Le grandi dinastie della storia
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Le grandi dinastie della storia

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Le grandi dinastie della storia

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È tramontata l'epoca di re e imperatori, ma non quella delle grandi dinastie: le "case regnanti" della nostra epoca sono i Grimaldi di Monaco, ma soprattutto si chiamano Agnelli, Rockfeller, Hilton, Kennedy, Chaplin, Onassis, Gucci... Protagonisti dell'economia, finanziaria o industriale, della politica, della moda, dello spettacolo e dell'arte, i loro membri sono attori di vicende che fanno piangere o sognare. Sempre al centro di vortici di denaro, potere, fascino, genio, scandali e tragedie. Come si sono create, spesso partendo dal niente, le grandi fortune delle famiglie più in vista del nostro tempo, dai Versace ai Trump, ai Bush? Questo volume racconta i protagonisti di un secolo di gossip da un'ottica rigorosamente storica, offrendo al lettore una serie di intriganti biografie dei membri delle venticinque famiglie più influenti del XX secolo che, tutte assieme, dipingono il ritratto in chiaroscuro di un'intera epoca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039843
Argomento
Storia

1

Gli Agnelli

Gli uomini si dividono in due categorie:
gli uomini che parlano di donne
e gli uomini che parlano con le donne.
Io di donne preferisco non parlare.
GIANNI AGNELLI (1921-2003)
Image

La perseveranza, l’ingegno, la capacità di leadership e la determinazione sono state le qualità imprescindibili che hanno permesso a stirpi famigliari enormemente ricche di dirigere il potere economico negli ultimi due secoli. Un terzo delle società elencate da «Fortune 500» sono imprese famigliari che, tra passione e tragedie, guidano il settore finanziario e industriale nel mondo occidentale. E tra le storie che riuniscono l’esatta miscela di potere, parentele, denaro e dedizione al successo, c’è quella dell’insigne cognome degli Agnelli.
A mano a mano che le strade si riempivano di automobili Fiat, gli Agnelli creavano una dinastia famigliare dal potere senza pari, in grado di esercitare la propria influenza in tutti i settori dell’economia italiana. Gianni Agnelli, «l’Avvocato», il magnate che ha diretto la società per trentasette anni, è stato il re senza corona di un’Italia repubblicana, ma un simile potere ha avuto il suo prezzo. I proprietari della Fiat, della squadra di calcio della Juventus, della Ferrari, dei vini francesi Château Margaux, dei quotidiani «Corriere della Sera» e «La Stampa», nonché di molte altre società, hanno visto accrescere le proprie ricchezze ma, contemporaneamente, hanno vissuto terribili tragedie. La morte dei patriarchi, Gianni e Umberto, rispettivamente nel 2003 e nel 2004, ha lasciato questo impero nelle mani inesperte dei fratelli non ancora trentenni John e Lapo Elkann, nipoti del leggendario Avvocato che, poco prima di morire, era convinto che il suo impero automobilistico sarebbe finito nelle mani della General Motors. Una svolta importante si è verificata a sei anni dalla sua morte: neppure il tanto ammirato Gianni Agnelli avrebbe potuto immaginare che le lotte per l’eredità, tra sua moglie e sua figlia, avrebbero trascinato la famiglia nei tribunali.
Come è nata l’industria più importante d’Italia
Il 10 ottobre 2005, il ventottenne Lapo Elkann, responsabile della promozione della Fiat nel mondo, si trovava in terapia intensiva nel reparto di rianimazione dell’ospedale Mauriziano di Torino. Era stato ricoverato alle nove del mattino a causa di un’overdose di cocaina. Lapo era ben noto ai giornalisti. Alto e di bella presenza, lo scapolo d’oro aveva una relazione con la famosa attrice Martina Stella. Era il nipote che più assomigliava al mitico Gianni Agnelli per aspetto fisico, gusto per la bella vita, simpatia e audacia. Un giovane entusiasta che amava essere al centro dell’attenzione. Come direttore del settore commerciale della Fiat, aveva appena condotto una campagna di successo per migliorare l’immagine societaria e le sue idee di marketing avevano contribuito all’inaspettata resurrezione della società automobilistica.
