IL COBRA
Gianni Clerici
Eravamo a Santiago del Cile per la finale della Coppa Davis.
Poiché la nostra vicenda sportiva era stata preceduta da un golpe di destra, una parte dell’opinione pubblica, o almeno chi riteneva di rappresentarla, aveva deciso che Panatta & Co. dovessero astenersi dal match, per dare una lezione al General Pinochet e ai suoi complici.
Erano seguite infinite polemiche – lo sport è o non è apolitico come la Croce Rossa? – ma si era, alla fine, riusciti ad evitare un referendum, e tennisti e suiveurs erano volati in Cile.
Mentre i giocatori si allenavano, tifosi e cronisti sedevano al bar, ma gli appartenenti alla fazione sconfitta non si davano pace. La buttavano in politica, e se la prendevano con i neutrali, dei quali facevo parte.
Come li ebbi provocati a dare una lezione ad un Generale tanto a portata di mano, magari con lancio di agrumi o un bel sit-in in mezzo al campo, presero a compatirmi, e uno trovò addirittura il modo di definirmi fascista.
Rasserenato per aver finalmente trovato una collocazione politica, li lasciai a manifestare la loro fede con brindisi di Cuba Libre, e mi misi in cerca del Cobra. Lo cercai ai margini della piscina dell’Hotel, dove arrostivano le belle membra delle indigene, e di qualche equipaggio di hostess. E, altrettanto inutilmente, tra le balie del parco giochi, e le cameriere dello snack.
Cobra non era il nome di un killer, né quello di battaglia di un pugile, e ancor meno una naja tripudians.
Era un gentilissimo, piccolo, pallido giovane di Parma, afflitto da una cronica forma spastica.
Nonostante il terribile handicap, il Cobra era riuscito a concludere gli studi con un bel centodieci e lode, a trovare posto nella redazione sportiva di un quotidiano milanese, e a tirare avanti, se non proprio felicemente, nel miglior modo consentito ad uno come lui. I suoi articoli erano un ammirevole esempio di giornalismo d’agenzia, rigorosamente distaccati da ogni protagonismo.
Una sola volta la notorietà l’aveva sfiorato, e del tutto involontariamente. Oltre ad agitarsi in modo convulso, il mento lanciato verso la clavicola, alla Totò, mentre le ginocchia si snodavano in un vivissimo shake, il Cobra era afflitto da una permanente balbuzie che, nei momenti di più viva emozione, giungeva a paralizzarlo. Il suo capo servizio l’aveva giusto inviato ad intervistare un noto attaccante della Nazionale, orgoglio di una città del meridione, immigrato a Torino a difendere i colori della Juve. Scuro in viso, quasi le migliori gillette fossero impotenti a raderlo, i ricci simili ad un’ala del Borromini, baffutissimo e sempre strangolato da cravatte all’ultimo grido, il campione non era dotato di un gran sense of humour.
Il Cobra non riuscì a raggiungerlo al telefono, e tentò di presentarsi nella hall dell’albergo che ospitava la squadra.
Ironico e spiccio, il campione lo scambiò per un tifoso emozionato, e lo invitò a “prepararsi bene il discorsetto, per un’altra volta”.
Torcendosi per il furore, il povero Cobra si attaccò al telefono e, dalla redazione, ricevette l’ordine di insistere.
Si rassegnò quindi a presidiare l’ingresso dell’Hotel, consumando via via due pacchetti di sigarette, e addirittura trovando modo di ingollare due grappe: par giusto informare che, su di lui, l’alcool produceva un’accentuazione del già vibrante stato psicomotorio.
Quando il campione, avvolto da un’aureola di profumo e di autostima, si profilò nuovamente nella porta girevole, il Cobra gli puntò contro, e prese ad oscillare, in modo che chiunque l’avrebbe preso per un pugile intento ad allenarsi con l’ombra. Tentava disperatamente di articolare la parola bastardo, ma, dopo aver sibilato una sequenza di ba-ba-bas-bas- si vide costretto ad optare per figlio di puttana: un vano scioglilingua, nelle sue condizioni.
Riuscì tuttavia miracolosamente a raggiungere la metà della frase, e fu tanto fortunato da rientrare con una finta involontaria, mentre il campione mandava ko il vecchio vicepresidente della squadra, accorso per metter pace.
Era una giornata priva di notizie, e i giornali concessero un rilievo sproporzionato alla vicenda.
Da quel giorno, il Cobra fu allontanato dal calcio, e si ritrovò aggregato ad una società tanto più civile come quella del tennis.
