A trentacinque anni Dante perse la strada maestra e si ritrovò, di notte, in una foresta fitta e spaventosa. Non sa dire come e perché si fosse perduto: in quel momento, infatti, dormiva troppo profondamente.
Dante, dunque, sta riferendo un sogno. Quando il sonno è profondo, insegna Aristotele, non si producono sogni o se ne producono solo di confusi, mentre diventano più limpidi, e perciò restano impressi nella memoria, a mano a mano che il sonno si purifica.
Dante, però, ricorda che sul fare del giorno, dopo aver vagato tutta la notte, era capitato ai piedi di un colle i cui fianchi erano illuminati dai primi raggi del sole.
Sorgeva l’alba del 25 marzo 1300.
La vista del colle soleggiato gli diede coraggio, e così, riposatosi un po’, gettò un’ultima occhiata alla foresta alle sue spalle e cominciò a salire. Fatti pochi passi, gli si parò davanti una lince dalla pelle screziata: non solo gli impediva di proseguire, ma lo respingeva in basso. Dante, tuttavia, non si scoraggiò. L’ora mattutina e la stagione primaverile lo rendevano fiducioso. E invece, ecco apparire un leone: muoveva contro di lui ruggendo con rabbia. Dante si spaventò. Ma subito dopo lo spaventò ancora di più, anzi, lo paralizzò di paura, una lupa vorace e magrissima, quasi consunta dalla bramosia. Perse la speranza di arrivare sulla cima. La lupa, infatti, gli andava incontro senza fretta e lui retrocedeva: cosicché a poco a poco lo stava ricacciando nella foresta dalla quale era appena uscito.
Una scena come questa ha significati che vanno al di là di quello letterale; in altre parole, si tratta di una scena allegorica. E in effetti tutti gli elementi che la costituiscono associano un significato simbolico a quello primario. La selva è un simbolo trasparente del male e del peccato, nel cui intrico si sono smarriti sia il personaggio Dante sia l’intera cristianità. Ne consegue che il sonno è reale, ma anche metaforico: il peccato ha intorpidito la sensibilità. Se il sonno reale impedisce di ricordare sogni troppo confusi, quello metaforico precipita il soggetto in uno stato di incoscienza. Il colle illuminato rappresenta la condizione di felicità terrena a cui gli uomini tendono con l’aiuto della virtù e della ragione. E le tre fiere simboleggiano i vizi che impediscono di raggiungere proprio quell’obiettivo: la lince incarna la lussuria; il leone, la superbia; la lupa, l’avidità. È quest’ultima la causa principale che impedisce agli uomini di essere felici. Dante ha di mira la moderna società mercantile, basata sullo scambio di beni e sulle transazioni finanziarie, di cui la sua Firenze fornisce l’esempio più completo. Il pensiero sottinteso è che bisogna liberarsi di quel modello economico e sociale.
Mentre scendeva dal fianco del colle retrocedendo verso la foresta, Dante scorse un essere umano, il cui aspetto non lasciava capire se fosse una persona viva o lo spettro di un defunto.
«Pietà» gridò «chiunque tu sia, ombra o uomo!»
«Non sono un uomo, lo sono stato» fu la risposta.
Disse di essere nato a Mantova, al tempo di Giulio Cesare, e di essere vissuto a Roma sotto l’imperatore Augusto; poeta, aveva cantato le imprese compiute da Enea dopo che fuggì da Troia in fiamme.
È Virgilio, l’autore dell’Eneide, vissuto fra il 70 e il 19 a.C. Sarà lui a fare da guida a Dante sia nella discesa all’Inferno sia nella salita al Purgatorio. Virgilio non è una figura allegorica: è qui a incarnare il potere della ragione e i valori culturali che l’antichità aveva elaborato prima che Dio si rivelasse nella storia.
«Ma tu» proseguì «perché vuoi tornare in quella paurosa foresta invece di salire sul colle che genera ogni umana felicità?»
Dante, che aveva riconosciuto la fonte di ogni eloquenza, gli rispose deferente. Gli disse che lui era il faro per tutti gli altri poeti, il suo maestro e la sua massima autorità, il solo dal quale aveva appreso lo stile elevato che gli aveva dato fama di poeta; in nome dell’amore che lo aveva spinto a leggere e a studiare il suo poema, lo pregò di aiutarlo contro quella lupa feroce. E, nel dirlo, piangeva.
«Per uscire da questa foresta e salvarti da questa lupa che uccide chiunque cerchi di passare e che, dopo aver mangiato, è più affamata di prima» gli rispose Virgilio «devi seguire un’altra strada.» Come dire: nella situazione in cui ti trovi, virtù e ragione sono inefficaci, ben altra esperienza ti è necessaria. E continuò con una profezia: la lupa si accoppia con molti animali e seguiterà a farlo finché un veltro, un cane da caccia, non ne farà strazio. Questo veltro non si ciberà di beni materiali, ma di saggezza, d’amore e di virtù, le prerogative della Trinità. Sarà la salvezza della misera Italia, per la quale hanno dato la vita la vergine Camilla, Eurialo, Turno e Niso, morti tutti, come si legge nell’Eneide, combattendo dall’una e dall’altra parte nella guerra tra i latini e i troiani. Il veltro ricaccerà la lupa all’Inferno, da dove il demonio l’aveva liberata.
Chi si nasconde dietro l’immagine del veltro? Quale personaggio storico e in quale epoca salverà l’Italia distruggendo le forze diaboliche degli interessi economici, mercantili e finanziari? Molto probabilmente nessuno. Questa sembra una profezia generica, priva di un referente concreto. Può darsi che Dante pensi a un futuro imperatore oppure, ed è forse l’ipotesi più plausibile, a un papa che riconduca la Chiesa alla povertà evangelica e che, attraverso la riforma della Chiesa, trasformi l’intera società cristiana.
«Seguimi,» continuò Virgilio «ti guiderò attraverso l’Inferno, dove sentirai le grida disperate dei dannati, e attraverso il Purgatorio, dove vedrai le anime contente di soffrire perché sicure di raggiungere la beatitudine. Al Paradiso, invece, ti condurrà un’anima più degna di me: a me, pagano, Dio nega l’accesso alla città dei santi.»
L’anima più degna è quella di Beatrice, al secolo Bice Portinari, la donna amata e cantata da Dante in gioventù, morta dieci anni prima, nel 1290. Dante aveva raccontato la storia del suo amore per lei nella Vita Nova. Nelle ultime righe del libro aveva promesso di dedicare a Beatrice salita in Paradiso un’opera più degna di lei, ma poi aveva disatteso la promessa. Con la Commedia, finalmente, onora quell’impegno.
Dante rispose prontamente: «Portami là dove hai detto. Fammi vedere la porta del Purgatorio e i dannati dell’Inferno».
Allora Virgilio si mosse e lui lo seguì.
Avevano camminato per tutto il giorno, il sole stava tramontando. La notte dava riposo a uomini e animali; solo Dante, sveglio, cercava dentro di sé la forza per affrontare il terribile viaggio che, come autore, si appresta a raccontare, se le Muse, l’ingegno e la memoria lo assisteranno.
«Ma tu sei proprio convinto che io sia capace di fare ciò che mi chiedi?» domandò a Virgilio. «Hai scritto che Enea, ancora vivo, è andato nell’aldilà. Ebbene, è evidente che Dio gli aveva concesso tale privilegio perché lui, Enea, predestinato a fondare Roma, nel mondo dei morti avrebbe appreso cose necessarie per compiere la sua impresa. Nei piani divini Roma avrebbe dato vita a un impero, e così i papi, che in quella città avrebbero avuto sede, avrebbero diffuso in tutto il mondo il messaggio cristiano. Anche san Paolo è salito, vivente, in Paradiso; e questo affinché il suo apostolato ne avesse giovamento e la fede cristiana si spandesse più sicura tra i popoli. Ma io non sono Enea, non sono Paolo! So bene di non essere degno di questo privilegio. Per me questo viaggio sarebbe una pazzia.»
Insomma, combattuto tra paura e desiderio, nel corso della notte Dante aveva consumato la bella sicurezza con la quale si era messo in cammino.
«La tua» gli rispose Virgilio «è viltà, e la viltà impedisce agli uomini di compiere grandi imprese. A questo punto è bene che io ti riveli perché ti sono venuto incontro.»
Raccontò che nel Limbo, dove egli era relegato tra le anime non sottoposte ai tormenti infernali ma prive della speranza di conoscere la beatitudine celeste, si era sentito chiamare per nome. Una donna bella, dagli occhi più splendenti delle stelle, con una voce angelica e modi semplici e soavi, gli aveva detto che un suo amico, un vero amico, aveva perso la strada e aveva bisogno di aiuto. Lo aveva pregato di soccorrerlo, pur temendo che ormai fosse troppo tardi. Aveva detto di chiamarsi Beatrice, di essere discesa dal Cielo spinta dall’amore. Lui si era dichiarato pronto a esaudire quel desiderio, ma le aveva chiesto come mai un’anima beata non avesse avuto timore di scendere dal Paradiso fino all’Inferno.
«Bisogna temere» gli aveva risposto lei «solo ciò che può nuocere, ma niente di questo vostro mondo infelice può toccare me beata.»
In Paradiso, aveva continuato Beatrice, la Vergine Maria provava compassione di quell’amico suo incapace di uscire dalla foresta, tanto che, infrangendo la severa sentenza emessa da Dio contro di lui, aveva chiamato Lucia e le aveva raccomandato di prendersi cura di quell’uomo, che era pure un suo devoto. Lucia era subito corsa al luogo dove lei, Beatrice, sedeva accanto a Rachele, la moglie di Giacobbe, e le aveva detto:
«Beatrice, perché non aiuti colui che ti ha tanto amata e che si è innalzato sopra gli altri rimatori grazie alle poesie scritte per te? Non ti addolora vederlo vicino a morire?»
Santa Lucia è la martire di Siracusa venerata come protettrice della vista. Dante soffriva di disturbi agli occhi, e ciò potrebbe spiegare la devozione che nutriva nei suoi confronti. È probabile che anche Beatrice, in vita, fosse una sua devota. La casa del quartiere d’Oltrarno nella quale Bice Portinari era vissuta dopo aver sposato Simone dei Bardi, infatti, era quasi addossata a una chiesa dedicata alla santa, ed è perfino ipotizzabile che la donna fosse stata sepolta proprio lì. C’erano tutte le condizioni biografiche, dunque, perché nel poema santa Lucia svolgesse una funzione di tramite tra Dante e Beatrice.
Udite quelle parole, Beatrice si era subito alzata dal suo scranno e si era precipitata all’Inferno. Mentre parlava, disse Virgilio, piangeva, e anche questo lo aveva spronato ad affrettarsi a salvare Dante dalla lupa.
«Dunque, cosa ti succede? Perché ti fermi? Perché ti lasci prendere dalla viltà? Sapere che tre donne come queste vegliano su di te in Paradiso dovrebbe darti coraggio.»
E Dante il coraggio lo ritrovò immediatamente.
«Sono deciso» gli disse. «Fammi da guida e da maestro.»
E così cominciarono a scendere per un cammino impervio.
«Attraverso di me si entra nella città del dolore, attraverso di me si entra dove il dolore è eterno, attraverso di me si va tra i dannati. Mi ha costruito la giustizia divina, Padre, Figlio e Spirito Santo; prima di me esistevano solo cose incorruttibili, ma anch’io duro in eterno. Lasciate ogni speranza, voi che entrate.»
Queste minacciose parole, scritte sull’architrave di una porta, sgomentarono Dante. Era la porta che immetteva nell’Inferno.
«Adesso abbandona ogni esitazione» lo esortò Virgilio. «Qui, come ti ho detto, vedrai le anime che hanno perduto per sempre la visione di Dio.»
Poi, con un sorriso rassicurante, lo prese per mano e lo condusse dentro quel mondo negato ai viventi.
Sospiri, pianti, acuti lamenti echeggiavano sotto una volta scura, senza stelle: imprecazioni, sussurri, strida nelle lingue più diverse, e il rumore di mani e di corpi percossi scuotevano come un turbine quell’aria eternamente buia. Inorridito, Dante chiese a Virgilio chi fosse la gente che si lamentava in quel modo.
«Questi» spiegò Virgilio «in vita non furono né buoni né cattivi. Con loro sono mischiati gli angeli vili che non si schierarono né con Lucifero né con Dio. I cieli li rifiutano, ma nemmeno l’Inferno li vuole: che gloria potrebbero mai dargli simili peccatori?»
«Ma cosa li tormenta tanto?» chiese Dante.
«Semplicemente l’essere privi di ogni speranza, perfino quella di essere annichiliti per sempre» rispose Virgilio. «Sulla Terra nessuno li ricorda, Dio non li degna né della sua misericordia né della sua giustizia. Non parliamo di loro, guardali e tira dritto.»
Dante vide un’interminabile sequela di spiriti correre veloci e senza meta dietro a una bandiera. Mai avrebbe creduto che tante persone fossero vissute sulla Terra. Ne riconobbe qualcuna, ma solo dopo aver riconosciuto l’anima di colui che per viltà fece il gran rifiuto capì che quella era la folla degli ignavi, i vigliacchi già morti quando erano ancora in vita, disprezzati da Dio e dal Diavolo. Nudi, erano punti da mosconi e da vespe: il sangue che gli rigava il volto cadeva ai loro piedi mischiato alle lacrime e qui era succhiato da vermi schifosi.
I lettori del tempo di Dante non esitavano a riconoscere nel vile che fece il gran rifiuto papa Celestino V, l’eremita Pietro del Morrone – uomo di vita santa, ma inesperto di problemi ecclesiastici e politici – che si era dimesso dopo pochi mesi di pontificato (5 luglio - 13 dicembre 1294). Gli sarebbe succeduto, con il nome di Bonifacio VIII, il cardinale Benedetto Caetani, che Dante considerava il suo più acerrimo nemico personale, la causa prima della sua rovina e della corruzione della Chiesa. Per l’intera durata del suo pontificato Bonifacio VIII fu perseguitato dall’accusa di essere stato lui a indurre Celestino alle dimissioni per potergli succedere, accusa a cui Dante mostra di dare credito.
Guardando davanti a sé Dante vide una massa di anime accalcarsi sulla riva di un fiume.
«Chi sono?» chiese a Virgilio. «Perché sembrano così desiderose di passare di là?»
«Lo saprai quando saremo vicini all’Acheronte, il fiume del dolore» fu la risposta.
Dante ebbe la sensazione che le sue parole infastidissero Virgilio e allora, con gli occhi bassi per la vergogn...