Si fa ma non si fa
Anni fa frequentavo la famiglia di un aristocratico, nonché alto ufficiale, che a tavola citava molto spesso l’episodio della “scarpetta” nel Conte Max. Il personaggio interpretato da Vittorio De Sica dà lezioni di savoir-faire ad Alberto Sordi e proprio mentre si concede di pulire il piatto con un pezzo di pane, esclama: “Questo col pane non si fa mai!”. Ricordava lo sketch tutte le volte che affondava il pane nel piatto, il marchese; e, tutte le volte, si rallegrava parecchio.
Uno dei punti di forza della commedia all’italiana, infatti, è il predicare bene e razzolare male, dare buoni consigli ma cattivi esempi. Quella che i teorici dell’umorismo chiamano “bisociazione”, e i pratici della vita conoscono sotto molti altri nomi, è anche una costante della società italiana. Sarà per questo che da noi la commedia ha sempre funzionato meglio della tragedia.
“Questo non si fa.” Cosa vorrà dire, poi? Lo sanno gli umoristi, i mentitori, i poeti, i cantautori, i pubblicitari, i politici, i giornalisti, gli enigmisti: nella lingua anche il modo di dire, la forma più semplice, può dare luogo a diverse interpretazioni. Spesso si arriva al paradosso. Prendiamo proprio la frase “Questo non si fa”. In questa frase il pronome dimostrativo questo significa “ciò che faccio in questo momento”. Lo sto facendo, dico che non si fa.
Una volta sui tram di Milano c’era un cartello in cui si leggeva: NON SI SPUTA, NON SI BESTEMMIA. Ora non c’è più: vuol dire che sono cessati i due divieti? E perché allora non c’è scritto NON SI SCANNANO I PASSEGGERI DURANTE LA CORSA o anche solo VIETATO APRIRE OMBRELLI ALL’INTERNO DELLA VETTURA? Semplice, ovvio: nessuno fa queste cose, quindi non c’è bisogno di dire che non si fanno. Si vede allora che un tempo la gente sputava o bestemmiava più spesso, sui mezzi di trasporto pubblico. Dato che si faceva c’era bisogno di dire “non si fa”.
Le proibizioni indicano sempre ciò che le persone tendono a fare, infatti rischiano di dare ottime idee a chi non aveva mai pensato di trasgredire. I confessori non chiedono ai bambini se, quando nessuno li vede, guidano di nascosto l’auto di famiglia: chiedono loro se si toccano. Per questo la forma sintattica stessa della proibizione ha qualcosa di paradossale: perché non solo i trasgressori, ma anche i loro controllori sembrano segretamente attratti nel vortice di ciò che non si fa, ma invece.
Non ci si mette le dita nel naso.
Non si dicono le parolacce.
Non si parla nell’orecchio quando si è in pubblico.
Non si fanno rumori sconvenienti.
Non si va addosso alla gente quando si cammina.
Non si parla con il telefonino al cinema.
Non si va in bicicletta sui marciapiedi.
Non si lascia la macchina in seconda fila.
Non si dicono le bugie.
Non…
Le proibizioni dicono “questo non si fa” di qualcosa che invece si fa. Eccome.
Si fa, ma non si adisce
Fra il 1977 e il 1993 la rubrica quotidiana di cruciverba del “New York Times” è stata tenuta da un severo pedagogo di nome Eugene T. Maleska. Alla fine della sua carriera, Maleska pubblicò in un libro (Crosstalk, “Chiacchiere all’incrocio”) una scelta delle lettere che aveva ricevuto dai solutori dei suoi cruciverba. Molte di queste lettere vertevano su errori, veri o presunti, commessi da Maleska il quale, avendo una considerazione non proprio bassa della propria cultura e della propria intelligenza, rispondeva a tono. Aveva fondato il club Gotcha (ovvero “Ti ho beccato!”), con tanto di tessera associativa e carta intestata: l’iscrizione al club era il premio per il lettore che realmente avesse colto Maleska in errore. Non conosco i dati statistici, ma non credo che il club fosse particolarmente popoloso.