Sia il padre di Lapo, lo scrittore e giornalista Alain Elkann, sia la madre, Margherita Agnelli, che suo fratello John, vicepresidente della Fiat, erano corsi in ospedale non appena informati dell’accaduto. La famiglia aveva mantenuto segreto il suo ricovero, ma la notizia che Lapo aveva trascorso la notte abusando di cocaina, eroina, oppio e altri farmaci, in compagnia di una donna, si diffuse rapidamente. Non era stato tuttavia il cocktail di stupefacenti a causare tanta agitazione quanto piuttosto il luogo in cui Lapo si trovava e la persona che era con lui. «Le prime informazioni parlavano dell’appartamento di una donna. Tutti pensavano che si trattasse di Martina Stella, la sua fidanzata, ma poi si scoprì che era la casa di Donato Brocco, meglio noto come Patrizia, una prostituta transessuale che, a quanto pare, gli salvò la vita chiamando immediatamente un’ambulanza» spiega il giornalista Mark Seal.
Tre giorni più tardi, Lapo si risvegliava. Gli italiani tirarono un respiro di sollievo ma si domandarono se l’attuale generazione degli Agnelli sarebbe mai stata all’altezza del formidabile fondatore della Fiat. Non per niente la famiglia è stata, per più di un secolo, una forza industriale dinastica. «La monarchia dei Savoia è stata rimpiazzata dalla monarchia degli Agnelli. Questo è il problema di Torino» sostiene il giornalista Salvatore Tropea.
L’impero Fiat fu creato nel 1899 da un militare di 32 anni di nome Giovanni Agnelli (1866-1945). Apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri del piccolo comune piemontese di Villar Perosa, vicino a Torino. Giovanni nacque il 3 novembre 1866 tra le pareti della casa di proprietà del nonno. Gli Agnelli godevano di una condizione economica solida e Giovanni studiò all’Accademia Militare, dove fu nominato ufficiale di cavalleria. Si trasferì a vivere a Verona, dove sposò Clara Boselli (1869-1946). Quando si stancò della vita militare, decise di dedicarsi all’industria automobilistica e, insieme a un piccolo gruppo di investitori, creò una propria fabbrica d’automobili quattro anni dopo che Henry Ford aveva fondato la sua. Nacque così la Fabbrica Italiana Automobili Torino: FIAT.
Giovanni Agnelli divenne il direttore e socio principale dell’azienda. La Fiat crebbe rapidamente da subito, in virtù anche dell’amicizia che il suo fondatore aveva con Giovanni Giolitti, quattro volte presidente del Consiglio dei ministri, la cui politica sosteneva lo sviluppo industriale del paese. Rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi dell’epoca, interessati soltanto alla produzione di modelli molto veloci da corsa, Agnelli impose l’idea che si dovessero fabbricare automobili di serie su larga scala. Nel 1908 avviò la produzione della Tipo 1 Fiacre, prima automobile pensata per essere utilizzata come tassì, esportata in città come Parigi, Londra e New York. Negli anni successivi, la società aumentò la propria attività all’estero e iniziò la produzione in serie della Fiat Zero, conosciuta anche come Fiat 12/15 hp: ne furono fabbricate circa duemila unità, caratterizzate dal fatto di essere già dotate di impianto elettrico. In quindici anni, i lavoratori della Fiat passarono dai cinquanta iniziali ai quattromila attivi al momento dello scoppio della Prima guerra mondiale.
