Il grande disegno
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Il grande disegno

Che cosa sappiamo oggi dell'universo

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  1. 192 pagine
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Il grande disegno

Che cosa sappiamo oggi dell'universo

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Quando e come ha avuto inizio l'universo? Perché c'è qualcosa invece di nulla? Perché le leggi di natura sono calibrate con tanta precisione da permettere l'esistenza di esseri come noi? Perché siamo qui? E soprattutto, il "Grande disegno" del nostro universo è opera di un benevolente creatore o la scienza può offrire un'altra spiegazione? Formulare una completa teoria dell'universo - scriveva Steven Hawking nel suo Dal big bang ai buchi neri - sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio.
Nel Grande disegno il celebre astrofisico si cimenta con la sfida scientifica per eccellenza, affrontando la questione che da sempre divide filosofi, scienziati e teologi: l'origine del cosmo e della vita stessa. Insieme al fisico Leonard Mlodinow, Hawking ripercorre le più recenti scoperte della fisica spiegando come il cosmo, in base alla teoria quantistica, non abbia una sola esistenza, e come tutte le possibili storie dell'universo esistano simultaneamente.
La vita e la stessa presenza umana, sostengono gli autori, sono il prodotto di fluttuazioni quantistiche nell'universo dei primissimi istanti. Approdiamo così alla teoria del "multiverso", la coesistenza del nostro universo accanto a una moltitudine di universi apparsi spontaneamente dal nulla, ciascuno con proprie leggi di natura.
Nel corso della storia della scienza si è scoperta una serie di teorie o modelli sempre migliori, da Platone alla teoria classica di Newton, fino alle moderne teorie quantistiche. È naturale chiedersi se si arriverà a una teoria dell'universo che non possa essere ulteriormente migliorata. Non abbiamo ancora una risposta definitiva, ma oggi disponiamo di una candidata alla teoria ultima del tutto: la "teoria M". Se confermata, sarà la teoria unitaria di cui Einstein era alla ricerca, e il trionfo della ragione umana. Quanto a un presunto creatore del Grande disegno, la scienza dimostra che l'universo può crearsi dal nulla sulla base delle leggi della fisica. Non è necessario appellarsi a Dio per accendere la miccia e mettere in moto il processo. La creazione spontanea è la ragione per cui c'è qualcosa invece di nulla, per cui esiste il cosmo, per cui esistiamo noi.
Un saggio scientifico che spiega con linguaggio accessibile e attraverso eleganti illustrazioni come l'astrofisica sia ormai vicina a comprendere i segreti più nascosti della materia. Un'opera rivoluzionaria, destinata a modificare nel profondo la nostra cultura e le nostre credenze più radicate.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852018718

V

LA TEORIA DEL TUTTO

La cosa più incomprensibile dell’universo è che sia comprensibile.
ALBERT EINSTEIN
L’universo è comprensibile perché è governato da leggi scientifiche; vale a dire che del suo comportamento si possono costruire modelli. Ma quali sono queste leggi o modelli? La prima forza a essere descritta in linguaggio matematico fu la gravità. La legge di gravitazione di Newton, pubblicata nel 1687, affermava che ogni corpo dell’universo attrae ogni altro corpo con una forza proporzionale alla sua massa. Ebbe un grande impatto sulla vita intellettuale dell’epoca perché mostrava per la prima volta che almeno un aspetto dell’universo poteva essere tradotto con precisione in un modello, e forniva l’apparato matematico per farlo. L’idea che esistano leggi di natura solleva questioni analoghe a quella per cui Galileo era stato dichiarato colpevole di eresia circa cinquant’anni prima. Per esempio, la Bibbia narra di come Giosuè pregasse perché il Sole e la Luna si fermassero nelle loro traiettorie in modo che la luce del giorno si prolungasse quanto bastava per finire di sconfiggere gli amorrei a Canaan. Secondo il libro di Giosuè (10.12-13), il Sole rimase fermo per quasi un giorno. Oggi sappiamo che ciò avrebbe significato che la Terra aveva smesso di ruotare su se stessa. Se la Terra si fosse fermata, secondo le leggi di Newton ogni cosa che non vi fosse stata ben fissata sarebbe rimasta in moto con la velocità originaria del pianeta (quasi 1700 chilometri all’ora all’equatore): un prezzo un po’ alto da pagare per ritardare un tramonto. Tutto ciò non preoccupava affatto Newton, il quale, come abbiamo detto, credeva che Dio potesse intervenire sul funzionamento dell’universo, e lo facesse effettivamente.
Dopo la gravità, i primi aspetti dell’universo per cui si scoprì una legge o un modello furono le forze elettriche e magnetiche. Queste si comportano come la gravità, con l’importante differenza che due cariche elettriche o due magneti dello stesso tipo si respingono, mentre cariche o magneti di segno opposto si attirano. Le forze elettriche e magnetiche sono assai più intense della gravità, ma solitamente non le avvertiamo nella vita quotidiana perché un corpo macroscopico contiene numeri quasi uguali di cariche elettriche positive e negative. Ciò significa che le forze elettriche e magnetiche agenti tra due corpi macroscopici praticamente si elidono a vicenda, a differenza delle forze gravitazionali che si sommano tutte.
Le nostre attuali idee sull’elettricità e il magnetismo sono state elaborate nell’arco di circa un secolo, tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento, allorché fisici di diversi paesi condussero approfonditi studi sperimentali di queste forze. Una delle scoperte più importanti fu quella che forze elettriche e magnetiche sono connesse: una carica elettrica in moto esercita una forza sui magneti, mentre una calamita in moto esercita una forza sulle cariche elettriche. Il primo a rendersi conto dell’esistenza di una qualche connessione fu il fisico danese Hans Christian Ørsted. Nel 1820, mentre si preparava per una lezione che doveva tenere all’università, Ørsted osservò che la corrente elettrica generata dalla batteria che stava usando faceva deviare l’ago di una bussola che si trovava nelle vicinanze. In breve comprese che l’elettricità in moto generava una forza magnetica, e coniò il termine «elettromagnetismo». Qualche anno dopo lo scienziato britannico Michael Faraday ipotizzò che, se una corrente elettrica – per esprimerci in termini moderni – poteva generare un campo magnetico, un campo magnetico avrebbe potuto generare una corrente elettrica. Faraday diede una dimostrazione sperimentale dell’effetto nel 1831. Quattordici anni più tardi scoprì una connessione anche tra elettromagnetismo e luce dimostrando che un intenso campo magnetico può modificare la natura della luce polarizzata.
Faraday non aveva compiuto studi formali. Provenendo dall’umile famiglia di un fabbro dei dintorni di Londra, aveva lasciato la scuola a tredici anni per lavorare come fattorino e come rilegatore in una libreria. Lì, nel corso degli anni, si diede una formazione scientifica leggendo i libri di cui doveva prendersi cura ed effettuando esperimenti semplici e poco dispendiosi nel tempo libero. Alla fine ottenne un posto di assistente nel laboratorio del grande chimico Sir Humphry Davy, dove sarebbe rimasto per i restanti quarantacinque anni della sua vita, succedendo a Davy alla morte di questi. Faraday aveva difficoltà con la matematica e non ne imparò mai molta, ragione per cui concepire una descrizione teorica degli strani fenomeni elettromagnetici che osservava nel suo laboratorio gli richiese un grande sforzo. Ma ugualmente vi riuscì.
Una delle più importanti innovazioni intellettuali introdotte da Faraday fu il concetto di campo di forza. Al giorno d’oggi, grazie ai libri e ai film dove la fanno da padroni alieni con gli occhi da insetti e relative astronavi, la maggior parte delle persone ha familiarità con il termine, cosicché forse a Faraday spetterebbero dei diritti d’autore. Ma fin dai tempi di Newton uno dei grandi misteri della fisica era il fatto che le sue leggi sembravano indicare che le forze agiscono attraverso lo spazio vuoto che separa i corpi in interazione. A Faraday quest’idea non piaceva, in quanto era convinto che per far muovere un corpo qualcosa dovesse venire a contatto con esso. Così immaginò lo spazio interposto tra le cariche elettriche e i magneti riempito di tubetti invisibili che esercitano fisicamente spinta e trazione, e chiamò campo di forza l’insieme di questi tubetti. Un buon modo per farsi un’idea intuitiva di un campo di forza è l’esperimento che si effettua comunemente nelle aule scolastiche ponendo una lastra di vetro sopra un magnete a sbarra e spargendo della limatura di ferro sulla lastra. Dando qualche colpetto per vincere l’attrito, la limatura si muove come se fosse spinta da una forza invisibile e si dispone in modo da formare degli archi che vanno da un polo della calamita all’altro. Questa configurazione è una mappa della forza magnetica invisibile che permea lo spazio. Oggi si pensa che tutte le forze siano trasmesse da campi, e quindi quello di campo è un concetto importante nella fisica moderna... oltre che nella fantascienza.
Per diversi decenni la comprensione dell’elettromagnetismo segnò il passo, senza andare al di là della conoscenza di alcune leggi empiriche: l’intuizione che elettricità e magnetismo fossero strettamente connessi, sia pure in modo misterioso; l’idea che avessero una qualche specie di relazione con la luce; e il concetto embrionale di campo. C’erano almeno undici teorie dell’elettromagnetismo, tutte insoddisfacenti. Poi, negli anni ’60 dell’Ottocento, il fisico scozzese James Clerk Maxwell sviluppò le idee di Faraday traducendole in una struttura matematica che rendeva ragione della profonda e misteriosa relazione tra elettricità, magnetismo e luce. Il risultato fu un insieme di equazioni che descrivevano forze elettriche e forze magnetiche come manifestazioni della medesima entità fisica: il campo elettromagnetico; in tal modo elettricità e magnetismo venivano unificati in un’unica forza. Maxwell dimostrò inoltre che i campi elettromagnetici potevano propagarsi nello spazio sotto forma di un’onda. La velocità di tale onda era determinata da un numero che compariva nelle sue equazioni e che calcolò in base a dati sperimentali che erano stati misurati qualche anno prima. Con suo grande stupore la velocità così calcolata risultava uguale alla velocità della luce, che a quell’epoca era nota a livello sperimentale con un’incertezza dell’1 per cento. Aveva così scoperto che anche la luce è un’onda elettromagnetica!
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Campi di forza. Il campo di forza di un magnete a sbarra messo in evidenza dalla disposizione della limatura di ferro.
Oggi le equazioni che descrivono i campi elettrici e magnetici sono chiamate equazioni di Maxwell. Pochi ne hanno sentito parlare, ma si tratta probabilmente delle equazioni più importanti dal punto di vista commerciale che si conoscano. Non soltanto governano il funzionamento di tutto ciò che va dagli elettrodomestici ai computer, ma descrivono anche onde distinte dalla luce, come le microonde, le onde radio, la luce infrarossa e i raggi X. Tutte queste radiazioni differiscono dalla luce visibile soltanto per un aspetto: la loro lunghezza d’onda. Le onde radio hanno lunghezze d’onda di un metro o più, mentre la luce visibile ha una lunghezza d’onda di qualche decimilionesimo di metro e i raggi X inferiore a un centomilionesimo di metro. Il Sole irraggia a tutte le lunghezze d’onda, ma la sua radiazione ha un massimo di intensità alle lunghezze d’onda che ci sono visibili. Probabilmente non è un caso che le lunghezze d’onda che possiamo vedere a occhio nudo siano quelle a cui il Sole irraggia con maggiore intensità: è verosimile che i nostri occhi si siano evoluti con la capacità di rilevare la radiazione elettromagnetica in quella gamma proprio perché è la gamma presente in misura più abbondante. Se mai entreremo in contatto con esseri di altri pianeti, questi probabilmente avranno la capacità di «vedere» la radiazione alle lunghezze d’onda, quali che siano, che il loro sole emette con maggiore intensità, modulate da fattori quali le proprietà filtranti della polvere e dei gas presenti nell’atmosfera del loro pianeta. Così alieni evolutisi in presenza di raggi X potrebbero far carriera nel campo della sicurezza aeroportuale.
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Lunghezza d’onda. Microonde, onde radio, luce infrarossa, raggi X – e i diversi colori della luce visibile – differiscono soltanto per le loro lunghezze d’onda.
Le equazioni di Maxwell stabiliscono che le onde elettromagnetiche si propagano a una velocità di circa 300.000 chilometri al secondo, ossia a circa 1 miliardo e 80 milioni di chilometri all’ora. Ma parlare di una velocità non ha alcun significato se non si specifica un sistema di riferimento rispetto al quale la velocità viene misurata. Questa è una cosa a cui normalmente non occorre pensare nella vita quotidiana. Quando al volante vediamo un limite di velocità di 130 chilometri all’ora, è sottinteso che la nostra velocità sia misurata rispetto alla strada e non rispetto al buco nero che c’è al centro della Via Lattea. Ma anche nella vita di tutti i giorni ci sono occasioni in cui si deve tener conto dei sistemi di riferimento. Per esempio, se portate una tazza di tè lungo il corridoio di un jet in volo, potreste dire che la vostra velocità è di 3 chilometri all’ora. Chi si trovasse a terra, però, potrebbe dire che vi state muovendo a 920 chilometri all’ora. Perché non pensiate che l’uno o l’altro di questi osservatori abbia più ragione di pretendere che la propria affermazione sia la verità, tenete presente che, siccome la Terra gira intorno al Sole, qualcuno che vi guardasse dalla superficie di quel corpo celeste dissentirebbe da entrambi e direbbe che vi state muovendo a circa 30 chilometri al secondo, senza parlare della sua invidia per la vostra aria condizionata. Tenendo conto di tali divergenze, la domanda che si poneva quando Maxwell sostenne di aver scoperto che la «velocità della luce» emergeva dalle sue equazioni era: rispetto a che cosa è misurata la velocità della luce nelle equazioni di Maxwell?
Non c’è ragione di credere che il parametro di velocità che compare nelle equazioni di Maxwell sia una velocità misurata rispetto alla Terra. Le sue equazioni, dopotutto, si applicano all’intero universo. Una risposta alternativa che fu presa in considerazione per qualche tempo è che le sue equazioni specificassero la velocità della luce rispetto a un mezzo non ancora rivelato che permeerebbe lo spazio, mezzo chiamato etere luminifero o, per brevità, semplicemente etere, che è il nome usato da Aristotele per la sostanza che credeva riempisse tutto l’universo al di fuori della sfera terrestre. Questo ipotetico etere sarebbe il mezzo attraverso il quale le onde elettromagnetiche si propagano, proprio come il suono si propaga nell’aria. Se fosse esistito l’etere, ci sarebbe stato un criterio assoluto di quiete (cioè la quiete rispetto all’etere) e quindi anche una maniera assoluta di definire il moto. L’etere avrebbe fornito un sistema di riferimento privilegiato esteso in tutto l’universo, rispetto al quale si sarebbe potuta misurare la velocità di qualunque corpo. Perciò l’esistenza dell’etere venne postulata per ragioni teoriche, e ciò indusse alcuni scienziati a cercare un modo per studiarlo, o almeno per confermarne l’esistenza. Uno di questi scienziati era Maxwell stesso.
Se correte incontro a un’onda sonora nell’aria, l’onda vi si avvicina più rapidamente, e se correte in direzione opposta, vi si avvicina più lentamente. Analogamente, se vi fosse un etere, la velocità della luce dovrebbe variare in dipendenza dal vostro moto rispetto a tale mezzo. In effetti, se la luce si comportasse come il suono, proprio come i passeggeri su un jet supersonico non sentono mai alcun suono emesso dalla parte posteriore dell’aereo, così anche i viaggiatori in moto con velocità sufficiente attraverso l’etere potrebbero lasciare indietro un’onda luminosa. Muovendo da queste considerazioni, Maxwell propose un esperimento. Se esiste un etere, la Terra deve muoversi attraverso di esso mentre orbita intorno al Sole. E siccome la Terra in gennaio si sposta in una direzione diversa rispetto, diciamo, ad aprile o a luglio, si dovrebbe riuscire a osservare una minuscola differenza nella velocità della luce in differenti periodi dell’anno, come mostra la figura qui sotto.
Maxwell fu dissuaso dal pubblicare la sua idea sui «Proceedings of the Royal Society» dal direttore della rivista, il quale pensava che l’esperimento non avrebbe funzionato. Ma nel 1879, poco prima di morire all’età di quarantotto anni per un doloroso cancro allo stomaco, Maxwell mandò a un amico una lettera sull’argomento. La lettera fu pubblicata postuma sulla rivista «Nature», dove la lesse, fra gli altri, un fisico americano di nome Albert Michelson. Ispirati dalla congettura di Maxwell, nel 1887 Michelson ed Edward Morley effettuarono un esperimento di grande precisione volto a misurare la velocità con la quale la Terra si muove attraverso l’etere. L’idea dei due fisici americani era di confrontare la velocità della luce in due direzioni diverse, perpendicolari tra loro. Se tale velocità era una costante rispetto all’etere, le misurazioni avrebbero dovuto mettere in evidenza velocità della luce differenti a seconda della direzione del raggio luminoso. Ma Michelson e Morley non osservarono alcuna differenza del genere.
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Moto attraverso l’etere. Se fossimo in moto attraverso l’etere, dovremmo essere in grado di rilevare tale moto osservando delle differenze stagionali nella velocità della luce.
Il risultato dell’esperimento di Michelson e Morley è chiaramente in conflitto con il modello in cui le onde elettromagnetiche si propagano attraverso un etere, e avrebbe dovuto portare all’abbandono del modello. Ma lo scopo di Michelson era stato quello di misurare la velocità della Terra rispetto all’etere, non di provare o confutare l’ipotesi dell’etere in sé, e il suo risultato non lo indusse a concludere che l’etere non esisteva. E nessun altro trasse tale conclusione. Anzi, il celebre fisico Sir William Thomson (più tardi Lord Kelvin) aveva affermato ancora nel 1884: «L’etere luminifero ... è l’unica sostanza di cui siamo sicuri in dinamica. Di una cosa siamo certi, ed è la realtà e sostanzialità dell’etere luminifero».
Come è possibile credere all’etere nonostante i risultati dell’esperimento di Michelson-Morley? I fisici, come spesso accade, tentarono di salvare il modello mediante aggiunte artificiose su misura. Alcuni postularono che la Terra trascinasse con sé l’etere, in modo che in realtà non vi fosse moto rispetto a esso. Il fisico olandese Hendrik Antoon Lorentz e il fisico irlandese George Francis FitzGerald suggerirono che in un sistema di riferimento in moto rispetto all’etere, probabilmente a causa di qualche effetto meccanico non ancora noto, gli orologi rallentassero e le distanze si contraessero, in modo che la misura della velocità della luce desse ancora il medesimo risultato. Gli sforzi di salvare il concetto di etere continuarono per circa vent’anni, fino alla pubblicazione di una straordinaria memoria di un giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna, Albert Einstein.
Einstein aveva ventisei anni nel 1905, quando pubblicò il suo articolo Zur Elektrodynamik bewegter Körper (L’elettrodinamica dei corpi in movimento), in cui formulò la semplice ipotesi che le leggi della fisica, e in particolare la velocità della luce, dovessero apparire identiche a tutti gli osservatori in moto uniforme. Questa idea di fatto richiede di rivoluzionare i nostri concetti di spazio e di tempo. Per renderci conto del perché, immaginiamo due eventi che si verificano nel medesimo punto ma in istanti diversi su un jet di linea. Per un osservatore sull’aereo ci sarà una distanza nulla tra i due eventi. Ma per un secondo osservatore a terra gli eventi saranno separati dalla distanza percorsa dal jet nel tempo trascorso tra i due eventi. Ciò mostra che due osservatori in moto l’uno rispetto all’a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il grande disegno
  3. I Il mistero dell’essere
  4. II Il dominio della legge
  5. III Che cos’è la realtà?
  6. IV Storie alternative
  7. V La teoria del tutto
  8. VI Scegliere il nostro universo
  9. VII L’apparente miracolo
  10. VIII Il grande disegno
  11. Glossario
  12. Ringraziamenti
  13. Indice dei nomi
  14. Dello stesso autore
  15. copyright