Beato Maleska, così sicuro di sé! Io invece conosco bene quel rossore che si manifesta quando ci si accorge o si ricorda di aver detto uno sproposito. Scrivendo sui giornali; scrivendo per lo più su temi che riguardano la lingua; tenendo inoltre una rubrica intitolata Lapsus che segnala modi di dire, tormentoni e usi linguistici anche devianti che diventano di moda è inevitabile, per me, essere oggetto delle più minuziose attenzioni da parte dei lettori. È naturale che esista la reciprocità, chi mostra le pagliuzze altrui espone le proprie travi al ludibrio del suo prossimo.
È anche abbastanza ovvio che non occorra essere somari patentati per commettere errori, soprattutto perché con i tempi e i modi attuali della produzione e della pubblicazione di scritti la correzione degli errori e il controllo della qualità sono sempre più rapidi, sempre meno importanti. Questo non scusa nulla, ma forse spiega qualcosa.
Un esempio. Per dire che ci si rivolgerà alla giustizia si possono usare diverse espressioni, dal formale al colloquiale: portare in tribunale, denunciare, querelare, citare in giudizio, andare per avvocati e simili. Il modo di dire più formale e sussiegoso è, probabilmente, “Adire le vie legali”. Sarebbe corretto anche “Adire la magistratura”, “Adire il giudice”, “Adire il tribunale” ma in uso pare rimasto solo “Adire le vie legali”.
Una volta mi è capitato di scrivere “Adire alle vie legali”. L’ho scritto, non l’ho corretto dopo averlo scritto, non me l’hanno corretto in redazione, è uscito. Come è potuto succedere? Andavo di fretta, il telefono squillava in continuazione, quel giorno il mio odontoiatra ci aveva preso particolarmente gusto, non ricordo. Ricordo però di non averla passata liscia. Il Gotcha che ha fatto traboccare il vaso è stato, in particolare, un lettore che mi ha scritto:
Anche lei è caduto nell’errore di molti, che dicono “Adire alle vie legali”, mentre in italiano si dice “Adire le vie legali”.
Quanta sconsolazione, in quell’“anche lei”! Come avrò mai fatto a illudere, in passato, così tanto da causare il percepibile tonfo di tale disillusione?
L’errore è errore; il verbo adire non funziona come ricorrere, al contrario di quest’ultimo è transitivo; non c’è discussione su questo e mi sono scusato con il lettore per la mia svista. Nella sua correzione c’è qualcosa, però, che non torna. Molti dicono x, mentre in italiano si dice y.
Molti dicono metereologo, anziché il corretto meteorologo, così come molti pronunciano interpetrare anziché il corretto interpretare. Comunemente si dice il pneumatico e i pneumatici, mentre la grammatica ammette come forme corrette solo lo pneumatico e gli pneumatici.
Suicidare è un verbo che si usa quasi esclusivamente in forma riflessiva (Anna Karenina si è suicidata, Gino Paoli ha tentato di suicidarsi). Eppure per etimologia, e anche per senso, significa “uccidere sé”, così come adire significa “andare verso”. Se adire non ha bisogno di preposizioni, suicidare non dovrebbe avere bisogno di pronomi: la parola suicidarsi dovrebbe essere avvertita come un errore quasi quanto il classico a me mi. Eppure chiunque riterrebbe lacunosa una frase come “Pavese suicidò”. Suicidare viene addirittura usato in modo lugubremente ironico, per “uccidere qualcuno simulandone il suicidio” (come quando si insinua che “Michele Sindona è stato suicidato in carcere”).
Allora adire a, metereologo, interpetrare, il pneumatico, i pneumatici, suicidarsi si dicono o non si dicono? La scarpetta si fa o non si fa?
Apriamo la Bibbia, libro dell’Ecclesiaste, che se volete apparire elegantemente down to date chiamerete con il nome originale ebraico, Qohelet:
Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Bello, no? E anche vero. Ogni volta che leggo queste parole mi viene voglia di fare un test e di chiedere a ciascuno: che effetto ti fanno? Ti sembrano parole scontate, oppure no?
La mia impressione è che sappiamo benissimo che esiste un tempo, un luogo, un contesto in cui bisogna fare ics e un tempo, un luogo, un contesto più adatti per ipsilon. A fregarci non è la teoria, è la pratica: e sappiamo che val più la pratica di quella parola che fa rima con pratica, e non è natica e neppure diplomatica.