A dire il vero, faticava spesso nel mettere in sintonia la sue vibrazioni, gli strattoni del collo, con il va e vieni della palla. Mentre uno dei giocatori serviva, il Cobra era spesso involontariamente fisso al suo avversario, e come questi riusciva a ribattere, la risacca emotiva gli aveva ormai torto il collo dalla parte opposta.
La sua assidua, innata gentilezza, e anche la compassione dei più umani tra i campioni, gli valevano spesso interviste esclusive, che tentava di dettare al telefono, per la disperazione dei dimafonisti. Battere i tasti, d’altro canto, produceva una successione di parole incomprensibili.
Era, quella dei grandi tornei, un’attività più che accettabile per un giovane tanto lucido da capire che la vita non l’aveva del tutto derubato.
Restava tuttavia una spina, fissa nel cuore del Cobra.
Le tribune, le grandi clubhouse, i viali dei circoli, erano popolate di donne di ogni età e colore, femmine ricche di eleganza e bellezza, che gli accendevano gli occhi e la fantasia. Non meno di tre volte il Cobra si era trovato coinvolto in vicende struggenti quanto sfortunate. Più che al buon cuore, o alla stravaganza, sapeva ormai di doversi affidare alla professionalità dell’altro sesso.
Il suo indirizzario della prostituzione nazionale avrebbe potuto rivaleggiare con i più celebrati prontuari dei film o delle libere professioni.
All’estero, il Cobra rifiutava di affidarsi a concierges e tassinari, per naturale timidezza unita a fondatissima sfiducia.
Né l’aiutava certo, insieme agli altri handicap, la modesta conoscenza delle lingue.
Era dunque più che facile trovarlo a presidiare, a notte fonda, la hall degli alberghi: aggrovigliato su una poltrona, gli occhi semiaddormentati dietro a lenti nere, nell’attesa di un ormai improbabile incontro.
“Soffro d’insonnia” informava, quasi per scusarsi. Vero, verissimo. Ma era difficile dire se l’insonnia fosse causa, o effetto, di quella disperata ricerca di calore umano. Non posso negare di essere io stesso un vecchio sostenitore della più antica professione del mondo. E, agli incontri occasionali, agli amorucci o amorazzi passeggeri, preferisco la professionalità.
Mi piacciono, dei bordelli che ancora sopravvivono, il clima conservatore e insieme famigliare, l’assoluta assenza di sentimentalismo e la praticità, la possibilità psicologica di regredire all’infanzia e, insieme, di realizzare sogni altrimenti preclusi ad un buon padre di famiglia.
E va da sé che una visita con un compagno di fede è maggiormente gradita. Mi rassegnai dunque a malincuore ad una spedizione solitaria, come fui certo che il Cobra, all’Hilton, non c’era.
Alla mia richiesta di una visita guidata, il tassinaro fece un cenno d’intelligenza. Certo per discrezione, la prese un tantino lunga, e, con elegante semicerchio, mi riportò non troppo lontano dal mio albergo.
Mentre guidava abbandonato sul sedile, un braccio fuor dal finestrino, prese a spiegarmi che l’intervento della Giunta era stato una sorta di manna, nel deserto della crisi alimentare. Aggiunse subito che, ai tempi di Allende, i consiglieri cubani pretendevano di farla da padroni, tanto da voler essere condotti al casino gratis. Non c’era benzina per il suo taxi, né pane per i suoi cinque bambini.
Come avvertì in me qualche perplessità, mi domandò se per caso non fossi socialista, e alla mia risposta “Sono un uomo libero, quando posso” si associò entusiasta: “Yo tambien lo soy”.
Un cugino, si spinse ad informarmi, languiva in carcere per aver osato raccontare una barzelletta sui Generali, una zia ancor piacente aveva subito la violenza di un manipolo di poliziotti, e la metà degli autisti di Santiago altro non erano che spie al servizio della Giunta Pinochet.
Mi sarebbe piaciuto ottenere qualche indicazione più approfondita sulla zia, ma eravamo ormai a destinazione, e non potei far meglio che ascoltare gli ultimi suggerimenti di quell’uomo simile a Giano, e comunque orgoglioso che Pinochet non fosse riuscito a cancellare i focolai cileni della libera iniziativa e, forse, delle malattie veneree.
Non feci quasi in tempo a consegnargli una discreta somma che il tassamentro si era scordato di segnalare, che divenni preda di un folto gruppo di ragazzini, estremamente informati sui costumi sessuali delle sorelle maggiori. Constatai che il regime dei Generali non era riuscito ad...