Segreto di Stato. Il caso Nicolò Pollari
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Segreto di Stato. Il caso Nicolò Pollari

A dieci anni dal sequestro di Abu Omar, la prima ricostruzione che fa luce sulle ombre di un gigantesco caso politico, giudiziario e diplomatico internazionale.

  1. 100 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Segreto di Stato. Il caso Nicolò Pollari

A dieci anni dal sequestro di Abu Omar, la prima ricostruzione che fa luce sulle ombre di un gigantesco caso politico, giudiziario e diplomatico internazionale.

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Gli Instant Book di Panorama. A dieci anni dalla cattura dell'imam egiziano a Milano, sono molti gli interrogativi che rimangono irrisolti sullo sfondo di un gigantesco caso politico, giudiziario e diplomatico. Chi è veramente Abu Omar? Quali sono i suoi reali rapporti con i servizi segreti americani ed egiziani? Come si spiegano le "sviste" della Procura di Milano che ritardano le indagini? Com'è possibile che la Cia operi con tanta disinvoltura? Gli 007 americani pensano forse di poter contare su qualche copertura? Qual è il ruolo della Digos e del Ros nell'operazione? E quali sarebbero, se esistono, le prove del coinvolgimento del Sismi? Documenti inediti e risultanze processuali per una ricostruzione diversa dello strano processo, che ha messo alla sbarra le spie dei servizi di due Paesi e ha condannato a dieci anni di carcere l'ex direttore dell'intelligence italiana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852038815
Capitolo 1

I segreti di Abu Omar

1.1 Il vero volto dell’imam

“Provo compassione per il generale Pollari per il fatto che dovrà scontare tanti anni di carcere”. Dopo un annoso silenzio Abu Omar, dai microfoni del principale telegiornale pubblico italiano, dedica le prime parole a lui, a Nicolò Pollari. L’ex imam di Milano esprime la propria solidarietà nei confronti dell’ex numero uno dei servizi segreti italiani, l’uomo che fu chiamato a guidare l’intelligence militare all’indomani dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001, una data ormai impressa indelebilmente nella memoria collettiva.
La solidarietà di Abu Omar è rivolta al generale italiano che, nella requisitoria del pm Armando Spataro, viene dipinto come il “regista di un sistema criminale” che ha portato al rapimento dell’egiziano. Il quale da persona ormai libera, intervistato per la prima volta dal principale notiziario televisivo italiano, si premura innanzitutto di mostrarsi vicino al proprio presunto carnefice. Incredibile.
Attorno al fatto noto come “sequestro Abu Omar” si affastellano diversi interrogativi, e l’incredibile prevale sul credibile. Si rimane per esempio increduli dinanzi a ricostruzioni e circostanze che, anziché spiegare quel che effettivamente accadde il 17 febbraio 2003, sollevano invece ulteriori quesiti circa i protagonisti della vicenda e i ruoli da essi effettivamente svolti. Del resto, nel gioco delle spie, l’invisibilità è la regola. Se sei un invisibile, sei in grado di agire senza lasciare tracce né proiettare ombre.
Sono trascorse poche ore dal verdetto della Corte d’appello di Milano nell’ambito del processo bis all’ex direttore del Sismi, che è stato condannato a dieci anni di carcere. Si tratta di un ribaltamento dei precedenti giudizi di proscioglimento in primo e in secondo grado, che hanno stabilito il non luogo a procedere nei confronti di Pollari e dell’ex dirigente del controspionaggio del Sismi Marco Mancini in virtù del segreto di Stato. “Chi mi fermò in istrada per chiedermi i documenti parlava un perfetto italiano, ma il suo aspetto era quello di un americano”, così Abu Omar al Tg1 chiarisce di non avere alcuna certezza circa l’effettivo coinvolgimento dei servizi segreti italiani. Ed, in realtà, è emerso dall’indagine che chi lo fermò per chiedergli i documenti era proprio un italiano, ma non un appartenente al Sismi, bensì il maresciallo del Ros Luciano Pironi, che ha ammesso di aver partecipato all’operazione. L’imam aggiunge che nel 2005, mentre è ancora detenuto nel carcere di Torah e il processo in Italia non è neppure agli inizi, alcuni ufficiali egiziani della sicurezza di Stato gli offrono due milioni di dollari e un passaporto americano per lui e per i figli, in cambio di una nuova versione: nessun rapimento, ma un trasferimento volontario da Roma al Cairo. Alla domanda del giornalista circa i cospicui risarcimenti stabiliti dalla Corte d’appello pari a un milione di euro per lui e a cinquecentomila euro per la moglie (dalla quale nel frattempo dichiara di aver divorziato), Abu Omar risponde: “Semmai un giorno dovessi davvero ricevere quei soldi, ne voglio donare una parte alle organizzazioni americane e italiane per la protezione dei diritti umani. Sarà un modo per ringraziarle di avermi difeso”. Lo hanno difeso le organizzazioni per i diritti umani di mezzo mondo. Lui intende finanziare segnatamente quelle di Stati Uniti e Italia.
Ma partiamo dal 17 febbraio 2003, anzi da qualche giorno prima. Il vero nome di Abu Omar è Hassan Moustafa Osama Nasr, classe 1963, è figlio di attivisti del Wafd, partito nazionalista di opposizione, cui aderisce all’età di sedici anni. Arriva in Italia nel 1997 al termine di un lungo e tormentato percorso. In Egitto egli è un oppositore politico del governo in carica guidato da Hosni Mubarak, che diventa Presidente del Paese nel 1981 e mantiene tale incarico per quasi trent’anni. Nel 1989 Abu Omar subisce due detenzioni per aver indirizzato alcuni sermoni contro il governo egiziano in una moschea di Alessandria. Prima di giungere in Italia, Abu Omar fa tappa in Giordania, Yemen, Pakistan. Di questi viaggi parla poco, racconta di aver lavorato in organizzazioni umanitarie islamiche, rimane sul vago. Nell’istanza con cui Abu Omar chiede asilo politico all’Italia nel novembre del 1999, l’uomo racconta di aver insegnato in una scuola religiosa ad Amman, mentre a Peshawar si sarebbe occupato di orfani. Come vedremo più avanti, quello che rileva maggiormente in questo documento, di cui sono entrata in possesso, non riguarda il suo pellegrinaggio quanto piuttosto il capitolo egiziano.
Nel 1991 l’egiziano arriva in Albania dove gli viene riconosciuto lo status di rifugiato politico. Si sposa e ha due figli. Ben presto si mette in evidenza grazie ad una proficua attività di aggregazione di sodali musulmani, con i quali viene sospettato di voler mettere in atto un complotto antiamericano. Li chiamano “gli albanesi della Jamaa Islamiya”, una frangia dell’integralismo islamico alleata, secondo alcuni, a Osama Bin Laden.
Nel 1995 durante un raduno di islamisti, al quale naturalmente non può mancare la guida spirituale Abu Omar, piomba un commando dell’intelligence americana che spara sulla folla. Una persona viene colpita a morte. Non si sa come gli americani abbiano potuto mettere a segno un’operazione così precisa, certamente possono contare su alcuni informatori infiltrati nella rete islamica albanese della Jamaa, che nel giro di pochi giorni subisce una autentica retata messa a punto dalla Cia e dallo Shik (i servizi segreti albanesi). Che Abu Omar sia tra quegli infiltrati?
Sono i capi dipartimento dei servizi albanesi, Astrit Nasufi e Flamur Giymisha, a chiarire il ruolo svolto da Abu Omar nel Paese balcanico svelandone i retroscena al Chicago Tribune nel 20051. Tra i membri della rete islamica all’improvviso scompaginata dall’attacco americano soltanto uno è rimasto a piede libero: Abu Omar. Una circostanza che desta qualche sospetto. Nel febbraio del 2007, intervistato da Al Jazeera, è lo stesso egiziano a riferire di essere stato più volte avvicinato dalla Cia e dai servizi segreti egiziani con la proposta di lavorare per loro, ma all’emittente araba Abu Omar racconta di aver sempre rifiutato una simile offerta. Quando il giornalista tenta di indagare le possibili ragioni dell’interessamento americano nei confronti del predicatore egiziano, egli spiega di aver gestito un negozio di generi alimentari in Albania e di aver coltivato così una rete di rapporti “con un gran numero di arabi, soprattutto quelli che lavoravano per l’organizzazione del soccorso musulmano”. L’intelligence statunitense “decise che io ero la persona ideale per raccogliere informazioni sui miei confratelli”. Ma lui, ripete, rifiutò ogni offerta.
Nella richiesta di asilo politico indirizzata all’Italia nel 1999, Abu Omar racconta un aneddoto pure interessante. Egli dichiara di essersi recato nel ’98 presso il consolato egiziano per ottenere il rilascio di un certificato di cittadinanza; in quella occasione avrebbe appreso da un funzionario di essere sotto osservazione da parte dei servizi segreti egiziani tanto che il consolato disponeva di materiale videoregistrato concernente la sua attività di imam in un centro religioso a Latina, dove viveva a quel tempo. Addirittura, racconta nell’istanza, “alcuni agenti di sicurezza del consolato mi hanno minacciato di sequestrarmi all’interno e di espatriarmi in Egitto. Ho capito che i servizi di sicurezza egiziani non intendono lasciarmi in pace dopo la mia fuga dall’Egitto e dall’Albania, e che prima o poi sarò sequestrato o ucciso”. Non c’è dubbio che nel racconto fornito dall’egiziano qualcosa non torna, pare inverosimile che i funzionari consolari gli confidino l’esistenza di controlli a suo carico e poi gli intimino di uscire dall’edificio minacciandolo altrimenti di un improvviso sequestro. Ad ogni modo dalle ammissioni di Abu Omar si evince che il “fantasma” egiziano esiste già. L’imam sa che gli agenti del Mukhabarat lo tengono d’occhio.
A dieci anni dal sequestro, Carmelo Scambia, avvocato dell’imam, dichiara di non poter escludere l’avvenuto reclutamento del suo assistito tra gli informatori dell’intelligence americana ed egiziana; ipotesi questa che, per ammissione dello stesso difensore, scioglierebbe i nodi centrali di una vicenda a dir poco intricata.
Scampato alla retata albanese, non senza lasciare dietro di sé un’onda di sospetti, l’imam radicale prende la strada dell’Italia passando per la Germania. Egli si muove indisturbato nel cuore dell’Europa. Forse è un uomo che conta o forse sa su chi poter contare. In Italia, come vi aspettate che accada ad un terrorista appena sfuggito ad un blitz della Cia, egli ottiene l’asilo politico. Per non farsi notare inoltre riprende la stessa attività di aggregazione svolta in Albania.
Torniamo alle rivelazioni degli agenti albanesi. Da loro si apprende che tra il ’95 e il ’97 Abu Omar è stato “il più produttivo informatore della Cia e dei servizi segreti albanesi”, ricostruzione questa che spiega molte cose. A detta delle spie balcaniche, tutto comincia in seguito ad un arresto “accidentale”: su segnalazione della Cia, lo Shik scopre che a lui è intestata una Land Rover verde scuro che allerta l’antiterrorismo. Dietro le sbarre, dopo dieci giorni di interrogatori e “senza troppe pressioni fisiche”, racconta al quotidiano di Chicago l’allora numero due dello Shik Nasufi, “Abu Omar ha ammesso di far parte della Jamaa egiziana, ha fatto i nomi di una decina di affiliati e ha fornito almeno venti o trenta temi d’indagine alla Cia”. Insomma, pur di aver salva la pelle Abu Omar tradisce i “fratelli” musulmani. Gli ufficiali albanesi ormai in pensione spiegano che il loro dipartimento “era in sostanza un braccio della Cia”, ad addestrarli era il capocentro dell’ intelligence americana: dapprima un certo “Mike”, poi sostituito da “Francis” in seguito alla scomparsa improvvisa del primo in un incidente stradale nel 1996.
Grazie ai racconti di Abu Omar durante i giorni dell’arresto la Cia ottiene “rapporti manoscritti” da quella fonte che gli americani considerano “molto credibile”. Perché gli americani si fidano dell’egiziano Abu Omar? Gli americani si fidano dell’Egitto di Mubarak, è ancora lontana la rivolta di piazza Tahrir e il Paese dei Faraoni è il più fedele alleato degli Stati Uniti nell’area mediorientale. Ma fino a che punto gli egiziani conoscono il concittadino Abu Omar? Abbiamo già detto che nel 1989 egli è detenuto per due volte, seppur per brevi periodi, in un carcere egiziano, l’accusa è fomentazione all’odio islamico. All’apparenza Abu Omar è un oppositore di Mubarak, è un islamista votato alla Jihad. Certo che, come ammette lo stesso Omar e come emerge dallo speciale trattamento riservatogli da americani ed egiziani, i suoi rapporti con i servizi segreti di entrambi i Paesi non si rivelano nei fatti così ostili. Addirittura, racconta lo stesso egiziano, egli deve ripetutamente rifiutare richieste di reclutamento in qualità di informatore. Nella richiesta di asilo politico indirizzata all’Italia lo stesso Abu Omar, a proposito del secondo arresto da parte delle autorità egiziane nel 1989, scrive: “Mi hanno costretto a sottoscrivere una dichiarazione di appartenenza alla Jamaa Islamiya e di essere un combattente di questo gruppo. Mi hanno chiesto di lavorare per loro per evitare di ritornare in carcere; volevano che sfrutti la fiducia e l’immagine della quale godo tra gli islamici per poter infiltrarmi nelle file del movimento islamico e passare le informazioni ai servizi di sicurezza”. Egli nega di aver ceduto a tali richieste. È assodato invece che almeno in Albania l’egiziano venga reclutato, almeno per qualche tempo egli diventa un confidente di primo piano della Cia e non solo. Non senza una punta di orgoglio, Nasufi ammette: “Era la prima volta che riuscivamo a rifornire gli americani di informazioni”. Un passato così ingombrante, da tenere assolutamente nascosto ai fratelli islamici che altrimenti lo inchioderebbero al ruolo di traditore, spiegherebbe pure perché nel ’95 Omar è l’unico a sfuggire miracolosamente alla retata coordinata da Cia e Shik. In questa ottica si comprende anche perché l’intelligence egiziana punti su di lui. Di lì a poco, dopo essersi aggirato indisturbato nel cuore dell’Europa, l’imam si trasferisce in Italia.

1.2 Missione compiuta

A Milano Abu Omar va ad abitare in via Conte Verde al civico 18 in un appartamento già posto sotto osservazione dalla Digos perché occupato, prima dell’arrivo dell’imam, da un altro cittadino straniero su cui la polizia aveva avviato un’indagine. L’egiziano riprende tranquillamente l’attività di imam, il luogo di aggregazione questa volta è il centro culturale islamico di via Quaranta. Egli torna a fare esattamente quello che faceva in Albania, prosegue l’opera di indottrinamento, scaglia duri sermoni contro i “massacri” degli Stati Uniti e ogni giovedì pubblica in proprio una rivista intitolata “La verità islamica”. Tutto fila liscio sennonché, a differenza di quanto accaduto in Yemen e in Albania, nella città meneghina si concentrano su di lui simultaneamente le attenzioni della Procura, della Digos, dei carabinieri del Ros e dei servizi segreti italiani.
Abu Omar è considerato un estremista islamico e dopo l’11 settembre la lotta al terrorismo è una missione globale, la cui barra di comando è saldamente nelle mani degli Stati Uniti. La Jihad islamica è internazionale, la risposta degli Stati non può che essere tale. L’alleanza tra Silvio Berlusconi e George Bush è solida e l’Italia vuole fare la sua parte nella “coalition of the willing” (coalizione dei volenterosi, ndr) contro il regime di Saddam Hussein in Iraq.
Nel capoluogo lombardo ogni mattina Abu Omar esce di casa intorno a mezzogiorno, lo attende la salat ul Zhor, la preghiera che scandisce l’inizio del pomeriggio. Dall’appartamento in via Conte Verde egli si incammina a piedi verso l’istituto culturale islamico di viale Jenner al numero civico 50. Si tratta di un percorso breve, meno di un chilometro, arrivando da via Guerzoni si svolta a destra ed ecco che si staglia l’insegna del centro musulmano.
Il 14 febbraio, mentre Abu Omar si trova all’altezza di un centro medico, viene fotografato da qualcuno che poi mette le immagini a disposizione della Cia. Ma chi scatta quelle fotografie, una delle quali viene successivamente trovata nel computer del capocentro dei servizi segreti americani a Milano, Robert Seldon Lady, amichevolmente chiamato “Bob”? Non il Sismi, visto che nulla è emerso anche a seguito delle indagini svolte. E allora chi può essere stato? Seldon Lady lo sa di certo, ma lui è latitan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Segreto di Stato. Il caso Nicolò Pollari
  4. Prefazione di Edward Luttwak
  5. Premessa dell’autrice
  6. 1. I segreti di Abu Omar
  7. 2. Il processo
  8. 3. Il Caso Pollari
  9. Conclusione
  10. Note
  11. Copyright