Era santo, era uomo
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Era santo, era uomo

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  1. 192 pagine
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Era santo, era uomo

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Che papa Wojty?a amasse la montagna e sentisse come particolarmente congeniale il paesaggio delle alte quote è risaputo. Di questo eccezionale rapporto del Santo Padre con quella parte del creato Lino Zani è stato testimone e "complice": dapprima come suo maestro di sci e guida alpina, poi come compagno di "fughe" verso le cime. Negli anni Zani ha condiviso con il pontefice parentesi di vita attiva e contemplativa, solitaria e intensa, ma sempre incredibilmente intrisa della personalità di quell'uomo che ha scosso le coscienze di molti in tutto il mondo. Per lungo tempo l'alpinista ha custodito i ricordi di quella esperienza, in un silenzio che in queste pagine scioglie per condividere con noi il privilegio di aver accompagnato il papa nei suoi momenti di maggiore libertà. A rendere ancora più preziose le parole di Zani, un aspetto inedito: il racconto di come Giovanni Paolo II abbia acquisito, proprio grazie all'esperienza delle vette, piena e chiara consapevolezza del senso della propria esistenza e del proprio destino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852019173

V

Segnali di santità

Nel mese di settembre, un paio di mesi dopo l’incontro sull’Adamello, io e mio fratello Franco ci recammo a Roma per salutare il papa in Vaticano, anche se l’appuntamento era stato organizzato in via informale e frettolosa grazie all’intercessione del fedele don Stanislao. Rivederlo fu bellissimo: noi eravamo molto emozionati e lui, di ottimo umore, ci regalava una battuta dietro l’altra, ci intratteneva con la sua sottile ironia. Restammo una mezz’oretta… poi venimmo a sapere che per stare tutto quel tempo a colloquio con noi aveva dovuto fare attendere un capo di Stato africano. Andammo via con il cuore leggero, pensando: “È proprio bello avere un papa per amico”. Ancora più emozionante fu l’incontro che avemmo con lui poco prima del Santo Natale di quel 1984. Verso metà dicembre arrivò una telefonata in cui ci veniva comunicato che il Santo Padre avrebbe gradito una nostra visita nei suoi appartamenti privati per una Messa dell’Avvento e per uno scambio d’auguri. Fu specificato che desiderava incontrare tutta la famiglia.
Iniziarono i preparativi. Abbigliamento adeguato, organizzazione del viaggio e del soggiorno per una decina di persone. Oltre a me, mamma Carla e papà Martino, vennero infatti mio fratello Franco, sua moglie, l’altra sorella Renata insieme al marito, la sorella più piccola Miriam. Il giorno era il 22 dicembre e l’appuntamento era fissato per le 7 del mattino. La sveglia per noi suonò due ore prima, anche se eravamo vicinissimi al Vaticano, alloggiando in un albergo di via della Conciliazione. Eravamo tutti molto emozionati. Una cosa era stato assistere alla Messa detta lì in casa nostra, semplice come una preghiera in famiglia, una benedizione pasquale. Un’altra era essere ammessi alla liturgia ecclesiastica più importante del mondo, lì nel cuore della criastianità. Cosa avremmo dovuto dire e fare, come dovevamo sederci, quando parlare, come muoverci per avvicinarci a lui e all’Eucarestia. Tutto ci sembrava complicato, tutto fu invece bello, solenne e semplicissimo.
Entrammo dal Portone di bronzo, posto a destra del Colonnato, salimmo il grande scalone di pietra e passammo al vaglio delle Guardie Svizzere, vestite nella loro colorata e originalissima divisa. Transitammo per il cortile di San Damaso, un luogo di grande suggestione che ha visto passare re, regine e capi di Stato di tutto il mondo. Salimmo al terzo piano del palazzo apostolico e percorremmo tutta la galleria di sinistra, quella della Terza Loggia. Da lì accedemmo alle stanze private del papa. Entrammo attraverso una porta in un ampio vestibolo da cui si accedeva in un salone posto vicino alla biblioteca privata. Ci fecero attendere nel piccolo ufficio riservato a don Stanislao. Fu proprio lui ad accoglierci e dopo festosi saluti ci introdusse nello studio privato del papa, la stanza dalla quale si affaccia ogni domenica per recitare l’Angelus e impartire la benedizione Urbi et Orbi.
Siamo poi entrati nella cappella privata posta vicino alla sua stanza da letto. Lui era già pronto con la veste bianca e i paramenti sacri di colore verde. Silenziosamente prendemmo posto. Oltre a noi erano presenti una ventina di sacerdoti di varie nazionalità, che stavano per partire per terre di missioni. Se mi si chiedesse com’è la Messa mattutina del papa e quali procedure segue, oppure quanto dura, risponderei che è una cerimonia religiosa improntata alla massima semplicità, eppure intensissima..
Nessuna traccia di imposizione protocollare, nessun imbarazzo, all’improvviso ci si accorgeva che risultava del tutto naturale ritrovarsi assorti, ben concentrati nel guardarlo, attenti a seguire i suoi movimenti e ciò che di spirituale trasmetteva. Unica particolarità, in quelle Messe non c’era omelia, nessuna predica, nessun argomento, nessun discorso. Prima della Consacrazione Eucaristica il papa si raccoglieva in una preghiera silenziosa, in una meditazione assorta. Un momento di intensa astrazione che assomigliava, anche se in forma meno pronunciata, a quel che io avevo visto lassù sulla cima del Passo di Lares, quando si era seduto su quel masso.
Molte volte specie in questi giorni, nell’imminenza della sua Beatificazione mi sono interrogato su quali fossero i segnali della sua Santità. Ho cercato di metterli a fuoco, indugiando a lungo sui ricordi per meglio comprendere. Mi sono sforzato di farlo con lucidità, con spirito di osservazione e razionalità, senza farmi prendere dall’enfasi del sentimento. Ebbene posso asserire con piena consapevolezza che uno dei segni che io ho riscontrato era proprio ciò che lui riusciva a trasmettere a chi ha avuto l’immenso privilegio di assistere a quelle sue intense, sofferte, pregnanti sedute di preghiera. Era come se agganciasse i cuori degli astanti, se cambiasse l’assetto del tempo e delle condizioni della realtà circostante. Faccio un esempio: potevano essere pochi minuti o anche ore, ma dopo si aveva la percezione che tutto fosse scorso veloce come un lampo. A permanere per tutto il giorno e anche molto di più era invece una sensazione di pace, di galleggiamento sereno su tutte le cose della vita lasciate in sospeso. Era come se si fosse riusciti a prendere le distanze dalle problematiche, dalle ansie, dalle preoccupazioni pur senza averle dimenticate.
Ecco: l’effetto primario di quella sua santità era quello trasmettere un fiotto di coraggio sconosciuto per affrontare la propria vita comunque fosse. Per un po’ dopo essere stati con lui, si diventava impavidi, impermeabili al male dei dolori, indenni dalla paura.
NON ABBIATE PAURA! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo…”
Ricordate ce lo aveva già detto in quella domenica 22 ottobre del 1978. Finita la Messa fummo fatti uscire dalla cappella privata e accompagnati in una stanza prospiciente la sala da pranzo. Il papa si cambiò, congedò gli altri ospiti e ci raggiunse salutandoci uno a uno molto calorosamente, poi ci disse che desiderava che facessimo colazione tutti insieme.
Entrammo così nell’attigua sala da pranzo già apparecchiata. Era presente, naturalmente, anche don Stanislao. Ci fu servito latte, caffè o tè, accompagnati da alcune squisite torte fatte in casa dalle tre suorine polacche della Congregazione del Sacro Cuore, che con la loro superiora Tobiana Sobodka, si sono sempre amorevolmente e discretamente occupate della cura di Giovanni Paolo II. Furono proprio loro a servirci a tavola, premurose ma silenziose e lievi come dei veri angeli custodi. Come sempre avrebbe fatto in seguito, il papa s’interessò a tutti noi, chiamandoci per nome e chiedendo notizie e ragguagli sulla vita di ciascuno. Volle sapere come andassero le cose, il lavoro e la vita lassù in montagna. Ci chiese come avremmo trascorso le festività natalizie e si soffermò con evidente piacere a ricordare l’Adamello, anzi il “nostro Adamello” come avrebbe sempre detto da allora in avanti. Uscimmo dalla Città del Vaticano con la sensazione di avere sognato: la nostra famiglia intera a colazione con papa Wojtyła, forse l’uomo più amato del mondo. Avere potuto conversare con lui come se fosse un membro della famiglia ci sembrò davvero frutto di una straordinaria predilezione. Mia mamma, mia cognata, il papà si lasciarono andare a lunghi ed entusiastici commenti sulla solennità dei luoghi appena visitati, sulla bellezza unica dei palazzi e dei loro interni.
Tutto vero… ma in seguito avrei saputo dalla viva voce del “mio” papa come quella sede ricca di storia e di magnificenza rappresentasse, a volte, anche una vera prigione per lui. In Vaticano il successore di Pietro esercitava la sua missione di Sommo Pontefice con abnegazione totale, ma l’uomo ritrovava durante quei momenti di riposo e contemplazione sulle montagne, la più autentica vicinanza spirituale a Dio. È stato dunque un immenso privilegio poter essere stato testimone e compagno dei suoi viaggi in montagna, in cerca del soffio impetuoso della libertà, ma anche dell’essenziale, del suo rapporto più autentico con Dio.
All’inizio della primavera del 1988 tornai da lui perché ero in procinto di partire per un’importante spedizione in Asia: in programma c’era la scalata del Cho Oyu, una montagna di 8000 metri situata al confine tra il Tibet e il Nepal, a pochi chilometri dall’Everest. Arrivai in Vaticano al mattino e di nuovo fui ammesso nei suoi appartamenti per l’ascolto della Messa nella cappella privata. Poi conversammo a lungo su quella mia prossima impresa. Era molto incuriosito dal mio viaggio e mi domandò in che modo avrei affrontato la scalata e come mi fossi preparato. Voleva sapere anche perché avessi scelto proprio il Cho Oyu.
Gliene parlai ampiamente spiegandogli che era la sesta montagna più alta del mondo, ma soprattutto che presentava caratteristiche molto affascinanti per i suoi colori mozzafiato e i panorami che offriva durante la salita. Per questo era denominata anche la “Dea Turchese”. Spiegai che una volta raggiunto il plateau terminale a circa 5650 metri di altezza si poteva osservare da vicino il meraviglioso versante nord dell’Everest. Mi chiese anche dei pericoli che presentava la scalata. Gli riferii che il più grande pericolo poteva essere costituito dalla facilità con cui ci si poteva perdere in caso di nebbia o di scarsa visibilità, dai 5000 metri in su, nella parte del plateau terminale. Superata una fascia rocciosa iniziale, infatti, seguiva un terreno piuttosto piatto e tutto uguale con scarsi di riferimenti visivi, cosa che poteva confondere e far perdere lucidità nello scegliere il cammino. Gli spiegai che come tutte le montagne himalayane quel gigante non era da sottovalutare, affrontarlo richiedeva un opportuno allenamento, acclimatamento e preparazione tecnica. Mi ascoltò con grandissimo interesse, direi quasi con un pizzico di invidia, si vedeva che gli sarebbe piaciuto in un altro tempo, in altre circostanze essere al mio posto. Avrei saputo in seguito di quanti ricordi lo legassero ai monti Tatra, in Polonia. Mi raccontò delle sue vacanze in campeggio, del fatto che fossero vacanze miste, cosa molto inconsueta per quei tempi e in che modo proprio quelle atmosfere rupestri gli avessero ispirato il dramma teatrale La bottega dell’orefice.
Mi avrebbe anche parlato, con una certa punta d’orgoglio, della destrezza sua e dei suoi amici nello scendere in canoa sulle rapide dei torrenti, che da quelle parti sono numerosi e impetuosi. Ma di questi suoi ricordi avrei appreso negli anni seguenti, quando il nostro rapporto era ormai fondato su una certa confidenza. Quel giorno, invece, dopo un lungo momento di riflessione e di silenzio, mi disse: «Su quella montagna porterai e pianterai una croce che ti darò. Da adesso in poi tu sarai il nostro “apostolo delle montagne”. Devi portare una croce sulle montagne più alte e più belle del mondo. Portare la croce di Gesù sulle montagne dovrà essere la tua missione».
Restai molto colpito da quelle parole, ammutolii, non sapevo che cosa rispondere. Ma lui, come al solito, non perse tempo e passò ai fatti. Mandò subito a prendere un astuccio verde da cui estrasse una croce alta più o meno venti centimetri. La benedisse e me la porse. Mi salutò, raccomandandomi di essere prudente e di fargli avere mie notizie non appena fossi rientrato in Italia. Dopo tre mesi gli feci avere mie notizie. Avevo superato la fatica, il freddo, le bufere e temperature di cinquanta gradi sotto zero. Avevo passato giorni e notti bloccato a quota 6000 o 7000 metri, con il vento che m’impediva anche solo di mettere il viso fuori dalla tenda. Avevo pensato, come sempre accade, di desistere eppure mi ero convinto – e anche questo è un “clic” che scatta sovente nella mente degli scalatori – di giungere alla meta, arrivare comunque alla fine. A quota 8201 avevo provato un’ebbrezza infinita, avevo salutato la parete nord-est dello Shisha Pangma e di fronte a me c’era l’Everest…
In cima al Cho Oyu piantai una croce su un tripode che i cinesi avevano piazzato nel punto più alto. La poggiai e mi parve che il papa, con la sua presenza immateriale eppure vivissima dentro di me, stesse di fianco a guardarmi. Mi feci fare una bella foto di quel momento irripetibile. E, di ritorno, andai a Roma e gliela consegnai. Il papa, piuttosto emozionato, mi disse: «Hai visto, ci sei riuscito. Ora sei diventato davvero l’“apostolo delle montagne”!».
Talvolta il papa in inverno, si è recato a sciare, anche solo per una giornata, sui monti d’Abruzzo, a Pescasseroli, a Ovindoli oppure sul vicino Monte Terminillo.
Anche a me è capitato d’accompagnarlo, ci mettevamo subito gli sci ai piedi e iniziavamo a sciare andando avanti per ore, con qualsiasi tempo, con un piacere grandissimo. Il più delle volte le poche persone che incontravamo neppure riconoscevano il papa, vestito sportivamente e con gli occhi celati dagli occhiali da sole. Di tanto in tanto succedevano cose davvero buffe. Ricordo una mattina in cui nel prendere lo skilift incrociammo un paio di volte un bambino di otto o nove anni. Lui continuava a osservare il papa che ricambiava con un dolce sorriso. A un certo punto dopo due o tre discese il bambino ci affiancò e gli chiese direttamente: «Ma tu sei il papa?».
E lui: «Sì, vuoi sciare con me?».
Continuarono a risalire uno dietro l’altro sui seggiolini diverse volte, mentre io, a debita distanza, mi godevo lo spettacolo incredibile senza intervenire. Ricordo che, a un certo punto, il ragazzino si avvicinò alla mamma, seduta su una sedia a sdraio a prendere il sole giù al fondovalle, dove si trovava la base dell’impianto di risalita, e le gridò: «Mamma, sai che sto sciando col papa?».
La signora naturalmente scosse la testa… E Giovanni Paolo II, divertitissimo, a fine mattinata si volle avvicinare per salutarla… Non dimenticherò mai la faccia sbalordita di quella signora, ancora oggi avrà il dubbio di aver sognato tutto!
Non erano sogni, ma momenti intensissimi di preghiera e meditazione, invece, quelli che ho visto ripetersi tante e tante volte, sempre in montagna e sempre in seguito a una sua decisione improvvisa. Era magari allegro, brioso, corroborato dalle nostre sciate, ma all’improvviso cambiava espressione, si rabbuiava, come se qualcosa lo preoccupasse moltissimo. Come al solito il Santo Padre parlava in polacco a don Stanislao e questi mi chiedeva: «Lino, cerchiamo un posto adatto, Giovanni Paolo, come alle volte semplicemente lo chiamava, vuole stare un po’ per conto suo».
Di solito preferiva angoli affacciati su una vista che potesse spaziare verso l’orizzonte e si metteva al cospetto dell’infinito. E sempre tornava quella sofferta e sentita immobilità, quella capacità di concentrazione ascetica che non ho mai visto mantenere così a lungo da nessun altro essere umano. Credo che in quei momenti, a cui silenziosamente e con profondo rispetto ho assistito, avesse delle vere e proprie visioni profetiche. Alle volte il papa usciva infatti da queste meditazioni con il volto molto turbato, in gran pena, come preda di una preoccupazione sopraggiunta. In quei casi si avvicinava subito a don Stanislao e ancora una volta si confidava con lui a voce bassa e nella loro lingua.
Ricordo una circostanza precisa e drammatica in cui una volta assistetti a quella scena. Lo vidi riemergere da quella sua specie di “estasi” in grande agitazione, provato, davvero molto preoccupato. Si appartò a lungo con don Stanislao, poi rientrammo velocemente in casa. Era estate, erano in vacanza e io li avevo raggiunti. Ormai sapevo e compresi subito che qualcosa di negativo sarebbe accaduto…
Da lì a poche ore l’esercito iracheno invase il Kuwait con centomila uomini e trecento carri armati, vincendo in poche ore ogni resistenza dell’Emirato.
Lo sceicco e sovrano dello Stato, Jaber Al-Ahmed Al Sabah, riparò con la famiglia in Arabia Saudita, mentre suo fratello Fahd rimase ucciso insieme ad altre duecento persone. Di fatto era iniziata la Guerra del Golfo. Allora non mi posi troppi interrogativi. Iniziai piuttosto a osservare e accettare tutto quello che accadeva sotto ai miei occhi con naturalezza e anche con spirito di fede. Oggi che diversi miracoli gli sono stati riconosciuti e attribuiti non ho più dubbi: in quei momenti l’uomo a cui ero legato da grandissimo affetto, non era più un semplice uomo, ma si “esercitava” a fare il santo e la preveggenza, come si sa, è una delle virtù dei santi.
Del resto ben altro mi sarebbe accaduto negli anni a venire. Per due volte il Santo Padre mi ha salvato la vita, ma di questo parlerò più avanti. Dopo quella prima vacanza in Adamello ogni anno Giovanni Paolo II aveva preso l’abitudine di fare alcuni giorni di vacanza in montagna, scegliendo spesso Lorenzago di Cadore e anche la storia di questo ridente centro vicino al Passo della Mauria è legata alla prima guerra mondiale. Quel territorio, infatti, che costituisce la via d’accesso dal Veneto al Friuli, fu sanguinoso teatro della difesa armata dei cadorini nei confronti degli austriaci. Ogni estate, in quelle occasioni, io lo raggiungevo ricomponendo il gruppo che lui chiamava la “famiglia”: don Stanislao, monsignor Taddeo, Luciano Cibin e Angelo Gugel e spesso anche Arturo Mari, il suo fotografo personale, che con delicatezza e discrezione fissava su pellicola momenti così intensi e felici.
Il papa prendeva alloggio nel Castello di Mirabello, situato nel bosco sovrastante il paese, in una posizione bellissima. Da lì partivamo per escursioni bellissime verso il Passo della Mauria dove ci sono le sorgenti del fiume Tagliamento e verso sud, dove si erge una delle più alte vette dell’area cadorina, il Monte Cridola. Particolarmente cara al Santo Padre era anche la deliziosa chiesetta cinquecentesca della Madonna della Difesa. Era stata eretta come voto contro gli effetti della guerra contro Massimiliano d’Austria e contro una terribile pestilenza dei primi anni del 1500. Lui sapeva che in quelle occasioni ogni volta che arrivavo gli portavo un dono particolare: un paio di scarponcini da trekking sempre diversi. Sempre all’avanguardia per l’assetto tecnico e l’impiego dei pellami o di altro materiale specifico per camminare e scalare.
Calzava il numero 45 e io ci tenevo molto a scegliere il modello più confortevole e innovativo presente sul mercato dell’abbigliamento per la montagna. Ricordo i suoi occhi mentre scartava la “sorpresa”: era felice come un bambino e rammento anche con quale entusiasmo decidesse di indossarli subito. Una volta, in inverno, gli regalai invece un paio di sci che davvero l’hanno reso orgoglioso. Un’azienda ne aveva brevettato un modello ipertecnico. Erano monoscocca, completamente diversi dagli sci tradizionali. La novità consisteva in un accorgimento che sfruttava il carico dello sciatore in assetto aerodinamico dall’alto verso il basso, facendo guadagnare in velocità e sicurezza. Ne avevamo fatti costruire un paio “papali”, completamente bianchi, e ricordo sempre che volle provarli presto, la settimana successiva. Altra sua meta preferita era Entrèves in Val d’Aosta, dove veniva invitato dal vescovo del capoluogo, ben sistemato in una piccola casa in posizione soleggiata e felice. Da lì, da un’altitudine di circa 1300 metri partivamo per le escursioni verso il Monte Bianco, verso le ridenti Val Veny e Val Ferret. All’ora di pranzo facevamo sempre sosta presso una baita per un frugale spuntino e lì, rinvigoriti dal cibo e da un buon bicchiere di vino, intonavamo spesso dei canti di montagna. Il papa amava in particolare una canzone popolare che può considerarsi un po’ l’inno della montagna. Sento ancora nelle orecchie la sua bella voce impostata e intonata armonizzare: “Quel mazzolin di fiori, che vien dalla montagna…”.
Quei cori di montagna gli facevano tornare in mente le sue vacanze da ragazzo fatte insieme agli amici. Quella stessa atmosfera calda e informale, l’affetto tra persone che si sentono tra loro ormai affiatate, che trovano nella bellezza della natura la spinta a creare un’intesa ideale fatta di complicità e forte senso d’appartenenza.
Era così rincuorante, bello e istruttivo vedere come godesse di quelle piccole, semplici delizie della vita, come avrebbe fatto un uomo qualunque e non un papa e futuro santo. In quegli anni, come ho già detto, la mia vita era stata improntata alla sana gioia di vivere, tipica in un giovane uomo con tante energie, progetti e vitalità. Un’esuberanza che mi ha portato a essere molto vivace anche sentimentalmente, per dirla in breve accanto a me in quegli anni c’erano spesso donne diverse. Belle ragazze, che frequentavo per un periodo e che poi con l’arrivo di una nuova conquista scomparivano. Non ne facevo mistero, in fondo ero libero da qualsiasi vincolo e come spesso accade mi sembrava che la “prossima” sarebbe stata sempre meglio di quella precedente! In tutta sincerità di questo aspetto della mia vita personale ne parlavo spesso anche con il papa, lui era il mio confessore, il mio confidente e anche il mio padre spirituale. Ricordo che sovente andando a Roma a trovarlo mi portavo dietro la fidanzata del momento. Lui, affabile e paterno, ci accoglieva estendendo anche alla ragazza la sua benedizione. Ma sempre, dico sempre, la volta successiva mi prendeva da una parte e mi rivolgeva la stessa domanda:
«Ma quella ragazza non era la stessa della volta precedente, vero?».
E io: «Santo Padre, credo che questa sarà la volta buona, sono innamorato vedrà…».
Con un sorriso bonario, rispondeva: «Lino… Lino, ma quand’è che metterai la testa a posto?».
In questa sua affettuosa ma ferma esortazione a mettere la testa a posto e quindi a formarmi una mia famiglia c’era tutto il “pastore di anime”, ma anche l’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Era santo, era uomo
  3. Prologo
  4. I. Sulle tracce di un segreto
  5. II. Un giusto “rifugio” per il papa
  6. III. Due amici sulla neve: il papa e Pertini
  7. IV. Il silenzio della preghiera
  8. V. Segnali di santità
  9. VI. La croce di granito a contatto con il cielo
  10. VII. Pregando al Polo Nord
  11. Cronologia degli eventi
  12. Inserto fotografico
  13. Copyright