Argo
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Come la CIA e Hollywood hanno salvato sei ostaggi americani a Teheran

  1. 288 pagine
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Come la CIA e Hollywood hanno salvato sei ostaggi americani a Teheran

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Il 4 novembre 1979, nel pieno della rivoluzione iraniana, centinaia di militanti danno l'assalto all'ambasciata statunitense a Teheran, prendono in ostaggio una cinquantina di membri del personale diplomatico e chiedono l'estradizione di Mohammad Reza Pahlavi, lo scià in esilio negli Stati Uniti, per poterlo processare in patria. È l'inizio di una lunga crisi internazionale, che vedrà susseguirsi strenui negoziati nonché un tentativo di liberare gli ostaggi con la forza (Operazione Eagle Claw) finito tragicamente. Al momento dell'attacco, sei appartenenti al corpo diplomatico statunitense che si trovavano nel compound dell'ambasciata riescono a fuggire per le strade della capitale e a nascondersi nell'abitazione dell'ambasciatore canadese Ken Taylor. Sono temporaneamente al sicuro, ma l'intelligence americana sa bene che se venissero scovati rischierebbero seriamente la vita. Occorre farli uscire al più presto dall'Iran.
L'idea vincente per riportarli a casa verrà ad Antonio ("Tony") Mendez, autore di questo libro ed ex agente tecnico operativo della CIA, grazie anche alle sue frequentazioni col mondo di Hollywood e alla sua grande esperienza nel campo dei travestimenti: una squadra di agenti sotto copertura cercherà di far passare i sei diplomatici per membri di una troupe cinematografica canadese in cerca di location per un fantomatico film intitolato Argo, mentre grazie alla collaborazione del governo di Ottawa i sei verranno provvisti di documenti falsi con i quali uscire dall'Iran riducendo al minimo i rischi. Mendez ripercorre tappa dopo tappa la strada che ha portato al successo questa complessa e rocambolesca operazione di salvataggio, raccontando i dubbi, le paure, le enormi difficoltà superate dai protagonisti, in un susseguirsi di colpi di scena che sembrano usciti da una spy story degna del miglior le Carré.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852036729
VI

Lezioni dal passato

Dopo aver ricevuto il memorandum, non avevo smesso di pensare alla questione degli ospiti dei canadesi. Il Dipartimento di Stato aveva adottato un approccio prudente o, per meglio dire, stava a guardare, e io non ero convinto che questa fosse la linea d’azione migliore. Come tendo spesso a fare quando ho un problema difficile da risolvere, un sabato pomeriggio mi ero ritirato nel mio studio a dipingere. Fu durante quella sessione creativa, mentre lavoravo a Wolf Rain, che capii che non potevamo permetterci di non fare nulla e lasciare che l’urgenza della situazione avesse la meglio. Certo, per il momento gli ospiti erano al sicuro, ma si stavano nascondendo a Teheran ormai da due mesi. Quanto ancora potevano resistere? Avevo sempre detto al mio staff che, quando possibile, era sempre meglio procedere con l’esfiltrazione prima che i cattivi venissero a sapere della nostra presenza. Se, per qualche ragione, gli ospiti fossero stati scoperti prima che fossimo riusciti ad arrivare a loro, sarebbe stato pressoché impossibile farli uscire di là.
Una delle ragioni che più mi preoccupavano riguardo all’esfiltrazione degli ospiti era che, essendo stato in Iran di recente, conoscevo la situazione. In veste di capo del settore travestimenti, nell’aprile del 1979, sette mesi prima di sentir parlare degli ospiti, mi ero offerto volontario per infiltrarmi nel paese e collaborare al salvataggio di un agente di primo livello, e per molti versi quel caso fu un efficace banco di prova per ciò che attendeva i sei americani.
Il fatto che durante il regno dello scià la CIA e il governo iraniano avessero un rapporto stretto non era un segreto per nessuno, tanto più che uno dei più recenti ambasciatori americani in Iran, Richard Helms, era stato in precedenza direttore della CIA. Ciò che gli iraniani non sapevano, invece, era che l’Agenzia aveva reclutato una «fonte sensibile», cioè un membro affidabile della cerchia più ristretta dello scià. Costui era noto, all’interno della CIA, con il suo nome in codice. Io ho scelto di chiamarlo «Raptor».
