Il cortocircuito
eBook - ePub

Il cortocircuito

Storie di ordinaria ingiustizia

,
  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il cortocircuito

Storie di ordinaria ingiustizia

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Un professionista dalla vita tranquilla, Ennio Paolucci, ingegnere dell'Anas, vittima di innumerevoli e interminabili processi e additato come responsabile di incidenti dovuti invece a tragiche fatalità. Un pensionato dall'esistenza irregolare, Sandro Vecchiarelli, erroneamente incriminato per la scomparsa di una giovane amica, Chiara Bariffi, nelle acque del lago di Como. Un ragazzo irreprensibile, Melchiorre Maganuco, che vive in una realtà sociale dove forte è la presenza della malavita, coinvolto in un'inchiesta per traffico di droga soltanto perché, in assoluta buona fede, aveva conoscenze e numeri di telefono "sbagliati ". Un carabiniere infiltrato, Gian Mario Doneddu, accusato di complicità con i criminali che era impegnato a sgominare. Un padre incarcerato per più di tre anni per violenze mai commesse sulla figlia e assolto con un processo di revisione solo dopo aver scontato l'intera pena.
Ilaria Cavo ha sottratto all'anonimato una serie di vicende kafkiane in cui cittadini innocenti finiscono per sbaglio sul banco degli imputati con accuse talora gravissime, che sfociano di frequente, oltre che in un estenuante processo, anche in un'ingiusta detenzione. Un penoso e umiliante iter giudiziario, durato a volte moltissimi anni, prima di arrivare a una sentenza di assoluzione, ma spesso fuori tempo massimo e senza un adeguato risarcimento per il danno subito. Nelle diverse inchieste, sostiene l'autrice, si riscontrano "errori non voluti ed errori invece evitabili, errori rimediabili ed errori irreversibili", sempre e comunque tempi troppo lunghi (dai quattordici anni per alcune sentenze penali fino ai quarantaquattro impiegati per venire a capo di una causa civile).
Pur riconoscendo "i tanti casi di cronaca brillantemente risolti dalle procure", Ilaria Cavo intende mettere in luce "l'altra faccia della giustizia", analizzare il "cortocircuito " che si verifica quando si entra nella spirale dell'errore. Uno sbaglio che si traduce inevitabilmente in un volto e in un nome, nel dramma di persone costrette a vivere, secondo le loro stesse parole, una vita sdoppiata, appesa alle sentenze, con il rischio di impazzire. In attesa di risvegliarsi dall'incubo.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il cortocircuito di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Política y relaciones internacionales e Historia y teoría política. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

II

Trascrizione fatale

Lo si capisce dai baffi, che nascondono un sorriso gioviale ma a tratti malinconico; dagli occhiali da sole a goccia, grandi, portati con disinvoltura ma senza scoprire troppo di sé. E poi dalla statura imponente, quasi autoritaria ma improvvisamente ingentilita da un modo di muoversi quasi bonario, proprio di un uomo che sa subito entrare in confidenza, come se lo conoscessi da sempre: Gian Mario Doneddu, sessant’anni, ex maresciallo dell’Arma dei carabinieri, è stato per anni un abile camaleonte; ha saputo infiltrarsi negli ambienti più difficili della criminalità – il terrorismo, il narcotraffico, la prostituzione – con l’innata capacità di entrare presto in sintonia con chiunque, di immedesimarsi in una parte, cambiando ruolo ed espressione con naturalezza, a seconda delle circostanze.
In realtà, la sua carriera era iniziata nel 1971 con un incarico ambito ma molto diverso, che non aveva nulla a che fare con la sua indole e le sue aspirazioni: «Facevo la guardia al portone principale del Quirinale» racconta. «Ho resistito per tre anni, ma ho subito capito che quel ruolo non faceva per me. Non mi andava di fare la bella statuina, cercavo un posto più dinamico e operativo. Ho fatto di tutto per farmi trasferire, anche se non è stato facile.»
Il suo primo escamotage, il primo travestimento, risale proprio a quegli anni. «Mi sono fatto crescere la barba a dispetto di tutto e di tutti. Alla fine sono stati costretti a spostarmi.»
