Da qui non se ne va nessuno
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Da qui non se ne va nessuno

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  1. 156 pagine
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Da qui non se ne va nessuno

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"Milano dista da Torino cinquant'anni." Alba Parietti li ripercorre tutti con la mente e con il cuore mentre vola in autostrada per andare a soccorrere sua madre, una donna meravigliosa ma afflitta per molti anni da gravi sofferenze psicologiche. A ogni chilometro un ricordo, poi un altro e un altro ancora. Insieme s'impongono con prepotenza nei dettagli, nei colori, negli odori, fino a ricreare volti, fatti, emozioni di una vita intera.
Con la morte della madre, il bisogno di ricostruire la storia della sua famiglia diventa incontenibile per Alba, quasi terapeutico. Un desiderio reso possibile dal ritrovamento, del tutto inaspettato, dei diari della mamma e di suo fratello Aldo, rinchiuso per tutta la vita al manicomio di Collegno. Da quelle pagine spuntano epoche, luoghi e figure famigliari che somigliano ai personaggi di un romanzo storico di fine Ottocento. Da una parte la famiglia materna, colta e raffinata, in stretto rapporto con i Savoia, il cui aplomb è allegramente minacciato dallo zio Angelo, chiamato da tutti, a causa della sua passione per il travestitismo e la sua mitomania, il "Marchese Faraone". Dall'altra la famiglia paterna, contadina, comunista, antifascista. Il nonno Antonio che non si toglie il cappello davanti a Mussolini e impedisce al futuro padre di Alba di indossare la divisa da Balilla. Un imprinting profondo, che lo porterà diciassettenne a diventare il partigiano Naviga e, in seguito, a sfuggire all'eccidio di Perletto.
Alba incrocia la sua storia personale, dalla carriera agli amori - fra cui quello con uno degli imputati, poi assolto, della strage di Brescia -, con quella dei suoi avi e si sorprende a scrivere questo libro di ricordi in compagnia degli amati fantasmi della madre, del padre e dello zio. Da qui non se ne va nessuno è l'affascinante autobiografia famigliare di una donna di grande successo che sperimenta sulla propria pelle una consolante verità: gli affetti veri continuano a essere presenti nella vita quotidiana di ognuno di noi.

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Informazioni

1

Verso l’Alba

La vita è e rimane un mistero e una sorpresa:
magari brutta, ma sempre una sorpresa.
ALDO
Milano dista da Torino cinquant’anni. Una mattina uguale a mille altre telefono a mia madre per sapere come sta. «Malissimo» risponde «portami all’ospedale.» Non è tanto il “malissimo” ad allarmarmi quanto la richiesta di essere portata in una struttura in cui non c’è mai stato verso di farla entrare. In cinquant’anni mai una visita.
Chiamo il 118 e di nuovo lei, le chiedo di lasciare la porta aperta per favorire l’ingresso del Pronto Intervento nel caso in cui non riuscisse più a muoversi. Mi dice di sì, e in un attimo capisco che la situazione sta davvero precipitando. Mia madre non ha mai dato a nessuno le chiavi di casa, nemmeno a me, nemmeno da adulta.
Più dà segnali di fidarsi di chiunque accorra in aiuto, più il suo stato mi sembra grave. Prendo mio figlio Francesco, la macchina, il coraggio, e imbocchiamo l’autostrada per Genova, poi verso Alessandria, Asti. Ogni chilometro un ricordo. Dai luoghi in cui si è consolidata la mia carriera, a ritroso, verso quelli che mi hanno formata. Due ore lunghe una vita.
È come se vedessi tutto chiaro per la prima volta, un mosaico disteso con tutti i tasselli che mi appartengono, che si incastrano all’improvviso, formano volti, paesaggi, emozioni, e tutto va al posto giusto, anche quello che un tempo mi era sembrato sbagliato. Ricordi che pensavo di non avere riaffiorano con prepotenza nei dettagli, nei colori, negli odori. Un paese ci vuole, scriveva Pavese, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta lì ad aspettarti. La sensazione è quella di essere attesa da sempre per portare a termine qualcosa di importante. “Finalmente” paiono dirmi i dintorni. “Finalmente sei tornata a riprendere le tue cose.” Eppure sono andata spesso a Torino. Ci andavo come si va a fare la spesa o a comprare il giornale, pestando il tragitto a memoria, puntando al portone di casa. Stavolta è tutto diverso. Tutto uguale e così diverso. Agli incroci mi vengono incontro facce antiche e voci squillanti che avevo sepolto chissà in quale angolo della memoria. D’improvviso sono una bambina, anzi non sono ancora nata.

2

Tonco e Moasca

La forza del pensiero,
se è pura, non è mai vana.
GRAZIA
Maria era bella, capelli neri ricci e occhi verdi. Una ragazzina di campagna, dai modi un po’ selvaggi, che parlava in dialetto stretto. Antonio era il giovane più ambito del paese accanto. Si incontrarono a una festa da ballo e fu colpo di fulmine. Maria vide Antonio e subito disse a voce alta: “Mi lu vöj”. Lo voleva e lo ebbe. Rimase incinta a diciassette anni. I figli all’epoca venivano al mondo come conigli, così mentre lei dava alla luce mio padre Francesco, sua madre Pinota ancora si dava da fare e concepiva Virginia detta “Settima”: in pratica, una zia più piccola di suo nipote.
I miei nonni vivevano a Tonco, nel Basso Monferrato. Un pugno di case in cima a un colle, qualche centinaio di anime chine sui campi che si raccomandavano al cielo per il raccolto attraverso la festa del “Pitu”, cioè del capro espiatorio. Si trattava di un tacchino a cui veniva fatto un regolare processo in piazza, con tanto di giudici togati ad accusarlo, e che, prima di essere appeso e sgozzato dai cavalieri, era fatto oggetto di satira da parte della comunità. Nel Medioevo era un momento importante perché al popolo veniva concessa la possibilità di identificare il “Pitu” con il padrone e di inveirgli contro, scaricando tutto l’odio accumulato durante l’anno. Serviva a esorcizzare il male, poi si finiva con la giostra equestre, frittelle e barbera. Erano rituali crudeli e significativi come quando, in segno di benvenuto, gli zii di papà decapitavano una gallina davanti ai nostri occhi. Ero scioccata nel vederla muoversi e correre per un po’ senza testa, ma dopo, siccome tutti facevano festa, deducevo che non doveva essere una cosa così cattiva.
Non c’era molto da fare a Tonco; la domenica in piazza i giovani giocavano a palla e a tamburello, i ragazzini come mio padre si spingevano al massimo sopra al cucuzzolo, tormentavano il campanile pensando che gli spettasse di diritto perché era l’unica distrazione in un paese, secondo le parole di mio padre, “privo di fontane dove schizzare l’acqua al prossimo e persino di campanelli elettrici che tanto spasso danno ai monelli di città non troppo provvisti di timor di Dio”.
Nonno Antonio faceva il bottaio, non aveva studiato molto eppure era un tipo arguto, con idee chiarissime, di sinistra, quando essere di sinistra non era facile e dirlo era addirittura pericoloso. Un antifascista per vocazione, non per istruzione. Mentre tutti si piegavano a Mussolini lui rifiutava la tessera del PNF e andava apposta in piazza con il cappello per non toglierselo davanti allo stendardo del fascio. Si esponeva senza paura perché sapeva di essere nel giusto e rivendicava la libertà a ogni costo. Non l’ho mai conosciuto, eppure è quello che ha più determinato il mio carattere. Ha forgiato mio padre e dunque me.
Mio padre lo aiutava a fare i mastelli in bottega, dove nelle serate d’inverno si radunavano gli amici per giocare a carte, sorseggiare picheta e dissertare di tutto, anche di politica o, come amava precisare lui, “dissertare non è il termine adatto, sarebbe più giusto dire che ognuno sussurrava la sua opinione badando bene di non affermare nulla, parlando per metafora e a denti stretti”. Non era un covo di cospiratori né una riunione di perseguitati politici, solo un luogo in cui l’allegria regnava tra i presenti come il fango dei loro “ciabot”.
Nonno Antonio mandava papà a scuola senza la divisa da Balilla, infatti nelle foto di classe lui è l’unico a indossare una camicia bianca slacciata. La scontò tutta, questa “originalità”. Cominciò a subire le vessazioni degli altri già all’asilo, dove lo chiamavano “ël sìngher”, lo zingaro. La sua, per il paese intero, era la famiglia degli zingari e come tali andavano perseguitati. Era trattato male dagli insegnanti, che aderivano senza riserve alle idee del Duce, emarginato dai compagni, preso a calci e pugni. Le direttive erano chiarissime: gli alunni dovevano essere educati al fascismo sin dai quattro anni, nei giochi, sui libri, con le marce e le esercitazioni paramilitari in cui imbracciavano il moschetto giocattolo, tutti a seguire la disciplina dell’“italiano nuovo” voluto da Mussolini ma non da Antonio. Francesco veniva allontanato come la peste, così una volta, cacciato dall’asilo perché senza divisa, rimase nascosto tutto il giorno dietro una siepe perché si vergognava a tornare a casa; un’altra volta aprì la porta dichiarando orgoglioso a mio nonno: “Io sono figlio della Lupa”, e si beccò un ceffone. “Non lo dire mai più” gli intimò nonno Antonio. “Tu sei figlio di tuo padre e tua madre.”
Francesco Parietti era un bimbo, voleva solo essere accettato, pur di essere uguale agli altri era pronto a qualsiasi cosa. Forse se i fascisti lo avessero trattato meglio avrebbero anche potuto circuirlo, invece, coi loro atteggiamenti ottusi, non facevano che confermare il pensiero di suo padre. Lo punivano perché era diverso. Studiava tanto e lo bocciavano, faceva i compiti migliori e lo ribocciavano, vinceva la borsa di studio e gliela toglievano per darla ai compagni che dal Giornale di Classe risultavano “moralmente” più meritevoli. Lui stesso raccontava: “Ero trattato come l’asino della classe e deriso, eppure quando i temi furono esaminati ad Asti vinsi il diploma di benemerenza ma, all’atto della consegna, venni vergognosamente mutilato della medaglia allegata. Seppi poi che era stata puntata solennemente al petto della Piccola Italiana Maletto Paola, figlia dell’allora segretario politico e veterinario e della direttrice della colonia. Colonia da cui, visto che non avevamo pagato la quota entro il termine stabilito, venni anche espulso. Piansi e corsi a casa doppiamente defraudato”.
Più si comportavano male, più lui capiva le ragioni di mio nonno, finché un giorno non cercò più l’approvazione degli altri, quella che aveva sempre considerato una debolezza divenne forza, un orgoglioso segno di distinzione.
Nonno Antonio morì quando mio padre aveva tredici anni, mia nonna Maria appena trenta. Non sapeva se avesse diritto ad assegni familiari o all’assistenza sanitaria, sapeva solo che il regime non avrebbe aiutato certo lei, vedova antifascista, quindi chiuse la bottega, diede le vigne a mezzadria, vendette quel poco che possedeva per saldare i debiti contratti per le cure mediche del marito e partì per Torino, dove lavorò come serva. Serva, sì, e non domestica, perché sgobbava in cambio di vitto e alloggio, sbrigava servizi per sopravvivere e mandare a scuola suo figlio. Prima che un mestiere umiliante era una condizione umiliante.
La fame era tanta, in quegli anni, e si ragionava con lo stomaco. Il lavoro minorile era parte dell’economia familiare: così sua nipote Caterina, a soli undici anni, era stata presa dalla maestra delle elementari e portata a lavorare come domestica a Torino; sua nipote Silvana, che qualche volta l’aveva accompagnata a prestare servizio presso il convento del paese, aveva visto la mensa e capito che lì il cibo non mancava; lei, che ancora oggi dimostra una grande convinzione nella sua scelta, all’epoca si era fatta suora forse più per fame che per vocazione.
Si spaccava la schiena, nonna Maria, senza sosta, per racimolare qualcosa da mandare a suo figlio e permettergli di studiare. Accettò addirittura di fare la cameriera stagionale nell’ultimo rifugio della Thuile, in Val d’Aosta al confine con la Francia, a duemila metri di altezza, tra la neve e gente che parlava patois, sola, lontana da tutto pur di essere una brava madre. Nel frattempo Francesco, ormai un ometto e ribattezzato Ceschino, era stato trasferito a Moasca e affidato alle cure degli zii Giuseppe e Giovanni e della nonna Pinota, dotata di una tempra forte come quella della figlia Maria: una volta tornò assetata dalla vigna, si attaccò a una bottiglia che conteneva un liquido trasparente pensando fosse acqua, invece era conegrina. Come antidoto buttò giù un litro di vino e una tazza di latte di vacca rossa appena munta, e scampò all’avvelenamento. Erano così le donne di allora, abituate a farcela con le proprie forze e a trovare mille rimedi per restare in vita.
L’esistenza di Maria fu interamente basata sul lavoro, non seppe farne a meno neppure quando il figlio era grande e la famiglia ormai sistemata. Voleva mantenersi da sola, andò operaia in una fabbrica di biscotti pur di non pesare su suo figlio, e la fame se la portò dentro anche dopo il boom economico, quando il cibo abbondava. Negli anni Settanta, quando nonna Maria faceva la baby-sitter ai due gemelli di una famiglia bene, mentre eravamo nel parco rubava pezzi di prosciutto dal loro panino per infilarmeli in gola, non importava che io non ne avessi voglia né bisogno. La fatica le aveva modellato il fisico, la ricordo sempre con i gomiti larghi, le mani gonfie, i polpacci nervosi, vestita di grembiuli a fiori abbottonati sul davanti; quando andava dal parrucchiere e si agghindava, si capiva che era per un’occasione speciale perché i vestiti buoni odoravano di naftalina.
Mentre lei si ingegnava per sbarcare il lunario, mio padre entrò in collegio a Moasca e lì la sua vita cambiò. Arrivò senza divisa, spettinato, quasi uno “sciuscià” nel rigore astigiano, e il primo giorno di scuola, pur avendo la possibilità di scegliere fra tanti banchi, si sedette all’ultimo, vi gettò sopra la cartella e affondò la testa fra le braccia incrociate. La suora gli disse: “Francesco, che fai laggiù? Vieni avanti”.
Rimase di stucco. Era così abituato a essere sbattuto in fondo che piuttosto preferiva andarci da solo. Da allora in poi non temette più di mettersi in prima fila, in qualunque situazione. Le suore lo accolsero bene, gli restituirono dignità e diritto allo studio e perciò, anche da vecchio, nonostante il suo piglio anticlericale, dimostrò sempre un debole per loro. Furono le prime a fargli scoprire la recitazione, consentendogli di allestire un piccolo teatro, nel quale fu regista e interpretò la parte del “rivoluzionario” Fornaretto di Venezia e lui, da allora, è come se non avesse avuto altro obiettivo che vendicare quel personaggio vittima dell’ingiustizia.
Era bellissimo, Ceschino. Alto e magro, capelli castani e occhi azzurri come topazi, un volto da divo del cinema. Era sempre lì che leggeva, anche dopo una dura giornata nei campi. Aiutava gli zii a lavorare la terra, ma capiva che la cultura era un bene primario quanto il grano. Poteva tollerare di essere ignorato, non di essere ignorante.

3

Le Langhe

Il mondo è come è, e come è resta,
è solo l’uomo che cambia.
ALDO
Le Langhe non si perdono. Puoi andare lontano, ma mai allontanarti da loro. Sono un paesaggio interiore, i posti in cui ti ritrovi a girovagare con la mente quando il corpo sta altrove. È una mappa della solitudine, pacifica e non inquieta. È il silenzio irreale rotto dai campanacci delle mucche al pascolo o dai trattori, un misto di creste e valli, torrenti e borghi medievali, cascine isolate e chiese di vedetta, noccioleti, filari geometrici e fitti boschi.
Mentre corriamo da mia madre in ospedale, mio figlio Francesco schiaccia l’acceleratore, il motore è al massimo, ma in realtà io vado lentissima. Il tempo interiore non coincide affatto con quello che segna l’orologio del cruscotto. Anzi, procede al contrario: più andiamo avanti, più io vado indietro.
Mi tornano addosso mille profumi: il rovere delle botti, la lavanda dei campi, il mosto, i tartufi “calli della terra”, il ragù sulla stufa che pervade la cascina. Lo tenevano a cuocere così tanto che l’odore si spargeva dappertutto, era come se la casa stessa fosse da mangiare. Ricordo le lunghe passeggiate da piccola tra faggi e querce, munita di calzettoni di lana grezza e pranzo al sacco che tanto odiavo per il suo odore stantio, le sorsate di acqua gelata appena sostavamo presso una fonte.
È una terra così dura, questa, coi pendii a cui le mani dei langaroli hanno strappato ogni metro quadro da coltivare, i terrazzamenti di pietra di Langa beige e grigia recuperata dai torrenti nei mesi di siccità, coi paesi che sono minuscoli agglomerati e tante case sparse fin sulle cime, dove di notte le nubi sono sotto i piedi.
Rivedo mio padre giovane com’è nelle numerose fotografie, col fucile in spalla e gli scarponi aperti, in quello che Beppe Fenoglio chiamava “l’arcangelico regno dei partigiani”.
Nonno Antonio era morto e stavano morendo gli uomini tutti sotto il nazifascismo, la loro libertà, la loro dignità. Mio padre faceva il garzone dal salumiere di giorno e partecipava a riunioni clandestine in una tipografia di notte. Mancavano la carta, l’inchiostro, i ciclostili, si dovevano ingegnare sia per stampare i volantini sia per farli circolare. Se li beccavano rischiavano il carcere e la fucilazione. Avevano coraggio, volontà, grande senso di giustizia, quei ragazzi. E modelli a cui ispirarsi e di cui essere fieri. Uno dei loro eroi era Giovanni Bassanesi che, venticinquenne, l’11 luglio 1930 era partito dal Canton Ticino alla guida di un piccolo aereo Farman, aveva puntato dritto su Milano e, una volta avvistato il Duomo, intorno a mezzogiorno, aveva sganciato centocinquantamila manifestini tricolore antifascisti. L’appello firmato “Giustizia e Libertà” era “Insorgere/Risorgere”, l’invito alla rivolta si sparse ovunque, sui tetti, sui balconi, sui marciapiedi, una beffa inaudita alla vigilanza del regime. “Le vie dell’aria sono le vie del pensiero” diceva Bassanesi. Il messaggio rivoluzionario era che si poteva rompere il silenzio, nessuna impresa era più impossibile.
Erano state promulgate le leggi razziali, l’Italia era sfiancata dalla guerra, e con l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’occupazione nazifascista era diventata intollerabile. I tedeschi da alleati si erano trasformati in invasori e operavano con ferocia, spuntavano da ogni parte, scendevano coi cani dalle colline e prendevano gente a caso dalle cascine. Non era il tipo da accettare soprusi, Ceschino. Avevano catturato suo zio Giovanni e l’amico Lidio senza motivo. Gli avevano fatto un primo interrogatorio “manuale” e non verbale, poi li avevano portati a Torino a sfilare con un cartello al collo che portava la scritta BANDITI CATTURATI NELLE LANGHE. A casa nessuno sapeva che fine avessero fatto. Allora Settima – la zia di mio padre più piccola di lui che nel frattempo era diventata una splendida ragazza – e Cesira, sorella di Lidio, partirono da Moasca in bicicletta e pedalarono, queste due ragazzine di diciassette anni, per oltre ottanta chilometri fino a Torino. Giunte in città li cercarono dappertutto e, quando videro che li stavano caricando sui camion, si fecero largo tra la folla per salutarli, sfregiarono con le unghie i tedeschi che non le volevano far avvicinare, a rischio che deportassero anche loro in Germania. Al ritorno in paese Settima divenne staffetta partigiana e una testa calda come mio padre non poteva che fare la stessa scelta; quindi partì per la sua prima azione insieme a un amico e rubarono un camion ai tedeschi vicino alla chiesa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Da qui non se ne va nessuno
  3. 1. Verso l’Alba
  4. 2. Tonco e Moasca
  5. 3. Le Langhe
  6. 4. Naviga
  7. 5. Perletto
  8. 6. Aria fresca
  9. 7. Le due famiglie
  10. 8. La vita a Palazzo
  11. 9. Il Marchese Faraone
  12. 10. Il cielo su Torino
  13. 11. Gli sfollamenti
  14. 12. La ciociara
  15. 13. Piedi bruciati
  16. 14. Miseria e nobiltà
  17. 15. Le scarpe del re
  18. 16. Lo zio Aldo
  19. 17. Una meraviglia meravigliosa
  20. 18. Director’s cut
  21. 19. L’Associazione
  22. 20. Il volo
  23. 21. Io fascista
  24. 22. DisGrazia
  25. 23. L’enfant terrible
  26. 24. Francesco
  27. 25. Faccia da mascalzona
  28. 26. Il conto, grazie
  29. 27. La razza inferiore
  30. 28. Creature speciali
  31. 29. Stato di Grazia
  32. 30. Tra il Monferrato e la Romagna
  33. 31. Noblesse oblige
  34. 32. Madama Farfalla
  35. 33. I diari di Cella
  36. 34. Je ne regrette rien
  37. 35. L’ultima beffa
  38. Inserto fotografico
  39. Dello stesso autore
  40. Copyright