Ecco, per esempio. Ho appena usato il verbo fregarsene. Sto scrivendo, la stanza ha la finestra aperta, sento voci arrivare dalla piazza sottostante, scrivo senza pensarci troppo. Domani rileggerò quanto sto scrivendo ora. È possibile che allora avverta una stonatura, e sostituisca fregarci con una forma più neutra: inguaiarci, indurci in errore… Magari nel cercare una forma più neutra mi renderò conto che non volevo dire quel che ho detto, cambierò idea radicalmente, mi metterò a scrivere qualcos’altro. O forse invece troverò che fregarci “ci sta”, anche se non sono il tipo che in un libro impreca (sentiste all’orale, invece). Potrebbe poi succedere che quando consegnerò all’editore il primo videoscritto (questa la forma aggiornata di manoscritto, dattiloscritto…) nel corso dell’usuale e preziosa revisione mi venga suggerito di cambiare verbo e allora ne discuterò con i miei interlocutori. Può darsi che la parola esca nel libro così come l’ho scritta (è ormai la cosa più probabile, perché mi sto dilungando a commentarla e per sostituirla dovrei riscrivere tutto il paragrafo) e che mi venga rimproverata dopo da chi leggerà il libro: un parente, un amico, un lettore che mi incontra a una presentazione o mi scrive una lettera, un critico in una recensione. Oppure nessuno mi dirà alcunché, ma una sera, in un salotto, mentre vado verso il buffet fendendo la folla di coppie danzanti, qualcuno mi indicherà con gli occhi a qualcun altro mormorando: “Quello è uno che ha usato il verbo fregarsene in un suo libro”.
Dal punto di vista dell’autore, un libro è un album di fotografie invecchiate. Ci sono quelli che vanno a vedere le foto del liceo per ricordarsi di come si vestivano, di come si acconciavano i capelli, di come erano i loro amici di allora. Altri che preferiscono controllare come usavano gli avverbi, che giri di frase imbastivano. Dopo anni uno si trova a dirsi: ma guarda, non mi ricordavo di avere quella sciarpa e(/o) quella citazione di Pirandello… È un gioco atroce. Se non siete stilisti sopraffini e sempre sicurissimi di sé nei vostri vecchi album troverete sicuramente qualcosa che vi fa sobbalzare: un dettaglio, un accessorio, un abbinamento di colori, un’allitterazione allappante, un fregarsene.
Fregarsene è un verbo particolarissimo della lingua italiana. Fregare, come tutti sanno, significa “strofinare energicamente”. Tutti sanno anche che si usa in senso metaforico per “rubare, impossessarsi di qualcosa in modo illecito”. Quello che è meno comune sapere è che il significato di “rubare” deriva probabilmente da quello di “possedere sessualmente” che il verbo ha avuto in passato (significava, quindi, “strofinarsi l’un l’altro”? Un modo di vedere le cose quasi poetico!). Da questa antica e dimenticata accezione viene anche il significato di “non dare importanza”, ossia “infischiarsene”. “Francamente, me ne infischio” diceva Clark Gable in Via col vento. Questa, almeno, la famosa battuta nella traduzione italiana: l’originale era più forte, equivaleva a “Me ne frego” (I don’t give a damn). I produttori del film dovettero pagare una multa, a causa di questa espressione colorita. A questo libro ciò non dovrebbe capitare, ma ancora oggi fregarsene è un modo di dire considerato maleducato. Lo usa chiunque, ma non è sempre accettabile. Forse il Qohelet oggi direbbe: “C’è un tempo per fregarsene e un tempo per essere fregato”. O qualcosa del genere.
L’insegnamento del Qohelet non è tra quelli meno saggi offerti dalla Bibbia e, sempre secondo il mio poco teologico parere, non è più neppure tra quelli meglio applicati. Abbiamo parlato di abbigliamento e di linguaggio. Incominciamo con l’abbigliamento.
Una volta, pochi anni fa: giacca e cravatta in ufficio, le donne in tailleur, le bambine con la vestina, con i maschietti si poteva arrivare sino al cravattino. Scarpe da tennis, solo sui campi da tennis.
Era un sistema troppo rigido? Probabilmente sì, ma quest...