È stato mandato al confine, a Trieste, a fare le scorte a bordo di una motocicletta, poi, finalmente, è arrivato il trasferimento al nucleo investigativo di Savona, quindi di Genova, dove è stato tra i primi in Italia a lavorare «sotto copertura», a vestire il ruolo dell’agente-attore; tra i primi a capire, già negli anni Settanta, che c’era una via rischiosa ma più diretta per smascherare terroristi e delinquenti: farsi cresce baffi o capelli, mettersi e togliersi orecchini, cambiare auto, lingua o accento, all’occorrenza. Un modo rapido per entrare in confidenza con il trafficante di turno, capire le sue mosse, i contatti, gli affari, e poi incastrarlo, dall’interno del sistema, non da fuori, prima che potesse scoprire l’inganno.
«Ho iniziato dal basso, dai bordelli» ricorda con un sorriso ancora divertito. «In quel caso mettevo gli orecchini, facevo uscire la camicia dai pantaloni, mi presentavo come avventore e sul più bello (anzi, qualche minuto prima) i miei colleghi facevano scattare la retata.»
Non sempre andava tutto liscio; le operazioni correvano sul filo dei minuti e capitava spesso che i colleghi non riuscissero a rispettare i tempi concordati. «Ricordo che un giorno ero entrato in una casa di appuntamenti del Ponente ligure per smascherare la megera che gestiva quel bordello. Avevo proceduto secondo i piani, mi ero presentato come se fossi un normale cliente alla ricerca di un po’ di piacere ma ovviamente l’arresto sarebbe dovuto scattare in tempo, prima che la situazione diventasse per me compromettente. I colleghi, però, tardavano ad arrivare. Con molta calma, così, ho iniziato a spogliarmi, ma loro continuavano a ritardare. Non sapevo più come prendere tempo o cosa pensare. Quando finalmente hanno fatto irruzione ho capito che avevano semplicemente sbagliato piano: l’errore non era mio, era loro, eppure, per la mia espressione tragicomica, per quella scena di me con i pantaloni già calati, non hanno potuto fare a meno di prendermi in giro per molti anni a venire.»
Solo quando ricorda questi aneddoti l’agente «Pantera» – questo il suo nome in codice che si è portato dietro dalla prime operazioni contro il terrorismo – riesce ancora ad abbozzare un sorriso, e i suoi occhi tornano vispi, in fondo entusiasti di quelle imprese.
«Un pomeriggio ero al Park Hotel di corso Italia, a Genova, seduto davanti a un clan di spacciatori. C’eravamo dati appuntamento per scambiare la merce; io mi sarei dovuto presentare con una valigia carica di soldi che, in realtà, conteneva solo fogli di vecchi giornali. Anche in questo caso l’operazione sarebbe dovuta scattare prima che io fossi stato costretto ad aprire la valigetta e a scoprire l’inganno, altrimenti avrei rischiato la pelle. Tutto si giocava sul filo dei minuti, l’ansia stava crescendo. Quando finalmente è scattata l’irruzione mi sono dovuto fare arrestare perché non ho avuto il tempo di continuare nella finzione e, come un vero delinquente, di fuggire.»
Racconta gli episodi più divertenti del suo passato, del suo trasferimento a Genova, con il rimpianto e al tempo stesso l’orgoglio di chi sa che quella, in fondo, era solo gavetta, e di essere poi riuscito a mettere a segno ben altre operazioni.
«Il passaggio a interventi più qualificati è avvenuto quasi per caso» ricorda. «Un giorno un confidente ci aveva segnalato l’arrivo di un carico di eroina: un napoletano era pronto a smerciarla nel capoluogo ligure, bisognava coglierlo in fallo, in tempo. È stato lo stesso collaboratore a indicarmi, con l’indice, e a proporre al mio capo: perché non gli presentiamo lui? Ha la faccia che si presta, la mimica giusta, il nostro uomo ci cascherà.»
E così è stato. Quella prima operazione da infiltrato è riuscita, e poi ne sono seguite altre, dai primi anni Ottanta fino ai primi anni Novanta, tutte portate a segno con successo.
page_no="41"
Gian Mario Doneddu conserva ancora gli encomi ricevuti negli anni, tenuti nascosti in un cassetto nella sua casa di Sassari, quasi a voler dimenticare.
Gli chiedo di mostrarmeli, di disseppellirli insieme a quella rabbia che a tratti traspare, a quel senso di incredulità che non è riuscito a relegare nel cassetto dei ricordi e neppure in dodici anni di esilio nella sua nuova casa in Sardegna.
Sono ancora ordinati, quei riconoscimenti scritti, catalogati in sequenza cronologica. 28 luglio 1981: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa gli conferisce l’encomio solenne per aver «identificato 54 appartenenti a un’organizzazione eversiva, per aver localizzato 5 basi e un ingente quantitativo di armi e munizioni». Nell’ottobre 1984 il comandante della Legione carabinieri di Genova lo elogia «per la sua spiccata professionalità, per il valido contributo in complesse indagini che si concludevano con l’individuazione di un’associazione a delinquere responsabile di numerosi e gravissimi delitti, tra cui concussioni ed estorsioni. L’operazione portava al rinvio a giudizio di 30 persone, 15 delle quali condannate a pene esemplari». Un anno dopo, il 3 agosto 1985, riceve un altro encomio solenne per aver catturato «69 appartenenti a un’organizzazione criminosa finalizzata allo spaccio di droga e per aver sequestrato 12 kg di eroina e cocaina, oltre a denaro, vetture, attrezzature varie».
Il 7 novembre 1990 il nuovo riconoscimento è addirittura per aver fornito «un apporto determinante alle complesse indagini» che hanno consentito la liberazione di Patrizia Tacchella, la bimba di otto anni sequestrata per 78 giorni, si scoprirà, in una villa disabitata a San Lorenzo della Costa, sulle alture di Santa Margherita Ligure. «Ricordo gli sguardi di tutti noi quando abbiamo fatto irruzione in quella casa e l’abbiamo vista serena, seduta sul divano a guardare la tv» racconta Gian Mario. «Ci siamo tranquillizzati, quasi commossi. Di tutti i blitz a cui ho partecipato, la liberazione di questa bimba è quello che mi ha colpito di più.»
Ma l’operazione storica, che gli ha fatto guadagnare persino una medaglia al valore dagli Stati Uniti, prende il nome da Tovo San Giacomo, una frazione del Savonese dove un gruppo di narcotrafficanti colombiani avevano installato una raffineria di cocaina. Gian Mario Doneddu, sotto falsa identità, era riuscito addirittura a farsi affidare la gestione di quell’impianto, con un doppio gioco durato mesi, fino a fare smantellare tutta l’organizzazione all’arrivo del primo carico di cocaina mista a canna da zucchero. Era il 1988.
In memoria di quella missione impossibile, di quelle soddisfazioni lontane, Doneddu conserva ancora la fotocopia del periodico «l’Europeo» che, il 24 giugno 1988, gli aveva dedicato la copertina e un titolo orgoglioso: Il nostro Serpico. Anche il sottotitolo era di quelli di cui potersi vantare: Ecco il super agente italiano che sconfigge i mercanti di droga.
Il reportage raccontava i dettagli della sua impresa, durata due anni, il suo coraggio nel seguire i trafficanti fino nella giungla colombiana per arrivare a smantellare «il più grosso laboratorio clandestino mai allestito in Europa, con lo spettacolare abbordaggio, in alto mare, di una nave liberiana, la Future Hope, che trasportava 111 chili di cocaina».
«Anche questa operazione era nata quasi per caso, da un’indagine molto più circoscritta» ricorda l’allora brigadiere. «All’ospedale San Martino di Genova erano stati rubati cinque microscopi estremamente rari e costosi, avevano chiesto alla nostra sezione di interessarsene.»
La sua squadra era quella – poi discussa, criticata, processata – del Ros di Genova, il reparto operativo speciale comandato dal colonnello Michele Riccio, nato per combattere il terrorismo e poi (terminata quell’urgenza) impegnato in altre operazioni di intelligence legate, soprattutto, al traffico di droga e di armi.
«È sulle tracce di quei macchinari che mi sono imbattuto in un pentito, ex trafficante di droga, che mi ha messo in contatto con Honorio Huertas, uno dei narcotrafficanti del cartello di Medellín» spiega Doneddu. «L’ho incontrato ai Piani di Invrea, vicino a Savona, fingendomi un contrabbandiere di sigarette riciclato. Ero credibile anche perché a quei tempi viaggiavo in Jaguar, vestito di tutto punto: per fortuna avevo molti amici fidati, tra orefici e concessionari di auto genovesi, che mi prestavano macchinoni, brillanti, orologi per permettermi di reggere il gioco. Un giorno sono riuscito persino a portare Huertas a Portofino, a fare il riccone a bordo di uno yacht ovviamente preso in prestito come tutto il resto.»
Così i segnali sono stati positivi già al primo incontro. «Sono subito piaciuto, a Honorio Huertas, siamo entrati presto in confidenza: era evidente che lui cercasse un fidato referente italiano, e che io potessi fare al caso suo. Nel luglio dell’87 mi ha invitato in Colombia, a vedere la sua organizzazione. Era molto rischioso ma, se volevo stare al gioco, non potevo rifiutarmi di seguirlo.»
Le complicazioni sono arrivate quando Doneddu ha compilato il foglio di viaggio e nessuno dei suoi superiori voleva prendersi la responsabilità di firmarlo. «Quando sono partito il comando Divisione di Milano ha ordinato al mio comandante di mettermi in licenza. Lui intanto mi aveva fornito i soldi del biglietto per la Colombia, ma laggiù pagai con la mia carta di credito.»
Spostarsi da Bogotá a Medellín non è stata una passeggiata. L’agente Pantera non poteva allontanarsi neppure per un minuto dalle guardie del corpo che gli erano state assegnate più per controllo che per protezione, ma il viaggio alla fine si è rivelato più utile che rischioso: è servito a stringere i rapporti, a guadagnarsi la fiducia del capo del cartello di Medellín che scherzando con i colleghi era abituato a chiamare Opec (nel senso di «organizzazione per la produzione ed esportazione di cocaina»). Alla fine Honorio Huertas gli ha affidato la gestione della raffineria italiana, nel Savonese, proprio a Tovo San Giacomo, ed è così che Doneddu ha scoperto il piano dei colombiani: importare cocaina mista a «panela» (la canna da zucchero trasportata in piccole mattonelle) per sfuggire ai controlli. «Mi hanno spiegato che, così confezionata, la droga emanava meno odore. Nell’impianto allestito in Italia l’avrebbero raffinata e poi smerciata.»
Il casolare allestito a Tovo San Giacomo, isolato, lontano dalle case, era perfetto per evitare che l’uso di etere e ammoniaca insospettisse qualche passante.
«Sono stato al gioco per mesi, dando ordini e rischiando di essere smascherato, aspettando il primo carico che non arrivava mai» ricorda Doneddu con la stessa ansia e la stessa emozione di allora. «Alla fine siamo riusciti a sequestrare 48 chili di cocaina, a fare arrestare una quarantina di persone. Anche Honorio Huertas, il responsabile del cartello che si mascherava dietro allevamenti di cavalli e coltivazioni di mais, è stato arrestato. Era in un night di Miami in compagnia di una donna bellissima.»
Dal carcere della Florida ammetterà di essersi fatto giocare come uno sciocco: «Ero convinto di saper riconoscere uno sbirro dal suo odore di brillantina e di caserma ma stavolta il mio fiuto non ha funzionato». Un’ammissione inaspettata, un primo riconoscimento per il brigadiere infiltrato, in attesa di un encomio decisamente più ufficiale.
Gli americani, senza la soffiata e le informazioni di Pantera, non sarebbero mai arrivati a catturare il boss: per questo lo hanno insignito della «Ineoa Medal Of Value», la medaglia al valore dell’associazione internazionale contro il narcotraffico, definendolo «uno dei pochi agenti italiani con l’esperienza di infiltrato».
Gian Mario ricorda divertito il giorno del conferimento dell’onorificenza, a New Orleans. «Durante la cerimonia, mentre lo speaker mi presentava come brigadier, ho notato che tutti mi guardavano piuttosto incuriositi. Il collega della Dea [Drug Enforcement Administration] mi ha spiegato che brigadier in America è un generale: evidentemente non si sarebbero mai immaginati di vedere un generale (che, in realtà, era un semplice brigadiere italiano) con capelli lunghi sulle spalle, orecchino e anello di brillanti.» Forse neppure si sarebbero aspettati quei lunghi baffi sotto cui riesce ancora a sorridere.
Era il 6 settembre 1988, un giorno ormai lontano, troppo lontano, perché negli anni a seguire tutto si è capovolto, nulla è andato come Gian Mario Doneddu – nel frattempo promosso maresciallo – si sarebbe aspettato.
«Col senno di poi, di quegli anni passati a infiltrarmi, a travestirmi quasi come un accorto giullare, l’immagine che mi è rimasta più impressa è quella di una cena in un ristorante della riviera ligure: io ero lì, seduto di fronte a un trafficante di monete false, mi sforzavo di apparire un potenziale acquirente, assolutamente interessato ai programmi di smercio di denaro illecito. A mio modo, come al solito, stavo facendo l’attore, stavo fingendo. Ma quella volta, ironia della sorte, al tavolo di fronte era seduto un vero attore durante una pausa delle riprese: nella fiction che stava girando doveva immedesimarsi nella parte del poliziotto, fingere di fare il mestiere che io, a fatica, stavo tentando di nascondere: mi ha fatto riflettere, quella scena. Ho pensato che nella vita è tutta una questione di ruoli, di parti che si devono giocare: in quel ristorante, in fondo, era difficile capire chi fosse più poliziotto, chi più attore.»
Lo fanno sorridere, adesso, le considerazioni di quella sera perché, allora, non poteva immaginare quale copione tragicomico la vita gli avrebbe riservato. Non avrebbe mai pensato che, all’improvviso, potesse sparire il confine tra la realtà e la finzione e che lui stesso potesse essere scambiato per un vero criminale, finire in carcere e sotto processo con l’accusa di aver agito e lavorato al di là delle regole, fomentando i trafficanti, inducendoli a commerciare droga o armi per poter ricevere encomi, di fatto diventando loro complice.
Tutto è iniziato nel 1996, quando O.A., un camionista, ex spacciatore specializzato nel traffico dell’eroina con la Turchia, ha deciso di collaborare con la magistratura sulla scia delle indagini già avviate sul colonnello Michele Riccio, di fare i nomi di altri agenti della sua squadra che lo avrebbero indotto ad acquistare e smerciare droga per incastrare spacciatori e ricevere encomi.
«Ci sono finito dentro anch’io, senza un’accurata verifica delle sue dichiarazioni e senza colpe, solo perché si doveva dimostrare un teorema di fondo: la squadra del colonnello era tutta marcia, nessuno poteva salvarsi, altrimenti il castello delle indagini sarebbe crollato» dice Doneddu. «Non si cercavano singole responsabilità ma di criminalizzare un reparto.»
Sotto accusa dalla fine del 1996, l’agente Pantera è stato arrestato il 10 giugno 1997 quando, ormai da un paio di anni, aveva cambiato incarico perché si era scoperto il piano di un attentato da parte dei colombiani: volevano vendicarsi per la sua messinscena, per le ingenti perdite e i raggiri. All’operazione di Tovo San Giacomo, infatti, ne erano seguite altre due, ugualmente importanti: una contro l’importazione di armi (a Savona era stata sequestrata la nave Jenstar) e una contro il traffico di droga (con l’operazione Pantera erano state arrestate 13 persone e sequestrati 300 chili di cocaina scovati in mezzo a tonnellate di pesce). Entrambe erano nate dalle informazioni che Doneddu aveva ricevuto come infiltrato. «All’ultima operazione hanno dato il mio nome in codice, Pantera, quasi come riconoscimento, perché ormai si sapeva che non avrei più potuto usarlo. Come infiltrato avevo dato il massimo ma ormai ero bruciato» spiega il maresciallo. «Per questo motivo sono stato assegnato prima al presidio dell’Arma dell’Expo di Siviglia, poi alla missione Pellicano in Albania, infine all’ambasciata italiana in Kuwait: avevo appena 46 anni, guadagnavo 12 mila dollari al mese quando mi hanno arrestato in base ad accuse false e sottoposto a un iter giudiziario infinito, durato quattordici anni, che mi ha bloccato la vita per poi proclamarmi innocente, ma fuori tempo massimo.»
Improvvisamente, alla fine del 1996, quasi tutte le operazioni messe a segno, le onorificenze, gli encomi si sono trasformati in capi di imputazione, accuse, in un film in cui davvero ogni parte si è capovolta: gli ex spacciatori sono diventati troppo facilmente credibili, e lui che lavorava per l’Arma è stato considerato un fuorilegge.
«Non dico che fosse sbagliato perseguire le mele marce, capire se davvero ce ne fossero, e quali fossero, all’interno della nostra squadra. Dico che è stato sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, che con troppa facilità si è voluto dar retta a un camionista ex trafficante e non si è voluto credere alla buona fede di chi aveva lavorato con onestà e rischiato per lo Stato.» A rivivere i momenti più drammatici della sua disavventura giudiziaria Doneddu insiste: «Non contesto le indagini in sé. Contesto i tempi eccessivi (cinque anni) della durata della fase preliminare. Contesto i quattordici anni impiegati per arrivare a una sentenza definitiva e contesto, soprattutto, l’arresto: chiesto e concesso a prescindere. È stato quello, soprattutto quello, a bloccarmi la carriera e a condizionarmi l’esistenza».
Gli è stato notificato il 7 giugno 1997, tramite un fax indirizzato all’ambasciatore italiano in Kuwait in cui gli si intimava di «rientrare in Italia per urgenti motivi di giustizia».
«Ho spiegato all’ambasciatore che non poteva che trattarsi di un ordine di carcerazione nei miei confronti, nonostante mi fossi già presentato davanti al magistrato e avessi reso un interrogatorio completo.»
Qualche mese prima, venuto a conoscenza delle indagini a suo carico, Doneddu era rientrato in Italia per dare tutte le spiegazioni sul suo operato, eppure, tra i presupposti della custodia cautelare, figurava proprio il pericolo di fuga. «Ma come può avere intenzione di fuggire, di sottrarsi alle indagini, una persona che era rientrata appositamente, dall’estero, per rispondere alle domande del pm per giunta pagando di tasca propria il biglietto aereo?» si era chiesto, si chiede ancora il maresciallo. «Senza contare che molti amici mi avevano consigliato di non rientrare: in Kuwait non esisteva l’estradizione e questo avrebbe potuto farmi comodo. In realtà, non ho mai preso in considerazione l’idea di sfuggire alle accuse, e lo avevo già ampiamente dimostrato.»
Conserva ancora la penna stilografica Dupont che l’ambasciatore gli ha regalato prima che lasciasse per sempre l’ufficio. L’ha conservata come un ricordo prezioso, non l’ha mai usata. «Ci siamo lasciati con un sorriso» racconta. «L’ho rassicurato sul fatto che, con quella stilo, non avevo affatto intenzione di scrivere Le mie prigioni
In carcere è rimasto solo cinque giorni, per altri dieci è passato agli arresti domiciliari finché il tribunale del Riesame – dopo un tempestivo ricorso del pm contro la sua scarcerazione – lo ha rimesso in libertà: non solo non esistevano i presupposti per la custodia cautelare (il pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il cortocircuito
  3. Prefazione - L’altra faccia della giustizia
  4. I. Orco per sbaglio
  5. II. Trascrizione fatale
  6. III. La telefonata che cambia la vita
  7. IV. L’accusa più infame
  8. V. La lunga strada della giustizia
  9. VI. Il processo delle suggestioni
  10. VII. Senza tregua
  11. VIII. L’orrore e l’ingiustizia
  12. IX. Una piaga nell’anima
  13. X. Mostro per un giorno
  14. XI. Quarantaquattro anni per una causa civile
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright