La prima politica è vivere
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La prima politica è vivere

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  1. 108 pagine
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La prima politica è vivere

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Maurizio Lupi è un cattolico impegnato in prima linea nella cosa pubblica. È stimato dai suoi elettori, ma anche dagli avversari politici. Eppure in un momento storico travagliato e difficile come quello che stiamo vivendo - che vede il riemergere della questione morale, la drammatica crisi economica e una politica percepita come sempre più lontana e luogo di privilegi - ci sono alcune scottanti domande che molti cittadini, critici, giornalisti gli pongono, attraverso articoli, lettere o negli incontri pubblici: cosa vuol dire essere morale per un politico? Vita privata e responsabilità pubblica coincidono? Quando una legge è giusta? È coerente che un cattolico faccia politica insieme a persone di diversa estrazione, stile e cultura? Per provare a rispondere a questi interrogativi, da lui stesso avvertiti con urgenza, Maurizio Lupi ripercorre il suo personale cammino, che si intreccia profondamente con la nostra storia recente, con i temi e le questioni fondamentali della politica e della società italiana. L'incontro con don Giussani e Comunione e Liberazione. Le esperienze manageriali in Lombardia nei primi anni Novanta, a contatto con il tessuto produttivo del Paese. I primi passi in politica come assessore comunale nella giunta Albertini, laboratorio del centrodestra che sarà. La battaglia per l'affermazione del principio di sussidiarietà che porterà, anni dopo, alla nascita di un Intergruppo parlamentare bipartisan. E poi, ancora, la nomina a vicepresidente della Camera, un ruolo che gli farà comprendere appieno il valore delle istituzioni e il senso della Giustizia. Il risultato è un viaggio nella memoria privata e collettiva, in cui spiccano le storie di politici, religiosi, imprenditori, semplici cittadini, tutti accomunati dalla passione per ciò che fanno e per il Paese in cui vivono. Una riflessione personale sul rapporto tra fede e politica, che svela perché il cristianesimo ha a che fare con ogni aspetto della vita e perché la politica non può essere ridotta solo a un problema di coerenza, ma va misurata anzitutto nella sua capacità di lavorare per il bene comune e offrire risposte efficaci ai bisogni dei cittadini. Unica condizione è la voglia di essere «protagonisti» della propria esistenza, ognuno con il suo ruolo e con le responsabilità cui è chiamato a rispondere. Perché se sei attento a te stesso, sei attento all'altro, non aspetti più che il problema venga risolto dall'università, dallo Stato, dal comune, ma diventi tu stesso motore del cambiamento. La prima politica, insomma, è vivere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021350

IX

Amicizia: il vero volto della «casta»

Nel 2007 gli italiani scoprirono la «casta». Il successo del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo cambiò profondamente la sensibilità dei cittadini nei confronti della politica. Certo, c’era stata Tangentopoli, ma forse, proprio per questo, il mettere a nudo i privilegi dei potenti ebbe l’effetto di una bomba. D’improvviso tutto divenne «casta». E la politica finì sul banco degli imputati. Ricordo una puntata di «Exit» del novembre 2008. Nello studio di Ilaria D’Amico, io, Pier Ferdinando Casini e Piero Fassino. Ciò che raccontavano Stella e Rizzo non ci rappresentava. Non descriveva la nostra storia, le battaglie condotte, i risultati ottenuti, gli errori commessi, la scelta di dedicare una parte della nostra vita al servizio del nostro Paese, pur con strade diverse. Tutti vivevamo la nostra attività con passione e tutti eravamo d’accordo sul fatto che gli sprechi e i privilegi andassero combattuti. Insieme. Ma era impossibile spiegare questi concetti. Ogni volta che aprivamo bocca venivamo attaccati perché considerati dei parassiti che vivevano sulle spalle degli italiani. Il rischio che correvamo era di essere sempre in difesa.