Come spesso è avvenuto con le grandi fortune nate nel secolo scorso, fu il conflitto mondiale a portare al vero sviluppo di quello che, anni più tardi, sarebbe stato un impero economico. Quando l’Italia entrò in guerra, il governo diede alla Fiat un assegno in bianco. «La Fiat non era più soltanto una fabbrica produttrice d’automobili, ma anche di materiale militare, di componenti ferroviari e sarebbe diventata il più grande gruppo industriale italiano» dice Marco Ferrante, autore di Casa Agnelli. E con la sua progressiva crescita, «la Fiat trasformò Torino da piccolo capoluogo di provincia a enorme città industriale, forse la più grande d’Italia» indica Vittorio Zucconi, direttore di «Repubblica».
Nel 1916, Agnelli infranse tutti gli schemi costruendo al Lingotto, a quei tempi appena fuori Torino, una fabbrica che, in una visione futurista, aveva sul tetto, a sei piani d’altezza, una pista di due chilometri e mezzo da usare per le prove. Giovanni Agnelli aveva visitato la fabbrica di Henry Ford a Highland Park, Detroit, dove l’americano aveva creato la prima linea di catena di montaggio del mondo nel 1913, riducendo così il tempo di assemblaggio del telaio da dodici ore e mezzo a un’ora e quaranta minuti. Giovanni Agnelli rivoluzionò l’industria automobilistica italiana copiando la tecnica della catena di montaggio di Ford. All’interno del Lingotto ne installò una di proporzioni enormi, che iniziava a piano terra e saliva verso la pista: a mano a mano che la nuova automobile era assemblata, saliva di livello fino a raggiungere il piano più alto, dove realizzava alcuni giri di prova di controllo. I lavori si conclusero nel 1923 e, a quell’epoca, la fabbrica era la più grande fabbrica d’automobili del mondo, quella che avrebbe prodotto più di ottanta modelli diversi di Fiat fino a che, nel 1982, la produzione fu interrotta e il luogo divenne un centro culturale.
Alla fine della Prima guerra mondiale, la Fiat era la terza industria più importante d’Italia. Ma il successo portò nuove sfide: gli scioperi e le manifestazioni dei lavoratori interruppero la produzione in tutto il paese. Si temette che l’Italia fosse sull’orlo di una rivoluzione. Benito Mussolini approfittò della situazione di caos e malcontento e ricorse alle sue «camicie nere» fasciste, che usarono la violenza per riportare l’ordine. Nel 1922, Mussolini divenne presidente del Consiglio. Pochi mesi più tardi, Agnelli fu eletto senatore e, nel 1926, pur controvoglia, divenne fascista. «Gli Agnelli erano soliti dire: “La Fiat si schiera sempre con il governo, indipendentemente da chi lo compone” afferma Vittorio Zucconi. Con il sostegno del dittatore, la società continuò a prosperare, grazie ai contratti firmati con il governo. In quegli anni, Agnelli acquistò l’influente quotidiano «La Stampa», tuttora controllato dalla famiglia, che ebbe sempre un ruolo importante per l’immagine pubblica della Fiat.
All’inizio degli anni Venti, Agnelli divenne produttore di automobili di piccola e media cilindrata, scommettendo sul mercato più popolare della classe media. Un decennio più tardi, la prosperità della Fiat crebbe ancora grazie all’introduzione della produzione a catena. Secondo Giuseppe Berta, «il passo più importante di questa tappa fu la fabbricazione di un’auto molto piccola, la prima Cinquecento italiana – nota a tutti con il nome di «Topolino» – che riscosse grande successo tra i consumatori». I primi modelli di Topolino uscirono sul mercato nel 1936 e nei venti anni successivi ne furono prodotte e vendute ben mezzo milione di unità. La famiglia Agnelli guadagnò parecchio con questa automobile e investì il capitale nella costruzione del nuovo stabilimento Fiat di Mirafiori, costruito sul terreno dove una volta sorgeva il castello dei Savoia di cui porta il nome. In questo nuovo stabilimento si iniziò a lavorare, per turni, ventiquattro ore al giorno.
La monarchia di Torino: i Kennedy d’Italia
A metà degli anni Trenta, il sessantenne Giovanni Agnelli iniziò a pensare alla sua successione. Sperava che a farsi carico degli affari di famiglia sarebbe stato il suo unico figlio Edoardo (1982-1935), ma Edoardo anteponeva l’interesse per l’alta società e gli sport a quello per la produzione di automobili. Nel 1923, Edoardo acquistò il club calcistico Juventus e ne fece la migliore squadra italiana di calcio: vinse cinque campionati nazionali di seguito, dal 1930 al 1935, periodo noto ai tifosi come il «Quinquennio d’Oro», compiendo un’impresa comparabile a quella realizzata dal Torino F.C., suo rivale storico, negli anni Quaranta. Edoardo creò inoltre un lussuoso complesso sciistico a Sestriere, nelle Alpi vicine a Torino. Il 14 luglio 1935, però, salì a bordo di un idrovolante diretto a Genova che si schiantò durante l’ammaraggio. La sua morte improvvisa spezzò la linea di successione della dinastia. Giovanni Agnelli scelse quindi come proprio successore il nipote più grande. Il figlio di Edoardo e della principessa Virginia Bourbon del Monte, Giovanni (1921-2003) – che tutti chiamavano Gianni per non confonderlo con il nonno –, aveva allora 14 anni. Nei dieci anni seguenti, il dispotico patriarca si dedicò alla formazione di suo nipote, preparandolo per il compito che avrebbe fatto di lui il re senza corona d’Italia.
Il giovane Gianni, il maggiore dei figli maschi, crebbe dividendo il suo tempo tra la tenuta di campagna di Villar Perosa e la residenza in città, circondato dal lusso, sotto lo sguardo attento del nonno e insieme ai suoi sei fratelli: Clara (1920), Susanna «Suni» (1922-2009), Maria Sole (1925), Cristiana (1927), Giorgio (1929-1965) e Umberto (1934-2004). Dieci anni dopo la morte di suo padre, la bella e aristocratica madre Virginia morì in un incidente d’auto a soli 46 anni.
Gianni non era molto brillante nello studio, ma riuscì comunque a diplomarsi. Più tardi suo nonno lo mandò negli Stati Uniti, dove viaggiò molto, ospite della famiglia Rockefeller. Rientrò in Italia per studiare legge all’Università di Torino, cosa che gli valse il soprannome «l’Avvocato», che gli rimase per tutta la vita, pur se non esercitò mai la professione. La sua formazione si interruppe nel 1940, quando l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale come alleata della Germania. Nonostante il nonno non volesse, Gianni «aveva un grandissimo senso del dovere e decise di arruolarsi come tutti i giovani della sua età» dice Marco Ferrante. A giugno si unì a un reggimento carri e andò a combattere sul fronte russo. Fu ferito due volte: in Africa, dove fu decorato, e in Italia.
Con il proseguire della guerra, l’impresa della famiglia fornì all’esercito fascista un numero sempre maggiore di camion, mitragliatrici, aerei e ambulanze. Le due fabbriche furono però bombardate e quasi distrutte dagli alleati. Nel 1943 l’Italia si arrese in Africa del Nord e il governo di Mussolini crollò. A quel punto il nonno Giovanni offrì il proprio aiuto agli Alleati. Gianni, grazie al suo ottimo inglese, divenne il collegamento ufficiale con le truppe d’occupazione degli Stati Uniti, e le fabbriche della Fiat non furono più bombardate.
Quando nel 1945 la guerra finì, il governo italiano del dopoguerra obbligò l’anziano patriarca a lasciare la società a causa della sua collaborazione con Mussolini. «Non poteva neppure mettere piede nella fabbrica che lui stesso aveva creato» racconta Ferrante. Pochi mesi più tardi morì con il cuore spezzato e a meno di un anno dalla sua morte se ne andò anche sua moglie Clara Boselli.
Gianni, con i suoi 24 anni, era troppo giovane e aveva poca esperienza negli affari, per cui non era in grado di dirigere quella grande società che la Fiat era diventata. Le redini dell’azienda passarono quindi nelle mani di Vittorio Valletta, che ne era già stato direttore insieme a Giovanni dal 1921.
In quel periodo Gianni decise di seguire il consiglio del nonno: divertirsi e godersi la vita grazie a una rendita che gli fruttava un milione di dollari all’anno. Lo si vedeva abitualmente alle feste in Costa Azzurra, al tavolo della roulette del casinò di Montecarlo, sugli yacht di lusso... Amava divertirsi ed essere circondato da playboy ricchi e famosi, come il principe Alì Khan – che nel 1959 sarebbe diventato il terzo marito dell’attrice Rita Hayworth –, Porfirio Rubirosa, Errol Flynn, e divenne buon amico del principe Ranieri di Monaco. Al suo braccio, e nel suo letto, c’erano sempre le donne più belle del mondo. Ebbe una relazione con Anita Ekberg, una delle dee sensuali degli anni Cinquanta e Sessanta, e con Pamela Beryl Digby, la giovane aristocratica britannica, ex moglie di Randolph Churchill da cui, nel 1940, aveva avuto un figlio chiamato Winston in onore del celebre nonno. Il neonato e Pamela furono fotografati da Cecil Beaton per la rivista «Life», e quella fu la prima volta in assoluto che una rivista pubblicò in copertina la foto di una neo mamma con il suo bambino.
Pamela, che divorziò dal figlio del primo ministro britannico nel 1945, era una donna molto intelligente e dalle molte relazioni sociali e presentò Gianni all’alta società europea. Si dice che la loro storia d’amore nacque nel 1948 a Parigi e si concluse nel 1952 dopo una lite. Gianni Agnelli corse via sulla sua Ferrari ed ebbe un incidente. Si ruppe la gamba in sei punti e le conseguenze di queste ferite lo fecero soffrire e zoppicare per il resto della vita. «Usava un sostegno ortopedico che andava dall’anca fino al piede. Non poteva usare scarpe normali ma soltanto stivaletti di daino o scarpe molto morbide, quasi pantofole. Il nuoto, lo sci e le altre attività che amava gli costavano molta fatica, ma lui non ci rinunciava perché era un uomo coraggioso» dice Marco Ferrante.
Nella biografia scritta da sua sorella, l’ex senatrice ed ex ministro Susanna «Suni» Agnelli, si legge che in quel periodo lui era un cinico rubacuori, che criticava le sorelle quando si innamoravano: «Soltanto le cameriere si innamorano» diceva loro. Racconta Susanna che Gianni riteneva che l’amore fosse una sciocchezza ma, poi, cambiò opinione. È possibile che a servirgli da lezione e fargli mettere la testa a posto sia stato l’incidente in auto. Decise di sposarsi con una principessa italiana di squisita bellezza, che aveva lavorato come fotografa per la rivista «Vogue». Fu così che il 19 novembre 1953, nel castello di Osthoffen a Strasburgo, dove il padre di lei era rappresentante diplomatico italiano presso il Consiglio d’Europa, si unì in matrimonio a Marella Caracciolo dei Principi di Castagneto, antica famiglia della nobiltà napoletana. Di lei si diceva che avesse il collo più lungo d’Europa, perfetto per essere adornato di gioielli. Figlia di un principe e di una donna statunitense di ascendenza italiana, Marella trascorse l’infanzia circondata dalle più alte espressioni artistiche, secondo una filosofia di vita basata sulla bellezza per la bellezza, e viaggiando per il mondo intero. Studiò arte a Parigi anche se divenne fotografa professionista. Era senza dubbio la candidata perfetta per sposare Gianni Agnelli. La loro unione diede inizio alla leggenda di entrambi.
Il 9 giugno 1954, sette mesi dopo il matrimonio, a New York, venne alla luce il loro primogenito Edoardo e, un anno più tardi, nacque una bambina che chiamarono Margherita. Mentre il fotografo Richard Avedon immortalava Marella come una delle donne più belle del mondo, Gianni abbandonava il ruolo del dongiovanni per assumere quello di padre e marito, lasciando perdere i suoi presunti idilli con Jacqueline Kennedy o Silvia Monti, tanto per citare solo quelli più chiacchierati. La coppia viveva nel lusso tra Manhattan, la Corsica, Capri, Portofino, Roma, Parigi, perché Gianni non era pronto per assumere la responsabilità per la quale era nato: essere presidente della Fiat. Del resto, non era ancora necessario, poiché il vecchio Vittorio Valletta dirigeva la società con grande successo.
Nel 1957 Valletta ebbe l’incarico di lanciare quella che sarebbe diventata la vettura più famosa della Fiat, la nuova 500, il Cinquino, figlio dell’amata Topolino. Il progetto era nato nel 1951 quando, partendo da questa macchina, l’ingegner Dante Giacosa e Vittorio Valletta iniziarono a concepire l’idea di una vettura leggera, grande abbastanza da trasportare quattro passeggeri, ma che costasse il meno possibile. Quattro anni più tardi, nacquero i primi prototipi della Fiat 600 che pesava sei quintali, aveva il motore montato posteriormente, raggiungeva la velocità di novanta chilometri orari e sviluppava una potenza di diciannove cavalli. Ebbe grandissimo successo in tutte le versioni prodotte e con tutti i nomi che le furono dati. Dopo un accordo con i rappresentanti di Torino, nell’aprile 1967, la fabbrica Seat, nella Zona Franca di Barcellona, sfornò la versione spagnola: el Seiscientos, uno dei simboli dello sviluppo del paese negli anni Sessanta.
L’infaticabile Vittorio Valletta rimase al vertice della Fiat per vent’anni e quando giunse il suo ottantatreesimo compleanno riconobbe che era giunto per lui il momento di andare in pensione. Nel 1966 lasciò il suo incarico alla Fiat e fu nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.
Esempio di potere ed eleganza
Dopo una gioventù da playboy dedito unicamente alla vita mondana, Gianni divenne un uomo dalle abitudini stabili e dedito alla famiglia. Ciò nonostante, quando il 30 aprile 1966, all’età di 45 anni, annunciò la sua decisione di assumere la presidenza della società, la maggior parte degli azionisti si domandò se l’affascinante dongiovanni sarebbe stato in grado di guidare con successo la società più importante d’Italia, nonché la quinta fabbrica automobilistica del mondo. Il fratello di Gianni, Umberto, era dirigente della filiale francese dall’anno precedente ed era anche stato presidente della Juventus dal 1956 al 1961.
Gianni prese nelle sue mani le redini degli affari di famiglia quando l’Italia stava vivendo il boom economico e la Fiat era una grande società internazionale. Alla morte del suo fondatore, nel 1945, la fabbrica produceva 3260 automobili all’anno ma nel 1966 ne produceva una quantità superiore in un solo giorno. Inoltre, i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le grandi dinastie della storia
  3. Premessa
  4. 1. Gli Agnelli
  5. 2. I Bronfman
  6. 3. I Grimaldi
  7. 4. I Gucci
  8. 5. I Johnson
  9. 6. I Kennedy
  10. 7. Gli Onassis
  11. 8. I Rothschild
  12. 9. I Barrymore
  13. 10. I Bush
  14. 11. Gli Alba
  15. 12. I Chaplin
  16. 13. I Douglas
  17. 14. Gli Hilton
  18. 15. Gli Huston
  19. 16. I Rockefeller
  20. 17. I Tiffany
  21. 18. I Trump
  22. 19. I Vanderbilt
  23. 20. I Versace
  24. 21. I Martínez-Bordiú
  25. 22. Gli Iglesias
  26. 23. I Rivera Ordóñez
  27. 24. I Dominguín-Bosè
  28. 25. I Thyssen
  29. History
  30. INSERTO FOTOGRAFICO
  31. Copyright