Raptor era in grado di fornire impagabili informazioni ai politici americani riguardo alle intenzioni dello scià. I dati che forniva venivano passati clandestinamente al suo intermediario, il quale a sua volta li utilizzava per preparare un rapporto segreto che inviava via cablo da Teheran al quartier generale. Di solito, queste informazioni erano così importanti che venivano recapitate a mano da un agente della CIA direttamente al presidente nello Studio Ovale.
Le buste in carta di manila usate per conservare quei delicati cablo erano contrassegnate da spessi margini blu e le parole TOP SECRET – ACCESSO LIMITATO – RISERVATO erano stampate a grosse lettere rosse al centro della busta. In ragione di questi contrassegni, i report erano noti come «righe blu». Tutte le copie venivano numerate e attentamente controllate lungo l’intero percorso. La busta ad accesso limitato con le righe blu veniva incartata a doppio strato, poi sigillata e chiusa in un portadocumenti di pesante tela blu che il corriere non perdeva mai di vista.
Tutti i rapporti dell’intelligence sono contrassegnati da un grado di priorità da uno a dieci; i più importanti sono valutati «doppio dieci». Di norma, i rapporti di Raptor ricevevano il doppio dieci.
Raptor sapeva da tempo che lo scià stava perdendo il controllo del paese e aveva a più riprese avvertito i suoi intermediari alla CIA, ma, come spesso accade quando l’intelligence non prefigura ai politici di Washington gli scenari che questi ultimi si aspettano, gli ammonimenti di Raptor tendevano a cadere nel vuoto. L’intelligence è utile solo nella misura in cui il suo destinatario è in grado di credere e fare tesoro delle informazioni che essa fornisce.
Quando, in gennaio, lo scià aveva abbandonato il paese, Raptor si era immediatamente dato alla macchia, ma, con i tentacoli delle guardie della rivoluzione che si allungavano sempre più a fondo in tutte le pieghe della società iraniana, sapeva che non si sarebbe potuto nascondere troppo a lungo.
A quel punto, cominciò a incontrarsi di nascosto con «Don», un agente della CIA di stanza a Teheran che cercava di organizzare la sua esfiltrazione. I due, però, avevano idee diverse. Giovane testa calda, Don era convinto di poter fare tutto da solo e aveva proposto all’iraniano di travestirsi da arabo originario del Golfo, una cosa che Raptor sapeva essere impossibile. Purtroppo, invece di utilizzare le risorse a sua disposizione e capire cosa avrebbe potuto cavarne, Don si era limitato a rispondere: «Prendere o lasciare», aggravando solo il problema. Fu allora che Hal, il direttore della base della CIA a Teheran, aveva mandato un cablo urgente in cui si richiedeva il mio aiuto.
Il caso si presentò spinoso fin dall’inizio. Combattente nato, Raptor desiderava uscire di scena in un’aura di gloria, magari con una Colt dal manico d’avorio per ogni mano. La prospettiva di essere catturato all’aeroporto con addosso un travestimento era insopportabile per il suo tradizionalista senso dell’onore. A complicare le cose, c’era il fatto che proprio a lui si doveva la formazione di quasi tutto il personale addetto alla sicurezza dell’aeroporto, quindi in molti conoscevano il suo aspetto. Era certo che sarebbero stati in grado di vedere oltre il mascheramento e di riconoscerlo all’istante. Dal momento che il successo dell’operazione dipendeva dalla sua risolutezza e dalla capacità di sostenere la parte, finché non fossimo riusciti a convincerlo a fidarsi di noi non avremmo potuto fare niente. Grazie alle mie esperienze passate come agente tecnico in numerose operazioni di esfiltrazione, sapevo che alcune dipendono dai travestimenti più di altre. Nel caso Raptor, capii che il travestimento era cruciale. Con le guardie della rivoluzione alle costole, sarebbe stato importante impressionarlo fin da subito con la nostra professionalità. Non gli mancava il coraggio, ma la fiducia.
Una volta entrato nel paese, la mia prima sosta fu alla biblioteca al secondo piano della cancelleria dell’ambasciata americana a Teheran. In città, l’atmosfera era quella di una zona di guerra: bande armate percorrevano le strade e non era inconsueto sentire un’esplosione in lontananza. L’aspetto più sconcertante, però, era forse la popolazione stessa, scossa e intimorita. Ovunque ti girassi, i marciapiedi brulicavano di donne coperte da capo a piedi dai chador neri. Sembrava che l’intera città fosse in lutto.
Quando ci immettemmo su Takhte Jamshid Avenue, notai che i muri di cinta dell’ambasciata erano coperti di graffiti, un promemoria inequivocabile del fatto che il sentimento antiamericano nel paese era forte e crescente.
Al quartier generale, avevamo passato in rassegna il nostro intero patrimonio di documenti di viaggio medio-orientali e mediterranei, e avevamo trovato tre diverse nazionalità che potevano fare al caso nostro. Tuttavia, siccome non sapevamo quale fosse la tonalità della pelle di Raptor, decidemmo di rimandare la decisione definitiva a quando lo avremmo incontrato faccia a faccia a Teheran. Nel frattempo, ero andato in biblioteca alla ricerca di una cosa in particolare.
La biblioteca era una stanza tranquilla, polverosa e scarsamente illuminata. Nonostante questo, però, constatai che veniva usata spesso, tanto che c’era una pila di libri riconsegnati in attesa di essere ricollocati sugli scaffali. La scrivania del bibliotecario era vuota, probabilmente a causa del taglio dei fondi, quindi mi servii da solo. Passai in rassegna gli scaffali e dopo qualche minuto trovai ciò che stavo cercando. Il volume era rilegato in marocchino verde e marrone, e il titolo sulla costola era stampato a lettere maiuscole dorate in rilievo: Stewart, Through Persia in Disguise («In incognito in Persia»).
Estrassi il volume dallo scaffale e me lo rigirai fra le mani: era una raccolta di memorie di un ufficiale britannico, il colonnello Charles Edward Stewart. Nel 1880, circa un secolo prima del mio viaggio, aveva indossato i panni di un mercante di cavalli armeno e trascorso circa due anni in sella, esplorando la regione accompagnato da un piccolo plotone di uomini. Durante quel periodo, aveva percorso distanze incredibili, senza mai venire sospettato di essere un europeo.
L’operazione necessaria per esfiltrare Raptor non era dissimile dal viaggio del colonnello Stewart. Sapevo che il libro, che conteneva molte immagini delle persone incontrate da Stewart nel paese, sarebbe tornato utile quando sarei andato a incontrare Raptor quella sera. Certo, come prima cosa sarei dovuto arrivare a lui, il che non era un compito facile in una città che trasudava diffidenza nei confronti di tutto ciò che era straniero, in primo luogo le spie americane.
Qualunque ricognizione per individuare la sorveglianza ed eluderla al momento opportuno parte sempre dal presupposto che i nemici, chiunque essi siano, sono dappertutto e ci osservano. Questa massima mi era stata impressa a fuoco nel cervello durante il corso di OPS FAM (familiarizzazione con le operazioni OPS) alla «Fattoria», la struttura di quattromila ettari dove i novizi della CIA andavano a imparare i trucchi del mestiere prima di recarsi all’estero in missione. In seguito, quando – era la metà degli anni Settanta – a Mosca mi imbattei nella paranoia di Stato del KGB, avrei verificato di persona fino a che punto quella affermazione corrispondesse al vero, giacché quasi tutti, persino il bigliettaio dello zoo, erano informatori.
Adesso, per le strade di Teheran, io e i miei colleghi avremmo usato queste competenze per depistare eventuali inseguitori che avessero tentato di usarci per arrivare a Raptor. Andrew, un agente addetto alla documentazione che lavorava in loco, si unì a noi. Zigzagando per i vicoli di Teheran, individuammo un grande magazzino molto animato su Abbasabad Avenue e sgusciammo all’interno. Quella era una delle tecniche preferite dagli agenti della CIA, perché i negozi di grandi dimensioni solitamente dispongono di diverse uscite ed è quasi impossibile tenerle tutte sotto controllo. Uscendo dal negozio, ci dirigemmo a grandi passi verso il centro della strada, schivando il terribile traffico di Teheran (molte auto viaggiavano persino senza fari), allo scopo di seminare eventuali veicoli che ci stessero pedinando. Una mossa del genere sarebbe forse risultata provocatoria per gli standard di Mosca, dove gli operativi erano tutti professionisti altamente qualificati, ma qui in Iran, dove gli avversari non erano altro che fanatici rivoluzionari, funzionò.
L’anonimo condominio si trovava su una laterale di Motahari Boulevard, proprio accanto a un hotel in cui c’era un famoso ristorante.
Raptor si nascondeva nell’ombra sul pianerottolo del secondo piano e, quando ci avvicinammo, uscì allo scoperto e mi abbracciò con le lacrime agli occhi. Lo studiai con l’attenzione per il dettaglio tipica degli artisti: con addosso un maglione troppo grande per lui, quell’uomo scarno e malaticcio somigliava ben poco al fiero colonnello poco più che trentenne delle foto che mi erano state mostrate.
Fu lui stesso a condurci in un appartamento al quarto piano, completamente spoglio a eccezione di un sudicio divano e di un apparecchio televisivo mezzo smontato. Sul bancone della cucina erano buttate alla rinfusa vecchie riviste con le pagine ormai consumate e quotidiani in lingua fārsì, oltre a un sacco di riso, un pacco di lenticchie e del cibo in scatola. Era ovvio che Raptor era accampato qui da diverse settimane. Al posto delle tende, le finestre erano coperte da vecchi giornali.
Muovendoci con risolutezza, io e Andrew conducemmo Raptor attraverso l’appartamento buio in direzione del bagno. Sapevo che era importante metterlo a suo agio. «Non ci vorrà molto» gli dissi, aggiungendo di non preoccuparsi.
Quando entrammo nel bagno, Hal aprì la stretta finestra che dava sul retro del palazzo e lanciò una corda arrotolata: quella sarebbe stata la nostra «uscita di sicurezza» nel caso in cui le guardie della rivoluzione avessero fatto irruzione passando dalle scale. La finestra si apriva su un piccolo cortile interno a dodici metri sotto ai nostri piedi, che confinava con l’hotel adiacente. Dopo esserci calati con la corda, saremmo potuti entrare dalla finestra della lavanderia dell’albergo e andarcene dall’entrata di servizio. Ci eravamo prefigurati questo scenario il giorno prima, quando ci eravamo avvicendati per tenere sotto controllo l’entrata di servizio del ristorante. Durante il suo turno, Hal era andato nella toilette del ristorante, dove aveva trovato una finestra che dava sul cortile interno. Sporgendosi per guardare fuori, ruppe il cinturino del suo costosissimo orologio da polso, che cadde sul davanzale sottostante; quando tornò al tavolo ci spiegò cos’era successo e, mentre lui si lamentava della perdita subita, io andai a vedere cosa potevo fare. Scendendo due rampe di scale, entrai nella lavanderia e indossai rapidamente una giacca da cameriere sporca per mimetizzarmi. Poi, mi feci strada fra le grandi lavabiancheria, mi diressi verso la toilette e recuperai l’orologio dal cortile interno. Quando tornai e lo feci cadere sul tavolo davanti a lui, Hal restò senza parole.
All’interno del bagno dell’appartamento, Raptor improvvisò un portalampada attorcigliando con la mano destra il capo di un filo di rame estratto da un’antenna televisiva a una lampadina, mentre con la sinistra spingeva a forza l’alt...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Argo
  4. Introduzione
  5. I. Benvenuti alla rivoluzione
  6. II. Si radunano le idee
  7. III. Diplomazia
  8. IV. Vicolo cieco
  9. V. Il Canada in soccorso
  10. VI. Lezioni dal passato
  11. VII. Si prepara la squadra
  12. VIII. Storia di copertura
  13. IX. Hollywood
  14. X. Studio Six
  15. XI. Una conflagrazione cosmica
  16. XII. Ai posti di partenza
  17. XIII. Riprese in esterni
  18. XIV. Preparativi finali
  19. XV. La fuga
  20. Epilogo
  21. Note
  22. Bibliografia
  23. Ringraziamenti
  24. Copyright