Oggi, in particolare dopo la discussione attorno all’ultima manovra finanziaria, il tema dei costi della politica è ritornato di strettissima attualità. A scanso di equivoci ritengo che sia giusto ridimensionare quei privilegi che legittimamente scatenano la rabbia dei cittadini. Soprattutto in un momento di crisi è importante che chi ha maggiori responsabilità si sacrifichi più degli altri. Ciò che mi lascia perplesso è il modo con cui ci si avvicina all’argomento. Non trovo giusto, infatti, che la battaglia contro la «casta» si trasformi in un movimento di sfiducia generalizzato nei confronti della politica. Dopotutto, come dice il ministro Gianfranco Rotondi, nella storia d’Italia c’è già qualcuno che ha risolto brillantemente il problema dei costi della politica: Benito Mussolini, che eliminò il Parlamento. Perché se la politica non è percepita come utile, se il ruolo del parlamentare non è compreso nel suo significato più profondo, anche solo un euro speso per questo rappresenta un sopruso. Negli ultimi due anni, infatti, Parlamento e Governo non sono stati con le mani in mano. La scorsa finanziaria ha ridotto del 20 per cento il numero di consiglieri provinciali e comunali e di assessori, ha tagliato i consiglieri circoscrizionali, ha applicato una riduzione del 10 per cento ai compensi di consiglieri comunali e provinciali, di ministri e sottosegretari, come pure al finanziamento dei partiti. Dal gennaio 2011 deputati e senatori guadagnano 1000 euro netti in meno e da ottobre è in vigore un’ulteriore riduzione del 10 per cento come contributo di solidarietà. Gli stipendi dei manager della Pubblica amministrazione superiori ai 90.000 euro lordi sono stati ridotti del 5 per cento, del 10 per cento sulla parte eccedente i 150.000 euro. Sono stati sospesi gli adeguamenti automatici di carriera che determinano un aumento del compenso, e le auto blu, dopo il primo censimento ufficiale effettuato dall’esecutivo, sono scese del 10 per cento. Nonostante questi giusti tagli, però, il mostro dell’antipolitica non è mai sazio. Per questo credo sia importante che, accanto a una discussione sui tagli e sull’eliminazione dei privilegi e degli sprechi (personalmente sono convinto che dovremmo procedere rapidamente alla riduzione del numero dei parlamentari, che ci farebbe risparmiare quasi 200 milioni di euro l’anno), se ne sviluppi un’altra sul ruolo che la politica e le istituzioni hanno oggi nel nostro Paese.
Lo so, spesso diamo l’impressione di essere autoreferenziali, completamente concentrati su noi stessi e su ciò che gira intorno al Palazzo. Alla perenne ricerca di un’agenzia che possa rilanciare una nostra dichiarazione, di un giornalista, di una telecamera. Distanti dai cittadini e dai problemi reali del Paese. La colpa è nostra, ma anche di un circuito mediatico alla continua ricerca di gossip e occasioni pruriginose. La normalità, si sa, non fa notizia.
In questi anni ho vissuto nel Palazzo e posso assicurarvi che il Parlamento non ha nulla di diverso dalla realtà che ognuno di noi è chiamato quotidianamente a vivere. Ti scontri con le tue contraddizioni e con quelle degli altri, troppo spesso con il pregiudizio. Ma la Camera può diventare anche un luogo straordinario di incontri con persone che, pur provenendo da storie e mondi lontanissimi dal tuo, possono mettersi insieme a te per fare un pezzo di cammino, per costruire qualcosa per il bene del tuo Paese. Ho visto colleghi, di centrodestra e di centrosinistra, magari sconosciuti al grande pubblico, che non partecipano ai talk show televisivi, lavorare con intelligenza e dedizione per migliorare le condizioni dei propri concittadini, proporre leggi, contrastare il Governo senza pregiudizio, disponibili a capire e a comprendere le ragioni dell’altro. E ogni tanto, quando mi trovo a presiedere la Camera dei deputati e ad ascoltare gli interventi, mi viene in mente la descrizione che don Giussani faceva della democrazia:
Nel suo spirito la democrazia non è innanzitutto una tecnica sociale, un determinato meccanismo di rapporti esterni … Lo spirito di una autentica democrazia, invece, mobilita l’atteggiamento di ognuno in un rispetto attivo verso l’altro, in una corrispondenza che tende ad affermare l’altro nei suoi valori e nella sua libertà. Si potrebbe chiamare «dialogo» questo modo di rapporto tra gli uomini che la democrazia tende a instaurare.
Il dialogo come metodo di convivenza evidentemente si radica e si qualifica in una «ideologia», in un determinato modo di concepire sé, gli uomini e il mondo; non si può separare la volontà di dialogo dal determinato tipo di sensibilità e di concezione che si vivono … Ora, rendere questo non speranza, ma motivo e criterio dei rapporti, è violenza, è la violenza del tentato trionfo di una ideologia, che elimina l’affermazione del singolo uomo libero. Lo sforzo di creare, per esempio, delle internazionali, o il voler creare a tutti i costi una omogeneità «lasciando da parte ciò che ci divide», può avere commovente spunto, ma sempre, di fatto, finisce per schiacciare la persona in nome di una idea matrice o di una bandiera. Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l’affermazione dell’uomo «in quanto è»: allora l’ideale concreto della società terrestre sarà l’affermazione di una «comunione» tra le diverse libertà ideologicamente impegnate.
Insomma, le diversità e il confronto anche duro su alcune tematiche non mancano. Ma ciò che fa la differenza è che, se io ho stima dell’altro, se non lo considero un nemico da abbattere a ogni costo, anche il modo di fare politica cambia e la rissosità lascia il posto alla capacità di costruire facendo diminuire la distanza dai cittadini. L’importante è stare attenti ed essere aperti ad accogliere la ricchezza di chi hai davanti.
Ho potuto sperimentare questo all’interno del mio partito, dove, nonostante le vicinanze ideali, non è scontato costruire veri rapporti di amicizia. Ma soprattutto con alcuni esponenti dell’opposizione. La molla che fa scattare questo meccanismo normalmente è un comune interesse.
Maggio 2001. Sono alla mia prima legislatura e ho scelto di lavorare nella commissione Ambiente e lavori pubblici. Ho fatto l’assessore all’Urbanistica e l’argomento di cui più mi sono occupato in questi anni è certamente quello delle infrastrutture e della tutela dell’ambiente. Sono sempre rimasto molto affascinato dall’idea che difesa dell’ambiente e sviluppo non siano altro che due facce della stessa medaglia. La sfida di riuscire a coniugare queste due dimensioni mi ha sempre trovato in prima linea. In commissione ho incontrato Ermete Realacci. Anche lui alla prima legislatura dopo essere stato presidente di Legambiente. Lo conoscevo già, e il motivo non aveva nulla a che fare con la natura. Nelle settimane in cui ero indagato per la cascina San Bernardo, la Compagnia delle Opere organizzò la sua assemblea nazionale. C’era anche Ermete. Non ci eravamo mai visti eppure, senza un attimo di esitazione, ci difese arrivando fino al punto di dire che quella dei giudici era una «topica». Quando ci ritrovammo alla Camera, quella stima non era diminuita anche se subito ci toccò «incrociare le spade». Erano gli anni della legge obiettivo, del grande piano infrastrutturale messo a punto dal Governo Berlusconi. Realacci, da ambientalista realista qual è, poco incline alla cultura del «no» a ogni costo, non contestava la necessità di costruire opere per colmare il gap infrastrutturale del Paese, ma non era disponibile a fare sconti. Ricordo battaglie infinite sui testi dove ognuno di noi cercava di argomentare le proprie posizioni che, normalmente, erano profondamente diverse da quelle dell’altro.
Eppure, nonostante questo, un giorno Realacci venne da me e mi coinvolse su una legge cui lui teneva molto: quella sui piccoli comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti. Quelle norme nascevano dalla consapevolezza dell’inestimabile patrimonio naturale e storico-culturale che l’Italia aveva e ha. In Italia circa 6000 comuni, pari a oltre il 72 per cento dei comuni italiani, hanno meno di 5000 abitanti. Si tratta di una ricchezza insediativa che Carlo Cattaneo ha descritto come «l’opera di diffondere equabilmente la popolazione, frutto di secoli e di una civiltà generale, piena e radicata». Occorreva valorizzarla e una battaglia di questo tipo, profondamente legata a una logica sussidiaria delle istituzioni, non poteva essere oggetto di scontri ideologici. Potevamo e dovevamo farla insieme.
E così fu. Ricordo ancora quando – Ermete a quel tempo aveva già una sua visibilità, mentre io ero il classico peone – fummo invitati, grazie a lui, al «Maurizio Costanzo Show». Fu per me una novità assoluta, dato che fino ad allora quello studio lo avevo visto solo attraverso lo schermo televisivo. Posso dire che Ermete fu il mio primo talent scout. È stata una battaglia lunga e faticosa. Approvata in prima lettura alla Camera dei deputati, la proposta non fu mai convertita in legge perché quella legislatura finì. Non siamo indietreggiati neanche di un millimetro. Nel 2006 la ripresentammo. Approvata alla Camera, non riuscì ancora una volta a diventare legge perché il Governo di centrosinistra cadde e andammo subito alle elezioni anticipate. Ritornati in Parlamento, Ermete, io e altri cento deputati l’abbiamo ripresentata. Lo scorso aprile, la «nostra» legge sui piccoli comuni è stata approvata alla Camera. La sfida continua.
Giugno 2008. Con Enrico Letta c’è un’amicizia e una stima consolidata. Lo conosco sin da quando lui, giovane ministro del Governo D’Alema nella legislatura 1996-2001, veniva a Milano per incontrare la nostra giunta e discutere su come rilanciare l’attività delle imprese milanesi. Stessa storia: entrambi provenivamo dalle file del mondo cattolico e avevamo militato nella Democrazia Cristiana. Nel 2003 fondammo insieme l’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Siamo all’inizio di questa legislatura e mi presenta, per coinvolgerli nel lavoro dell’Intergruppo, alcuni giovani deputati appena arrivati alla Camera: Guglielmo Vaccaro, Alessia Mosca, Paola De Micheli e Francesco Boccia. Insieme con Enrico avevano dato vita a «Vedrò», un think tank attorno a cui si muove una rete di 1500 persone rigorosamente nate «a partire dagli anni Settanta», e all’Associazione 360. Dopo l’esperienza della candidatura alle primarie del Pd del 2007, Enrico aveva pensato a uno strumento che organizzasse meglio le energie che si erano «liberate» da tutte le regioni d’Italia. Così assieme ai suoi amici aveva fondato l’associazione per elaborare proposte politiche e legislative, e condividere momenti di formazione e di confronto veri. Quelli che difficilmente fanno notizia sui quotidiani e nelle televisioni.
Quel modo di impegnarsi per il bene del Paese mi colpisce subito. Cominciamo a lavorare insieme e nasce il progetto «Controesodo», rivolto a tutti quei giovani talenti che lasciano il nostro Paese in cerca di migliori opportunità all’estero. Il progetto diventa presto un’iniziativa parlamentare che porterà all’approvazione di una legge, sostenuta in modo bipartisan, che introduce un beneficio fiscale per quanti decidono, dopo almeno due anni fuori dai confini nazionali, di rientrare in Italia. La proposta di legge nasce dalla constatazione che è in corso un vero e proprio esodo. Dei circa 4 milioni di connazionali che vivono fuori dai nostri confini, la metà negli ultimi dieci anni si è iscritta all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire). È un fenomeno che, dinamiche di crescita a parte, ha poco a che vedere con l’emigrazione storica, quella delle valigie di cartone e delle code a Ellis Island. La percentuale di laureati che lascia il Paese è quadruplicata tra il 1990 e il 1999. La legge introduce quindi una politica che consente all’Italia di trasformarsi recuperando, nel tempo, parte dei talenti perduti. Un esempio di come, al di là delle barriere ideologiche che spesso sono pretestuose, si possano trovare modalità di lavoro comune su tematiche che non hanno un colore politico, ma che necessitano di una risposta comune, pragmatica ma soprattutto rapida ed efficiente.
Ci sono volte, invece, in cui un’amicizia in politica può nascere da una passione comune. Ricordo il novembre del 1998. Io e Sergio Scalpelli, assessore allo Sport del comune di Milano, siamo a New York per vedere dal vivo una delle maratone più affascinanti e famose del mondo. La maratona è una passione che mi è cresciuta dentro da quando, nell’aprile di quell’anno, avevo deciso di correre la Stramilano. La Stramilano, forse non tutti lo sanno, è la corsa per eccellenza del capoluogo lombardo. Almeno una volta nella vita, i milanesi l’hanno fatta. E io mi trovai a parteciparvi, un po’ per sfida un po’ per gioco, con il sindaco Gabriele Albertini e Luigi Casero. Scalpelli ci seguiva in bicicletta portando i viveri.
Furono quindici chilometri massacranti, anche perché non avevamo sostenuto alcun tipo di allenamento. Il giorno dopo con Sergio decidemmo di andare a novembre a New York. Fu un’esperienza incredibile. Vedere dal vivo le migliaia di persone che partivano dal ponte di Verrazzano. L’arrivo a Central Park. La messa con tutti i maratoneti raccolti nella cattedrale di Saint Patrick. Tornammo con due sfide: realizzare una maratona a Milano e allenarci per correre nella Grande Mela. Del primo obiettivo si occupò Scalpelli, del secondo io.
Da allora questa passione non mi ha abbandonato. L’anno dopo corsi a New York. Giunto al trentesimo chilometro ero esausto. E arrivai al traguardo solo grazie a una signora di Bologna che mi diede la mano accompagnandomi fino alla fine. 4 ore, 44 minuti e 52 secondi fu il tempo finale. L’anno scorso ho stabilito il mio record personale: 3 ore e 45 minuti (quasi un’ora in meno a distanza di dodici anni!) e quest’anno sarà la mia ottava maratona sulle strade di Manhattan.
La cosa che più mi affascinava e mi affascina della maratona è proprio questa: è una metafora della vita. La sfida, infatti, è assolutamente personale. Per prepararla occorrono sacrificio, volontà e passione. Gli imprevisti però sono sempre in agguato. Ti sei preparato per un anno intero, arrivi a New York, ti ammali e non corri. Ma il punto centrale è che non importa se vinci o perdi, se arrivi primo o ultimo, se impieghi tre o sei ore, ciò che conta è finirla e, se puoi, alla prossima maratona, migliorarti. Se durante la corsa o negli allenamenti hai a fianco degli amici, la fatica diventa più sopportabile. Non viene eliminata, ma l’affronti meglio. Come nella vita. Nella maratona, poi, c’è sempre un momento in cui anche il corridore più esperto va in crisi (a New York gli ultimi quattrocento metri verso il traguardo sono in salita, un vero massacro). A me succede sempre tra il trentottesimo e il quarantesimo chilometro. A quel punto non contano più gli amici – anche se averli a fianco è indispensabile –, ma entra in gioco la tua libertà. Sai che il traguardo è vicino, la meta è certa, ma solo tu puoi decidere se andare avanti o ritirarti. E quando tagli il traguardo la fatica scompare.
Ma gli amici, ripeto, sono fondamentali. Per questo cominciai a coinvolgere sin dall’inizio, nei miei allenamenti a Milano al parco delle Cave, Salvatore, orgoglio siciliano che si allena di nascosto per ottenere a sorpresa in gara il miglior tempo; Camillo, che ormai la maratona la può fare solo in bicicletta; Andrea, che non sa ancora la differenza tra tempo finale e real time e si deprime ogni volta che arrivo davanti a lui; infine, il mitico Ballabio, brianzolo di ferro a cui piace la chimica e che, al trentesimo chilometro, chiede sempre un aiutino! Arrivato a Roma scoprii, quasi per caso, che anche altri parlamentari avevano la mia stessa passione.
Successe proprio di ritorno dalla Grande Mela. «La Gazzetta dello Sport» mi aveva dedicato un pezzo raccontando che ero il parlamentare che aveva fatto registrare il miglior tempo superando di poco le quattro ore. Mi venne incontro in Transatlantico il collega del Pd Paolo Fadda con in mano il giornale. Pensavo volesse complimentarsi, invece mi disse che anche lui aveva corso a New York con un tempo inferiore alle quattro ore, solo che, da quando il figlio e la moglie avevano letto l’articolo, non credevano a ciò che lui aveva raccontato. Decidemmo lì di dar vita al Montecitorio Running Club.
Nel tempo in molti si sono interessati alla nostra iniziativa. E le belle storie da raccontare sono tantissime. Dal mitico responsabile d’Aula del Pd Roberto Giachetti che conclude la sua prima maratona in lacrime, a quella di Giovanni Dell’Elce, che dopo il grave incidente in elicottero del 2002 ha corso a New York arrivando al traguardo in 7 ore e 52 minuti, fino a Paolo Vella e sua moglie Antonella. Lui sessantenne parlamentare di prima legislatura, lei campionessa italiana di tennis negli anni Ottanta, tagliano il traguardo mano nella mano in 5 ore e 42 minuti.
Ma la maratona è anche un modo per superare certe barriere ideologiche. Così può capitare che vengano invitati a «Uno Mattina» Marcello Di Caterina (Pdl e attuale presidente del club) e Augusto Di Stanislao (Idv). E che quest’ultimo parli benissimo di me, definendomi il suo «leader» (atleticamente parlando, si intende). Qualcuno potrebbe obiettare: cosa c’entra tutto questo con la politica? In fondo, siete solo un gruppo di parlamentari cui piace correre.
Innanzitutto questa comune passione, che con il tempo si è trasformata in una sfida reciproca (l’onorevole Sandro Gozi del Pd le sta tentando tutte pur di battermi), ha cambiato profondamente i rapporti tra di noi. Non siamo più dei deputati che urlano e si accusano seduti nei loro scranni. Siamo dei volti amici che, proprio perché hanno imparato a conoscersi e stimarsi vicendevolmente, possono riuscire a costruire...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La prima politica è vivere
  3. I. Ne vale veramente la pena
  4. II. La prima politica è vivere
  5. III. Il lavoro: il tagliatore di pietre
  6. IV. La politica: per passione, non per mestiere
  7. V. Sussidiarietà: ciò che esiste merita
  8. VI. Istituzioni: quando una legge è giusta?
  9. VII. Giustizia: vigilando redimere
  10. VIII. Moralità: peccato o reato?
  11. IX. Amicizia: il vero volto della «casta»
  12. X. La vita è la realizzazione del sogno della giovinezza
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright