Libero chi legge
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  1. 336 pagine
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Libero chi legge

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Citazioni

Informazioni sul libro

Herman Melville, Edgar Lee Masters, Jack Kerouac, Ernest Hemingway, Charles Bukowski, J.D. Salinger. Ma anche Raymond Carver, John Fante, Kurt Vonnegut. Fino a Philip Roth, Chuck Palahniuk, Don DeLillo, Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Jonathan Safran Foer...
Questo è un libro sulla libertà, la libertà che si conquista attraverso la lettura. E questi sono i suoi alfieri disarmati, i suoi profanissimi santi protettori. Questo è un libro sui libri, un'ultima lezione di Fernanda Pivano a tutte le nuove generazioni, un testamento di speranza proiettato verso il futuro. È la biblioteca ideale della Nanda, i cento titoli che i ragazzi di tutte le età dovrebbero leggere per scoprire, godere, crescere, ognuno descritto da una scheda introduttiva. In alcuni casi sono riprodotti gli originali (e inediti) giudizi di lettura.
Era il 1957 quando Fernanda Pivano, giovane come è sempre stata, in un giudizio di lettura caldeggiò con forza e passione la pubblicazione di On the Road, scritto da un allora sconosciuto Jack Kerouac: "Il libro non è forse un capolavoro ed è pieno di difetti... Eppure c'è qualcosa di strano: forse è davvero il libro della nuova generazione". Da allora la mitica Nanda non ha mai smesso di combattere per promuovere tutto quello che sapeva di nuovo, di libero, di rivoluzionario, per contagiare tutti con la sua passione. Con un progetto sempre chiaro in testa, che questo libro riassume e realizza: "Tutti i miei testi sono soltanto lettere d'amore; se scuotono dall'indifferenza qualcuno e lo inducono a interessarsi ad almeno uno dei libri descritti e al loro autore hanno raggiunto il loro scopo".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852019487

LIBERTÀ DALLA MORALE

Edgar Lee Masters

Antologia di Spoon River

Ah, questo Spoon River. Ce l’ho nel cuore dal giorno in cui me l’ha consegnato Cesare Pavese. Mi aveva chiesto cosa stessi facendo e quando ha sentito che mi stavo laureando su un poeta inglese, nientemeno che Shelley, mi aveva fatto la domanda fatale che mi ha trasformato la vita: “Perché non in Letteratura americana?”.
Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri, ognuno avvolto in un foglio di carta da pacchi arancione e il titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman, l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters.
Chi lo sa se questo libro l’ho capito. Chi lo sa se ho capito i quasi cinquanta epitaffi che Masters ha scritto per narrare la storia di ciascun abitante di Spoon River sepolto sulla leggendaria collina. Ma non ho mai smesso di amarlo, questo libro, e di pensare che stava cambiando il pensiero dei ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo, verso la libertà, verso la fiducia nei valori morali soffocati da un mondo che cercava di impadronirsi delle nostre anime.
Un mondo di illusioni e di gradassate, dove il tono era sempre un po’ troppo alto, un po’ troppo coperto da trombe con l’altissimo, di immagini troppo trionfalistiche di una realtà trasfigurata in un’ansia di potere degenerata spesso in ansietà estranee ai nostri cuori.
Ma fascismo o non fascismo io ero una bella bambina mica tanto cretina. Forse Pavese si divertiva a sentire che cosa diventavano quei versi immortali nelle parole di una bella bambina mica tanto cretina. Quello che pensavo e non osavo dirgli avevo cominciato a scriverlo sui quaderni della scuola svizzera, che avevo ancora sul mio tavolo. E insieme avevo cominciato, senza sapere ancora che esistevano i traduttori, a tradurre senza vocabolario poesie che ormai mi presentavano i problemi di un altro modo di vivere.
A incantarmi era stata la poesia di Francis Turner, ve la ricordate?
Io non potevo correre né giocare
Quand’ero ragazzo...
Eppure giaccio qui
Blandito da un segreto che solo Mary conosce:
C’è un giardino di acacie...
Là, in quel pomeriggio di giugno
Al fianco di Mary
Mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
L’anima d’improvviso mi fuggì.
Mah. In quel mondo cinico e materialista del tempo l’idea che si potesse ancora morire per un bacio era a dir poco seducente per una bambina che i baci li aveva soltanto sognati. E questa antologia l’avevo letta tutta di seguito nella nuova ansia di riconoscere il dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile. E per riconoscerli meglio mi sono messa a tradurre questi versi.
Ma tutto prevedevo tranne che un giorno Pavese, mio insegnante di Letteratura comparata, prendendo in mano un mio quaderno, lo avrebbe sfogliato e letto. Poi mi aveva guardato con quel suo viso sempre drammatico e mi aveva detto soltanto: “Ah!”.
Si era messo il quaderno nella borsa e due giorni dopo era tornato col contratto di Giulio Einaudi, il primo del migliaio di contratti arrivati da lì in poi, dicendomi che voleva leggere quelle poesie via via che le traducevo.
Chissà se Pavese si è mai reso conto che in quel momento mi aveva indicato le vie del mio destino, chi lo sa. Però così è stato. Quel suo “Ah!” non me lo sono mai dimenticato.
Dell’autore Edgar Lee Masters non si sapeva niente, neanche che per vivere faceva l’avvocato di provincia. Per ottenere l’autorizzazione del Ministero della cultura popolare, Cesare Pavese aveva richiesto il permesso di pubblicare una antologia col titolo Antologia di S. River. E all’antologia di questo nuovo santo il permesso era stato accordato.
Pavese mi aveva scritto: “L’incredibile è avvenuto”.
Il libro era uscito in un’edizione ancora non integrale nel marzo 1943: Pavese mi aveva portato la prima copia in un caffè di Torino di fronte alla stazione. Io arrivavo da un paese, lui da un altro.
Avevamo tutti e due gli occhi un po’ lucidi, mentre stavamo lì in piedi a guardare quel libretto smilzo che era solo una scelta dell’antologia, con la copertina bianca orlata di verde pallido e la carta un po’ ruvida sotto le mani intirizzite dal freddo. Poi Pavese era ripartito per il suo villaggio, io per il mio; col mio libretto smilzo sotto il cappotto, senza sapere che pochi giorni dopo avrebbe cominciato a circolare con un ritmo da bestseller e molti ragazzi avrebbero potuto accostarsi a queste poesie con la loro speranza, il loro sogno, la loro ostinazione di libertà.
Perché per noi che eravamo giovani allora questo libretto smilzo aveva significato molte cose: la schiettezza, la fede per la verità, l’orrore delle sovrastrutture. Forse significava amore per la poesia: certo significava amore per quella poesia.
Un amore ispirato a ragioni un po’ politiche, un po’ morali, un po’ estetiche: certo molto diverse da quelle che quasi trent’anni prima lo avevano ispirato in America.

Walt Whitman

Foglie d’erba

Nel 1855, in occasione della pubblicazione di Foglie d’erba (Leaves of Grass), la raccolta di dodici poesie tra le quali spiccano le cinquantadue strofe del famosissimo Canto di me stesso (Song of Myself), Ralph Waldo Emerson ha inviato a Walt Whitman il telegramma famoso che diceva: “Ti saluto all’inizio di una lunga carriera”.
Una trentina d’anni dopo, ormai settantenne e sopraffatto da discepoli e ammiratori, ormai adorato da se stesso e dagli altri come l’idolo e il messia della nuova letteratura americana, Walt Whitman ha scritto la storia del suo formarsi al mondo della poesia, ma soprattutto del suo formarsi a quella poesia che ha segnato l’origine e le caratteristiche della letteratura americana. E Whitman dice di sé: “Fra i trentuno e i trentatré anni mi sono trovato dominato da un desiderio particolare. Era una sensazione o un’ambizione di articolare ed esprimere fedelmente, in forma letteraria o poetica, e senza compromessi, la mia Personalità fisica, emotiva, morale, intellettuale ed estetica, colta nello spirito e nei fatti significativi di quel momento e dell’America contemporanea; e sviluppare quella Personalità, identificata nel tempo e nello spazio, in un senso più candido e comprensivo di qualsiasi poesia o libro già esistente”.
Trasgressivi e ribelli, narcisisti e appassionati, esaltati e contagiosi, gli esplosivi versi di Walt Whitman di Foglie d’erba erano troppo in anticipo sui tempi per poter venire accettati dalla società bigotta e maliziosa contemporanea; e il suo interesse per la frenologia, allora controversa, il suo antischiavismo, che lo ha condotto al licenziamento dal giornale che gli dava da vivere, il suo crescente comunitarismo, che lo ha indotto ad assistere per anni i feriti della Guerra civile, hanno fatto di lui un personaggio “sempre più scomodo”.
Un po’ fanfarone, un po’ poseur, un po’ esibizionista, un po’ eccentrico, Walt Whitman si è vestito via via come un dandy, come un bohémien e come un operaio, ma anche da vecchio saggio nella decina d’anni trascorsi a Camden prima di morire, quando venivano a trovarlo da tutto il mondo scrittori famosi e amici entusiasti che alimentavano con la loro stima l’invidia dei suoi moltissimi nemici.
I suoi ammiratori amavano di lui perfino l’egocentrismo, ma ad amarlo erano i rivoluzionari e gli intellettuali, che lo idolatravano come padre del verso libero e dell’esuberanza poetica, non gli americani di massa.
Sarebbero passati anni prima che quel suo libretto di dodici poesie venisse riconosciuto come la più originale raccolta mai scritta in America, tale da proclamare l’indipendenza letteraria americana dall’Inghilterra e da sancire la nascita di uno “stile” americano.
Con questi versi Walt Whitman ha scritto come se la “letteratura” non fosse mai esistita, come se la poesia fosse un grido del cuore, un abbraccio e non un “testo”, come se scaturisse da un linguaggio creato di volta in volta nel passaggio dal messianico al vernacolare, quasi da avventuriero verbale, in uno stile prodotto dall’ascolto dei suoi stessi ritmi; ponendo le basi dell’ambizione anticulturale di molta poesia modernista.
Come ha scritto nella prefazione a Foglie d’erba il “candore” è per lui la virtù necessaria di “poeti e oratori a venire”.
Su Walt Whitman Cesare Pavese si è laureato; a suo tempo mi ha convinta a chiedere la tesi di laurea su di lui, che uno strano professore ubriaco di alchermes, dopo aver letto il libro che non conosceva, mi ha rifiutato perché “una brava signorina come me” (sono parole sue) non doveva accostarsi a temi così “scabrosi” (sono di nuovo parole sue).
Adesso il libro lo conoscono tutti, moltissimi hanno letto questa splendida raccolta revisionata e ampliata a ogni edizione fino alla morte del poeta, e chi non l’ha letta ha di sicuro visto il film L’attimo fuggente che ne evoca l’autore: ormai quasi tutti hanno capito che Walt Whitman “canta la gioia di scoprire pensieri”.

Jack Kerouac

Sulla strada

Il 16 settembre 1957 avevo scritto per Mondadori il giudizio editoriale numero 286 dove consigliavo la pubblicazione di On the Road di Jack Kerouac. Il libro era uscito in America il 4 settembre grazie all’intervento di quel profeta letterario che è stato Malcolm Cowley. La prima copia ancora fresca di stampa me l’aveva data Hannah Josephson, la bibliotecaria dell’Accademia americana di Arti e Lettere e soprattutto la mia più cara amica americana, dicendomi: “Vedrai che ne farai qualcosa”.
Ed eccolo qui il mio giudizio:
Sunto: uno scrittore giovane, Sal Paradise, è molto amico di Dean Moriarty. In realtà dovrebbe essere questo il protagonista del libro: un ex carcerato per furto di automobili, egoista e pazzoide, interessato soltanto al sesso, questo Dean affascina Sal Paradise perché è pieno di vita e non sbadiglia mai. Con lui o per causa sua Sal Paradise attraversa gli Stati Uniti da New York alla California, tre o quattro volte nel corso del libro: con l’autostop o in autobus guadagnando i soldi dei biglietti raccogliendo cotone, o fermandosi qua e là dove qualche nuovo amico o qualche ragazza lo interessa. Per esempio per qualche settimana si ferma in un villaggio dove un amico guardiano lo fa assumere come guardiano: insieme la notte derubano lo spaccio. Intanto Dean sposa Marylou e la tradisce con Camilla; sposa Camilla e la tradisce con Marylou, Camilla fa due figlie e Dean divorzia per sposare Inez, ma appena sposato torna a vivere con Camilla. Il libro è la serie di sbornie e di furtarelli e di avventure e di orge amorose che questi ragazzi e le loro amanti vivono insieme.
Giudizio critico: il libro non è forse un capolavoro ed è pieno di difetti. Per esempio il racconto della vita di Sal Paradise è troppo lungo se il protagonista è Dean e spesso pare che Dean sia solo un pretesto, un legame per unire due racconti distinti, entrambi di viaggio. Eppure c’è qualcosa di strano: forse è davvero il libro della nuova generazione, ma certo c’è qualcosa che non si è ancora visto in altri libri nuovi. Il senso della vanità, dello scombinamento, della sconnessione di questa nuova generazione alla James Dean: sporchi, poveri, avidi di emozioni, ignari di leggi morali e così via. Può darsi che questo scrittore trentacinquenne diventi proprio il simbolo della nuova generazione.
Del mio giudizio non si era tenuto conto. Ma l’anno successivo, a una delle sue feste private, avevo detto ad Arnoldo Mondadori: “Presidente, io ho un titolo che le farebbe guadagnare un mucchio di soldi”. Arnoldo aveva aggrottato le sopracciglia e aveva risposto senza sorrisi: “E come mai i miei direttori non l’hanno pubblicato?”. I sorrisi li avevo fatti io, dicendo: “Perché a volte sono un po’ distratti”. Arnoldo aveva preso di tasca uno di quei notes piccolini a quadretti (più o meno come quelli che Kerouac teneva sempre con sé per annotare i fatti e le parole che poi inseriva nei suoi romanzi autobiografici) e mi aveva chiesto: “E come si chiama questo libro? Di chi è?”. Aveva scritto “Keruac”, senza la “o”, e quando il libro era uscito, vorrei dire pochi minuti dopo, la direzione letteraria non voleva credere che Kerouac si scrivesse in realtà con la “o”, visto che il presidente lo aveva scritto senza; nel frontespizio del libro aveva fatto stampare il nome senza la “o”. Se qualcuno ha ancora una copia dell’epoca si divertirà a vederlo.
Pochi giorni dopo la pubblicazione di Sulla strada ho mandato alla “Stampa” un articolo che sarebbe stato il primo in Italia su Jack Kerouac. Il direttore mi ha risposto su carta intestata: “Gentile Signora, Le rinvio l’articolo perché non è interessante per i nostri lettori”.
Ma era andata molto peggio a Jack Kerouac, che, in patria, si era visto respingere con ostinazione i suoi manoscritti, diventati poi famosi, quello de La città e la metropoli (The Town and the City) prima e quello di Sulla strada dopo. Il primo è stato pubblicato grazie all’aiuto di Allen Ginsberg nel 1950; ma in quello stesso periodo erano stati pubblicati anche Di là dal fiume e tra gli alberi (Across the River and into the Trees) di Ernest Hemingway e L’uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm) di Nelson Algren e pochi si erano accorti del libro di Kerouac.
Sulla strada era stato rifiutato per sei anni da cinque editori, in una specie di costume a cui aveva partecipato anche Lawrence Ferlinghetti e che aveva portato Jack Kerouac a una profonda disperazione.
Il 5 settembre 1957 Joyce Johnson, sua fidanzata, ha accompagnato Jack Kerouac a cercare una copia del “New York Times” in una stazioncina della metropolitana per leggere la recensione di Gilbert Millstein che diceva: “Questa pubblicazione è un’occasione storica... Come Il sole sorge ancora di Hemingway è stato considerato il testamento della Lost generation, la Generazione perduta, sembra certo che Sulla strada sarà riconosciuto come il testamento della Beat Generation”.
Joyce Johnson nelle sue splendide memorie Personaggi minori (Minor Characters) del 1983 ha raccontato che “Kerouac leggendo la recensione non aveva l’aria felice”. Quando gli ha chiesto perché, Kerouac le ha risposto: “Non lo so. Mi pare che non me ne importi niente”.

Charles Bukowski

Pulp

Col romanzo Pulp del 1994, Bukowski ha tentato il genere poliziesco mettendo insieme una storia alla Mickey Spillane, padre del genere hard-boiled con Chandler e Hammett; ma la satira e la parodia vi traspaiono naturalmente in ogni riga, dalla scelta dei nomi dei protagonisti a quella delle vicende, meno verosimili di quelle alle quali l’autore ci ha abituati nei suoi libri.
Grande protagonista è come sempre l’alcol, questa volta soprattutto il sake, ma anche lo scotch e la vodka; protagonista tradizionale, voglio dire il detective, è Nick Belane. Più che Nick Belane è però continuamente evocato un personaggio che fa quasi da ritornello al libro, la Signora Morte.
In questo “giallo” tra il surreale e il postmoderno, il detective a volte compare con il nome Harry Martel; quando non lavora passa il tempo ad acchiappare le mosche, sul suo tavolo ha una rivoltella e alla parete ha appeso un falso Salvador Dalí; arrotola da sé le sigarette, guida una minuscola Volkswagen, canticchia brani dalla Carmen e guarda le donne con un atteggiamento tra la misoginia e la lussuria, giustificando quest’ultima con il fatto che “le gambe sono state la prima cosa che ha visto quando è nato”.
È un narcisista poco intellettuale, appena bocciato alle prove scritte dell’esame per la patente automobilistica. Il lavoro per l’ufficio arriva nella persona della Signora Morte, una signora sempre “pronta a uccidere”, che lo incarica di scoprire se un certo Céline, che si aggira per le librerie, è il Louis-Ferdinand Céline che in quel 1994 avrebbe compiuto cento anni.
Un altro lavoro arriva quando telefona John Barton, che ha raccomandato il detective alla Signora Morte e a sua volta lo assume per trovare un non meglio identificato Passero Rosso. I lettori di Bukowski riconosceranno qui uno scherzo da intenditori, perché John Martin, che è stato il primo sostenitore di Bukowski, ha fondato per lui la Black Sparrow Press, cioè le Edizioni del Passero Nero, dove sono usciti tutti i libri dello scrittore, tranne le du...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Libero chi legge
  3. Nota al lettore
  4. Libero chi legge
  5. Libertà Dalla Morale
  6. Libertà Sessuale
  7. Libertà Di Parola
  8. Libertà Dalla Violenza
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright