Aldilà
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Aldilà

La vita continua?

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Aldilà

La vita continua?

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Informazioni sul libro

Esiste una vita oltre la vita? Qualcosa di noi sopravviverà dopo la fine del nostro corpo? Questa esistenza è l'unica che ci è dato di vivere, o è una tappa nel ciclo della reincarnazione? Possiamo entrare in contatto con i nostri cari che non ci sono più? Un giorno li incontreremo di nuovo?
Leggere questo libro significa avere voglia di capire, essere disposti ad abbandonare alcune certezze, prepararsi alla meraviglia. Iniziare un viaggio nella storia e nella scienza, fra i più antichi misteri e le ricerche più recenti. Un viaggio emozionante, sorprendente, luminoso. Vedremo come hanno affrontato il tema della morte le grandi civiltà del passato: egizi, sumeri, greci, maya... E scopriremo che quello che oggi la scienza tenta di afferrare, quello che oggi l¿uomo moderno prova a comprendere, è già stato intuito dai nostri antenati. Analizzeremo i casi di chi si è rivolto a un medium per stabilire un contatto con una persona cara defunta. E facendo pulizia dei troppi impostori, distingueremo gli episodi in cui è ragionevole chiedersi se questa comunicazione sia davvero possibile. Prenderemo in esame i resoconti di pazienti che si sono trovati a vivere esperienze di premorte (le cosiddette near death experiences) e per le quali la medicina ufficiale non ha ancora fornito una spiegazione. Racconteremo le storie di persone, bambini o adulti sotto ipnosi, che sembrano ricordare le loro vite precedenti fornendo dettagli e coincidenze sconcertanti. Riporteremo interviste esclusive a psichiatri di fama mondiale e scienziati d¿avanguardia. Ci confronteremo con la scienza, con i suoi dubbi irrisolti e con le sue ultime, immaginifiche teorie.
Sarà un viaggio coinvolgente, affascinante, pieno di sorprese. E di speranza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852018534

La ricerca

La reincarnazione è per noi occidentali un concetto lontano, che non appartiene al nostro retaggio culturale. Eppure, in certa misura, ci incuriosisce e ci affascina.

La storia di Cameron

Inizialmente con curiosità, e successivamente con grande interesse, anni fa ho letto del caso davvero singolare di Cameron, un bambino nato a Glasgow, in Scozia. Fin da quando cominciò a parlare correttamente, quindi dall’età di due anni, Cameron prese a raccontare a sua madre, Norma, i ricordi di una sua presunta vita precedente; una vita che avrebbe vissuto insieme a un’altra famiglia composta da padre, madre, una sorella e due fratelli, in una casa su una piccola isola al largo della costa occidentale della Scozia – Barra – assai distante dalla sua effettiva abitazione. Nella sua mente Cameron sembrava vedere con esattezza quella casa, che sosteneva essere bianca, a un piano e vicina al mare.
Barra può essere raggiunta solo via nave o con un’ora di volo da Glasgow: è una remota isola delle Ebridi e vi risiedono poco più di mille abitanti.
Come poteva un bambino di due anni sapere dell’esistenza di quell’isola? E come poteva descriverla con tanti dettagli?
Cameron raccontava che il suo posto preferito a Barra era la spiaggia, dove portava spesso il suo cane bianco e nero con cui lui e i suoi fratelli giocavano; una spiaggia su cui atterravano gli aeroplani e piena di dune sulle quali correre e rotolarsi. Raccontava che suo padre – del quale addirittura faceva il nome: Shane Robertson – aveva i capelli lisci, indossava sempre una maglietta ed era morto in un incidente. Raccontava che sua madre aveva i capelli lunghi ma poi se li era tagliati. Raccontava di essere caduto nella sua attuale vita attraverso una specie di buco.
E di tutte queste cose Cameron non si limitava a parlare con sua madre, ma lo faceva con chiunque avesse davanti: parenti, amici e semplici conoscenti. Barra per lui era una vera e propria ossessione e in ciò che raccontava c’era sempre un forte filo logico: era difficile credere che un bambino così piccolo fosse in grado di costruire una storia tanto complessa, ripetendola, senza mai contraddirsi, senza mai variare nulla.
Nessuno dei familiari di Cameron era mai stato a Barra, nessuno sapeva dell’esistenza di quest’isola e, pertanto, nessuno poteva avergliene parlato.
All’inizio, ovviamente, Norma – una donna single e madre di un altro bambino, Martin, più grande di Cameron di un anno – preferì credere che questi ricordi fossero il frutto della fervida immaginazione di suo figlio, ma viste l’insistenza e la capacità del bambino di ripetere all’infinito la medesima storia con i medesimi dettagli dovette rassegnarsi a cambiare opinione. Inoltre l’attaccamento di Cameron per la mamma di Barra era crescente e con il passare del tempo lui ne sentiva a tal punto la mancanza da soffrire realmente. Un giorno, mentre era a letto, cominciò a innervosirsi; voleva che fosse la sua mamma di Barra ad accudirlo e piangendo non faceva che ripetere: «Io devo andare a Barra, la mia famiglia mi starà cercando!».
Come è facile immaginare, Norma ne fu lacerata. Consultò diversi dottori ma nessuno riuscì a venire a capo della situazione: il tempo passava e Cameron era sempre più agitato.
La dottoressa Karen Majors – psicologa dell’educazione specializzata nelle fantasie elaborate dai bambini – dopo aver esaminato Cameron concluse che il suo episodio non rientrava nei classici casi di bambini con mondi e amici immaginari: quelli che elaborano visioni immaginarie, infatti, sono in grado di determinare esattamente tutto quello che accade in questo loro mondo fittizio, sembrano avere il pieno controllo della situazione, mentre la Majors ebbe la netta impressione che Cameron credesse fermamente nella realtà delle sue visioni e che non fosse in grado di manipolarle; che ne fosse anzi, in qualche modo, sopraffatto.
La vita di Norma e della sua famiglia stava diventando sempre più complessa.
Un giorno una vicina di casa, Diane, riferì un fatto straordinario: suo figlio Adam stava giocando con Cameron – i due bambini erano amici da sempre – quando sussurrò all’improvviso alla madre che la morte non era un problema perché Cameron gli aveva detto che si tornava indietro nel corpo di un altro.
Come faceva a saperlo un bambino, che aveva allora quattro anni, se non perché, per quanto assurdo possa sembrare, lo aveva vissuto? E anche ammesso che ne avesse sentito parlare da qualcuno, come poteva essere stato in grado di capire e ripetere un concetto così complesso? Come poteva averlo assimilato fino a farlo diventare suo?
Alla fine Norma decise: avrebbe portato – o riportato – suo figlio a Barra.
Fu una decisione molto sofferta ma inevitabile. Non appena lo seppe, Cameron ne fu entusiasta. La speranza segreta di Norma era che, una volta arrivato sull’isola, il figlio non riconoscesse i posti dei quali tante volte le aveva parlato e che tutta quella storia finisse. La gente aveva cominciato addirittura a pensare che lei avesse adottato Cameron, tanto il bambino era convincente quando parlava della sua famiglia “altra”…
Davvero una situazione ingestibile.
E la situazione era diventata ancora più ingestibile dal momento in cui Norma si era decisa a fare a Cameron una domanda che si portava nel cuore da molto tempo: «A chi vuoi più bene, a me o alla tua mamma di Barra?». Il bambino, innocente, le aveva risposto: «A tutte e due». Non immaginava certo, con tale affermazione, di ferirla.
Ciò che più mi ha affascinato nel leggere questa vicenda è stato proprio il punto di vista di Norma: per una madre dev’essere dilaniante sentire il proprio figlio parlare di un’altra madre, una madre della quale lui ha una nostalgia tale da perdere la serenità. Empatizzando con il disagio certamente provato da questa donna, mi è venuto il desiderio di approfondire la sua storia, guardandola dalla stessa prospettiva da cui la guardava Norma.
Che sia giusto o che non lo sia, un figlio è un essere che sei portato a sentire come tuo… Scoprire che quel figlio appartiene anche ad altri – che sia vero o che lui ne sia solamente convinto non importa molto – può essere un grande dramma o una straordinaria occasione di crescita e di evoluzione.

L’INCONTRO, LE VERIFICHE

Incontrai Norma e Cameron in un albergo di Londra e mi trovai davanti a una madre amorevole e a un bambino… sereno!
Sì, quando lo conobbi, Cameron era sereno; e lo era diventato proprio dal momento in cui i suoi familiari e gli adulti che aveva intorno avevano cominciato a credergli, con tanta determinazione da averlo portato a Barra.
Ma riprendiamo il corso degli eventi di questa storia incredibile.
Del caso di Cameron si era discusso a lungo e di esso era arrivato a interessarsi anche Jim Tucker, uno psichiatra che dirige un ambizioso progetto presso l’Università della Virginia: un dipartimento istituito appositamente per indagare sulle storie di bambini che ricordano presunte esistenze precedenti. Fu proprio lui ad accompagnare Norma e i suoi due figli a Barra: dal suo punto di vista, infatti, Cameron rappresentava un’occasione di studio unica perché il bambino aveva fornito non solo il nome di un luogo – per fortuna relativamente piccolo e nel quale non era così difficile svolgere indagini – ma anche il nome e il cognome di una persona: Shane Robertson.
Finalmente, dopo tre anni da quando aveva cominciato a parlarne, Cameron giunse a Barra insieme a sua madre e a suo fratello Martin, compiendo una specie di viaggio a ritroso nel tempo. Loro tre e il dottor Tucker atterrarono su una spiaggia e non su una pista, esattamente come Cameron aveva anticipato che sarebbe accaduto; una spiaggia simile a quella che lui sosteneva di vedere dalla finestra della sua casa bianca e dove andava sempre a giocare, con le dune su cui si rotolava insieme ai suoi fratelli di allora.
Cameron era estasiato, non faceva che ripetere: «Ve l’avevo detto che era tutto vero!» e la sua eccitazione e la sua gioia crescevano.
Persino Norma sentì una certa familiarità con quel luogo, forse perché ne aveva tanto sentito parlare dal figlio.
All’indomani del loro arrivo, lei e Jim Tucker cominciarono la ricerca degli indizi che potessero confermare la storia narrata da Cameron. Si recarono al Centro per il patrimonio nazionale di Barra per scoprire se esistessero tracce della famiglia Robertson. Calum McNeil, uno storico dell’isola, disse loro che c’erano stati dei Robertson lì – anche se il cognome non era molto diffuso – ma non ne ricordava nessuno che si chiamasse Shane.
Era importante definire il periodo storico sul quale indagare. Cameron aveva fornito indizi anche in tal senso: «Nella mia casa di Barra c’era il telefono e qualche volta il mio papà faceva lunghe telefonate».
Da questa informazione dedussero che gli anni di cui parlava Cameron fossero successivi alla Seconda guerra mondiale: c’erano, infatti, già il telefono e gli aerei che atterravano sull’isola. Quest’ultimo dettaglio fornì loro un’ulteriore indicazione: se Cameron vedeva gli aerei atterrare sulla spiaggia, la casa doveva sorgere nella parte settentrionale dell’isola.
Ma forse erano arrivati a Barra troppo tardi…
Infatti, con il tempo, i bambini che sostengono di ricordare vite precedenti via via dimenticano ogni cosa: fra i sei e i sette anni, nell’età in cui si comincia ad andare a scuola e si viene maggiormente coinvolti nella vita sociale, i ricordi di una presunta esistenza precedente sbiadiscono fino a scomparire del tutto. Quando fu accompagnato a Barra, Cameron aveva cinque anni: i ricordi erano ancora a livello cosciente, ma meno vividi che in precedenza.
Per un’intera giornata lui, accompagnato da suo fratello, da sua madre e dal dottor Tucker, passò in rassegna quasi tutte le case di Barra – alcune delle quali costruite proprio sulla spiaggia – ma non ne riconobbe nessuna. Ciò nonostante era felice di trovarsi su quell’isola, anche solo per il fatto di camminare sulla spiaggia, di essere lì: comunque fossero andate le cose, portarlo a Barra era stata la scelta giusta.
Il giorno successivo, quando stavano per abbandonare ogni speranza di trovare una traccia che confermasse i ricordi di Cameron, arrivò una telefonata di Calum McNeil che riaprì la partita. Lo storico aveva scoperto che era effettivamente esistita una famiglia Robertson che aveva vissuto proprio nella parte settentrionale di Barra, in una casa vicino al mare, una casa bianca affacciata sulla spiaggia. McNeil ci aveva messo un po’ a rintracciare la famiglia Robertson perché i suoi archivi riguardavano solo le proprietà degli isolani mentre i Robertson erano venuti dalla terraferma. La traccia, seppur tardiva, sembrò quella giusta: i Robertson avevano abitato nella casa sul mare alla fine degli anni Sessanta del Novecento!
Coincideva il nome, coincideva il luogo e coincideva il periodo!
Nuovamente pieni d’entusiasmo, Norma e il dottor Tucker portarono Cameron nella proprietà che era stata dei Robertson, ma non gli dissero nulla per non influenzare le sue reazioni.
La strada che percorsero per giungere a destinazione era stretta e seguiva la costa; poi, improvvisamente, la casa apparve dietro una curva. Non appena la vide, Cameron, di solito molto irrequieto, divenne stranamente silenzioso. Raggiunse addirittura uno stato di apparente shock quando riconobbe il cancelletto che portava alla spiaggia…
Aveva sempre parlato di una specie di passaggio segreto utilizzato per tornare a casa dopo i giochi in riva al mare con i suoi fratelli: si trattava di quel cancelletto? La sua reazione, il suo improvviso mutismo fecero presumere di sì sia a sua madre sia al dottor Tucker…
La famiglia Robertson aveva trascorso le vacanze estive in quella casa sul mare negli anni Sessanta e Settanta del Novecento: tutto sembrava aver trovato la sua giusta collocazione e anche ciò che i tre videro appariva straordinariamente coincidente con i ricordi di Cameron.
Poteva trattarsi solo di una casualità? Se sì, perché il bambino ne era rimasto tanto sconvolto?
Dopo essere stato a Barra e aver visto la casa dei Robertson, le memorie di una presunta vita precedente su un’isola sperduta non disturbarono più Cameron; come se il cerchio si fosse chiuso nella sua mente, la sua vita continuò a scorrere normalmente. Lui sembrò ritrovare la serenità e fu allora, dopo il viaggio a Barra, che io lo incontrai, insieme a sua madre, in un albergo di Londra. Un incontro per me straordinario.
Norma ha certamente dimostrato un grandissimo amore e una rara apertura mentale nel decidere di assecondare suo figlio. Avrebbe potuto trincerarsi in una non accettazione, soprattutto sull’onda del disagio emotivo che tutta quella situazione deve aver certamente scatenato in lei, ma non lo ha fatto, dimostrandosi così una grande persona e una grande madre.
In genere – soprattutto in Occidente, dove la cultura della reincarnazione non esiste – i ricordi di presunte vite precedenti riferiti da alcuni bambini vengono soffocati finché non sbiadiscono naturalmente.
Davanti a una storia come quella di Cameron e di Norma è facile chiedersi se ciò che ci sembra di capire della vita e del mondo sia ciò che realmente capiamo, grazie alla nostra intelligenza e alla nostra sensibilità, o non sia piuttosto il risultato dell’educazione che abbiamo ricevuto.
La nostra mente è libera di agire come crediamo o si muove seguendo i binari tracciati da chi è venuto prima di noi?
Questa sorta di “costrizione intellettuale” che tutti, chi più chi meno, abbiamo è tanto più difficile da abbattere quanto più è involontaria. Ma ci sono uomini come Jim Tucker che stanno tentando di seguire un percorso davvero libero da ogni condizionamento.
E Jim Tucker, colui che ha accompagnato Cameron nel suo viaggio di ritorno – reale o solo mentale – a Barra, è l’erede di un altro grande psichiatra, Ian Stevenson, ritiratosi dalla vita professionale nel 2002 e morto nel 2007, il quale ha avuto il merito di iniziare un’indagine scientifica e sistematica sui ricordi di vite precedenti. Un uomo che ha avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di non catalogare come inesistente ciò che, forse più semplicemente, non conosceva ancora.

Ian Stevenson e i suoi bambini speciali

Ian Stevenson, professore dell’Università della Virginia, è certamente uno dei grandi nomi della ricerca psichiatrica. Agli studi sulla reincarnazione arrivò seguendo uno strano percorso, direi quasi laterale: in quanto psichiatra la sua intenzione iniziale era quella di capire il perché di alcune paure e fobie dei bambini piccoli, di certi loro talenti innati, di alcune precise simpatie e antipatie, a volte dimostrate fin dalla più tenera età. In anni di lavoro si era, infatti, trovato a domandarsi se tutte queste fossero semplici predisposizioni o se sotto ci fosse qualcosa di più. E nel cercare una risposta aveva incontrato alcuni bambini che gli avevano parlato di esperienze di vita diverse da quelle attuali e soprattutto di tipi di morte che sembravano spiegare e giustificare le paure e le fobie che lui tentava di guarire.
Inizialmente il professor Ian Stevenson non contemplò la reincarnazione come possibile spiegazione per questi casi: aveva ricevuto un’educazione cristiano-protestante e la dottrina della reincarnazione era molto lontana dalla sua formazione. In più, in quanto scienziato, vedeva in essa una credenza religiosa, qualcosa di distante. Un po’ alla volta fu, però, costretto a rendersi conto di quanto il comportamento di questi bambini fosse in accordo con quello che raccontavano: le loro paure, simpatie, antipatie, doti innate corrispondevano in tutto e per tutto a quanto dicevano di ricordare della loro presunta vita precedente. La reincarnazione si trasformò, così, in una delle ipotesi possibili: se bisognava escluderla, era necessario farlo con rigore e non per un preconcetto.
Quella che il dottor Stevenson a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo. Chi siamo noi per negare tutto?
  4. LA STORIA
  5. LE TESTIMONIANZE
  6. LA RICERCA
  7. LA SPERANZA
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Bibliografia
  11. Copyright