecchio” è mio padre.
“Papà, senti una cosa, senti, papà, ma secondo te ci stiamo accanendo? Abbiamo superato il limite dell’amore? L’amore che ti fa tentare di tutto per salvare chi ami? Ci dovremmo fermare? Stai soffrendo inutilmente?”
Dimmelo, papà. Ti prego.
Svegliati un istante, un istante solo e dimmelo, dimmi cosa dobbiamo fare per te. Mi fiderei della tua saggezza, “con scienza e coscienza” hai sempre curato le persone. Ma ora che non ci sei, a chi cazzo chiedo cosa fare?
Dobbiamo andare avanti, il tuo corpo che sembra un puntaspilli, mille aghi, mille fili, mille tubi, macchine che suonano, numeri che variano sui monitor, parole mediche incomprensibili che ti riguardano... Dobbiamo andare avanti, sì o no? C’è speranza o no? Me lo hai sempre detto che fino all’ultimo secondo soltanto Dio sa e decide, e che il medico cerca di curare ma è il Padre eterno che salva.
E nessun medico deve togliere la speranza al malato.
Ma qui non ci dà retta neanche Dio, tu non puoi parlare e io non so come fare per riportarti a casa. Vorrei aiutarti mentre ti vesti. Vorrei riportarti da mamma e Valentina che non hanno neanche più la forza di piangere e pregare.
Devo sperare, papà, o è finita? Respiri “tanto per” ma sei già partito, oppure stai lottando da leone quale sei sempre stato? Perché quel medico alto e secco mi ha detto, non davanti a mamma che ne morirebbe, “ho visto centinaia di pazienti gravi, ma lo sguardo di suo padre... Non ho mai visto un uomo così disinteressato alla vita. Così poco attratto dall’idea di guarire...”.
Vaffanculo, professore di questo cazzo. Perché ha detto così di te, papà? È vero? Non vuoi guarire? Sei stanco? Troppo stanco? Parlami, papà. Sono sotto la tua finestra illuminata. Sono io. Sono solo in mezzo alla strada come un cane. Un uomo lavora tutta la vita, cura gli ultimi del mondo, i tossici, i malati di mente, i disabili, cresce due figli, protegge la moglie, suda, fatica, crede nei valori che fanno di un uomo un vero uomo. E poi come finisce?
In mezzo a un mare di pannoloni sporchi di merda. Senza poter parlare, girato, sollevato, massaggiato, lavato da mani estranee, nudo in un letto anonimo in una stanzetta con mille crepe. Così deve finire?
Forse è per questo che l’altro giorno appena hai avuto una mano libera, dopo l’ennesima operazione, hai cercato di strapparti via i tubi di dosso. Sapevi cosa facevi? Boh... Secondo me sì che lo sapevi. E come un leone volevi morire senza troppi patetici tentativi. Già abbiamo superato il limite papà, vero?
“Perché un vero uomo muore in piedi, non vive in ginocchio.” E lo so, lo so cosa c’è nel tuo sguardo quando entriamo nella tua stanza: “Ma cosa mi stanno facendo? E voi che siete la mia famiglia perché glielo permettete? Ve l’ho spiegato mille volte che voglio morire a casa mia. Basta. Flavio stacca ’sti cazzo di tubi e facciamola finita. Se veramente mi volete bene staccate tutto e fatemi riposare. Ci vediamo quando sarà, dove sarà”.
Non li voglio leggere i tuoi occhi, papà, quando sono nella tua stanza. Ma lo so che è questo che mi dici. E quando li richiudi è ancora peggio. Perché è come se ti stessimo disubbidendo. Riusciamo a deluderti anche all’ultimo giro della nostra corsa insieme.
Ma io sono ancora qua sotto, per la strada. Ora la luce nella tua stanza è spenta. Dormi bene, papà, ti prego e anche se sono disperato ti chiedo ancora una volta di tornare a casa. Perché mamma sta morendo insieme a te. Muta nel suo dolore, che è più grande di ogni dolore mai provato da una donna sulla terra. Perché tua figlia sembra una bambina terrorizzata che si nasconde sotto il letto quando il film in televisione fa troppa paura.
Torna a casa, papà, perché io devo ancora farti diecimila domande sulla vita e voglio le tue risposte per andare avanti. Torna a casa, papà, perché qua fuori è un brutto mondo. Ogni mattina c’è un esercito di stronzi che si sveglia e non vede l’ora di poterti rifilare qualche fregatura qua e là.
“Solo della tua famiglia puoi fidarti fino in fondo. Fuori di casa stai sempre con gli occhi aperti.” È vero, papà, sì certo, gli amici, ma non si sa mai... E poi, ormai, di chi mi posso fidare? Finché le cose andranno bene, hai voglia di persone intorno, ma se il vento dovesse girare...
Torna, papà, perché devo farti vedere la casa che ho comprato, finalmente. Tu e la mamma dovete venire a vederla. Sicuramente mi diresti che è troppo lontana da “casa nostra”, ma, dài papà, vengo tutti i giorni a salutarti, e scuoteresti la testa mentre mamma ti sorriderebbe ancora per smussare i toni.
Torna, dài papà, che qui è pieno di finti perbene che ti mollano all’improvviso, mentre invece ti dovrebbero aiutare. Dai fiducia alle persone, le porti a lavorare con te, credi di poterti fidare, e invece non sai che la gente è velenosa, prende ma non dà. Ti resta aggrappata solo per guadagnare. Tu li credi amici e invece si preparano a pugnalarti alla schiena perché altrimenti scoppierebbero di invidia e di gelosia.
E io mi fido ancora a quasi cinquant’anni... hai ragione tu, papà. E allora lo vedi? Devi tornare perché ho ancora bisogno della tua guida. Dei tuoi consigli. È brutto, è brutto qua fuori, papà, da solo non ce la faccio, lo sai. Quante volte mi hai fatto da scudo per farmi crescere e vivere, come una pianta che da sola, addio, già sarebbe morta.
Torna. Non morire, ti prego. C’è un mucchio di stronzi che non vede l’ora di festeggiare perché il mio dolore sarebbe la loro gioia. Come quell’organizzatore di film, un vero ladro, gliel’ho anche detto, con i suoi occhialetti, le sue giacchette eleganti e i suoi modi finto perbene, che ha imparato per poter fregare meglio i soldi, quelli che dovrebbero servire per finanziare i film e invece scompaiono chissà dove... Quello sarebbe il primo a far festa se tu te ne vai e mi lasci solo.
Ah, sai quanto sono incapace di gestire la tecnologia, non ci crederai, eppure ho imparato a programmare l’impianto di irrigazione in giardino. Se ci sediamo a chiacchierare verso le sette vedrai che schizzi di acqua sui fiori e le piante.
Torna perché ho bisogno di confrontarmi con te, con la tua intransigenza morale, i tuoi scrupoli, il senso del dovere. Non pensare solo a se stessi ma agli altri che hanno bisogno. Ho bisogno di misurarmi con te e di guardarmi allo specchio. E il mio specchio sei tu. Ascoltare il tuo commento durante il telegiornale, il tuo sconforto per il nostro Paese così malridotto, stremato e corrotto, il tuo dispiacere per le famiglie che non ce la fanno ad arrivare neanche a metà mese. Le tue lacrime silenziose davanti alle immagini di Aldo Moro nella Renault 4, a quelle di Nassiriya o dei bambini che muoiono di stenti su un barcone o in mezzo a un deserto a due ore di aereo da Roma. E la tua umiliazione di siciliano onesto per l’assassinio di Falcone e Borsellino.
E lo so che dovrei prendermela di meno per il mio lavoro, quando lo vedo fatto male, gestito peggio, calpestato da imbroglioni di ogni genere. Lo so che faccio il clown ma me lo hai insegnato tu che “dallo spazzino al presidente della Repubblica, tutti dobbiamo fare il nostro dovere” e soprattutto mi hai insegnato che non conta il lavoro che fai, ma come lo fai.
Ma se tu torni a casa potresti dirmi ancora una volta: “Figlio mio hai ragione, ti capisco, ma non ti fare il sangue amaro” e io potrei tornare in camera mia sentendomi meno solo, sapendo che tu sei dalla mia parte.
Come ogni volta quando c’è stata qualche polemica che mi riguardava sui giornali o in televisione. Tu non mi hai chiesto nulla, mai, ti è sempre bastato guardarmi negli occhi per sapere che tuo figlio non era un disonesto.
E nei tuoi occhi io ho sempre trovato la mia ricompensa.
Torna a casa, papà. Da troppo tempo non distruggi la cucina cercando di preparare gli spaghetti al nero di seppia. Mamma tornerebbe a sorridere mentre cerca di riordinare dopo i tuoi goffi tentativi e finalmente cucinerebbe per tutti noi. E poi devi tornare perché sei il capobranco, ricordi? Non siamo una famiglia, siamo un branco e senza di te siamo destinati a vagare senza meta nella foresta.
Torna, papone mio, perché il nostro amore può lenire le tue ferite. Torna ma non per un minuto. Torna per mille anni ancora. Sospesi da ogni tempo reale viaggeremo insieme e non ci servirà altro che noi stessi, uno all’altro fedeli come sempre, come ci hai insegnato tu.
Sono quasi le cinque del mattino, la luce nella tua stanza si è accesa di nuovo. Altri controlli, nessuna emergenza spero. Sono qua sotto, papà. Tuo figlio, quello un po’ così, quello che se potesse si metterebbe in quel letto al posto tuo. Ma purtroppo non si può.
I guardiani dell’ospedale ora mi riconoscono. Non si preoccupano più di quella macchina ferma vicino al cancello dell’ospedale durante la notte.
Odio tornare a casa col sole che nasce. Accendo il motore. Scivolo verso casa con l’ultimo buio. Non voglio che mamma mi veda già sveglio. Entro a casa, dormo un po’, per fortuna dall’ospedale nessuna telefonata. Tutto uguale. Tra poco torniamo da te, papà. Un branco mutilato, senza guida, che fa finta di non aver paura.
E devi tornare perché non so vivere. Lo sai sono inadatto alla vita. Inadeguato. Dentro questo fisico da lottatore, lo sai bene che c’è un ragazzino impaurito da tutto e da tutti. Non un Peter Pan di questi tempi. Non sono uno che non vuole crescere. È che non so crescere.
È la mia condanna. E faccio questo mestiere per fare finta perché come dice il poeta “si recita per mentire, per smentirsi, per essere quello che non si è o perché se ne ha abbastanza di essere quello che si è. Si recita per non conoscersi o perché ci si conosce troppo”.
E anche tu mi conosci. E quante volte con la mamma avete cercato di spronarmi a essere più coraggioso, a buttarmi in avanti, vada come vada. E invece io mi vergogno anche di entrare in un negozio a chiedere il prezzo di una giacca.
Mi fanno a pezzi ogni giorno, muratori, elettricisti, giardinieri, “che vuole il preventivo dotto’?”. E io che vorrei rispondere: “Sì, cazzo che lo voglio, voglio il preventivo, come tutti! E poi la ricevuta”. E invece, con imbarazzo, dico: “No, vabbè, fate pure, poi mi dite...”. E giù legnate che se non ci fosse Antonio a occuparsi di tutta la mia vita economica, sarei già a piazza Navona a dormire in un sacco a pelo. E mi farei fregare pure quello.
C’è un esercito di finti amici, estimatori, produttori sorridenti che non vedono l’ora di sfruttarmi e io non li so riconoscere, né affrontare.
E tu lo sai che basta mezzo sguardo e chiunque mi può far sentire “sbagliato, inadeguato”. Il solito bluff che credo di essere da sempre.
“Se non ti ami un po’, non ti ameranno.” Papà, ti prego, amami almeno tu e forse un giorno sarò capace di amare, amare almeno un po’. Quello che faccio, quello che sono. Amare una donna, una sola, amandola bene, mettendo il meglio che ho dentro, tutto l’amore che posso.
Torna per dividere il bene dal male. Per ricordarmi la strada delle persone perbene, perbene veramente, quelle che non si fanno mai lo sconto, ma lo fanno agli altri. Mi serve la tua dignità, la tua antica compostezza, la capacità di sopportare il male, le offese, il tradimento di chi hai portato a lavorare con te e ti tradisce più di Giuda.
Torna per aiutarmi a sopportare questi vermi, pseudo intellettuali che ti si attaccano come le piante al muro perché da soli non saprebbero salire mai.
Torna papà perché devi ancora fare di me un uomo, del quale essere orgoglioso. Troppe pene mi devastano e da solo non ce la faccio. Ho bisogno di sentire la tua fiducia, proprio quando tutti cercano di farmi sentire lo scemo del villaggio. Sei da sempre la mia vela e il mio timone. Se non sono diventato un delinquente o un fannullone lo devo a te.
Torna per il tuo silenzioso esempio, perché hai ancora molto da insegnare, malati da curare, libri da leggere, sorrisi da regalare. Passeggiate da fare con mamma. Consigli da dare a Valentina che ti adora come un selvaggio adora il sole. Troppi baci hai ancora da dare e da ricevere.
Torna e dimmi che non contano i risultati ma l’onestà dei propri sforzi.
Torna perché quando ti vedo seduto a capotavola penso che il nostro Paese sarebbe migliore se più uomini fossero come te.
Torna perché “non si tradiscono gli amici e devi avere pazienza con loro ma ricordati pure che buono, troppo buono non è buono”.
Torna perché “le donne le devi rispettare; è come se una donna fosse tua madre o tua sorella ed è inutile che fai il finto tonto: se questa signorina chiama a casa dieci volte al giorno e tu ti fai negare, qualcosa figlio mio devi pure avergliela promessa”.
Torna perché mamma ti possa aggiustare la sciarpa prima di uscire e tu ringraziarla facendo finta di tenerci molto al tuo look, perché...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Neanche con un morso all'orecchio
  3. Cazzo i ladri!
  4. L’odore della morte
  5. L’ambulanza
  6. Ulisse e i vestiti
  7. Comunismo di famiglia
  8. L’orologio e l’uomo di Sparta
  9. Non so ricevere i regali. Neanche farli
  10. A proposito di tempo speso più che perduto
  11. Il nipote del professore
  12. Notte prima degli esami
  13. Dei film del lunedì sera ho visto solo primi tempi
  14. Il successo e l’etica della recitazione
  15. Il “cassettaro”
  16. La palestra di Rocky
  17. Le pantofole
  18. La luce della finestra accesa
  19. La minestra di gatto
  20. Un amore
  21. Mostri
  22. Piccioni
  23. Stai a girà ’na fiction
  24. La foto
  25. L’infermiera stronza
  26. Vedrai che andrà tutto bene
  27. La borsa e il garage
  28. Sorridere a una porta
  29. I voti di greco e di latino
  30. Le macchine e una barchetta
  31. Il polpo
  32. Le mani
  33. I calzettoni blu
  34. Se non lavori non esisti
  35. Il branco
  36. Al mare
  37. “Il portiere caduto alla difesa”
  38. Padri contro figli
  39. Non si recita per guadagnarsi il pane
  40. SMS
  41. E la luna bussò
  42. Arti marziali e battipanni
  43. Le nonne e il cuore strappato
  44. Neanche con un morso all’orecchio
  45. Cinquanta milioni
  46. Sirene profumate
  47. Le mani di mamma
  48. Nonno Emanuele
  49. Il dentista e le iniezioni
  50. Le giacche di seta
  51. Senza capelli mi avrebbero fatto presentare “Affari tuoi”?
  52. La coppola
  53. McDonald’s e le comparse
  54. Papà chiude mamma in macchina
  55. Papà ha sempre ragione
  56. Il bacio
  57. I soldi
  58. E la sai un’altra cosa, papà?
  59. Gallia est omnis divisa in partes tres
  60. Orte
  61. Le orecchie a sventola
  62. La tessera
  63. Il borsello
  64. Le tue gambe bellissime in giro per casa
  65. A parte: fuori dal tempo e fuori dal libro
  66. Ringraziamenti
  67. Copyright