La breve favolosa vita di Oscar Wao
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La breve favolosa vita di Oscar Wao

  1. 294 pagine
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La breve favolosa vita di Oscar Wao

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Oscar è un ghetto-nerd dominicano obeso e goffo, ossessionato dalle ragazze - che naturalmente lo ignorano - dai giochi di ruolo e dai romanzi di fantascienza e fantasy. Prima che lui nascesse, sua madre, la formidabile Belicia Cabral, ha lasciato la Repubblica Dominicana di Trujillo per rifugiarsi nel New Jersey, dove Oscar vive sognando di diventare il nuovo Tolkien e, più di ogni altra cosa, di trovare l'amore. Per riuscirci, il nostro eroe deve sfidare il micidiale fukú, l'antica maledizione che perseguita i membri della sua famiglia da generazioni, condannandoli al carcere, alla tortura, a tragici incidenti e soprattutto alla sfortuna in amore. La prosa vivida e giocosa di Junot Díaz, che incarna la molteplicità di luoghi, culture e linguaggi alla base del romanzo, ci trasporta dalle periferie americane contemporanee al sanguinario e insieme mitico regno del dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo, mentre la storia del mite e sventurato giovane si intreccia a quella della sua gente e della sua terra, che finiranno per plasmarne il destino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852038518

PARTE PRIMA

UNO

GhettoNerd alla fine del mondo

1974-1987

L’ETÀ DELL’ORO
Oscar non era uno di quei dominicani ganzi di cui si sente sempre parlare: non era un asso del baseball né un bravo bachatero, e neppure un playboy con un milione di belle gnocche ai suoi piedi.
Anzi, a parte un unico periodo agli albori della sua vita, l’amico non ebbe mai molta fortuna con le femmine (cosa, questa, molto poco dominicana).
All’epoca aveva sette anni.
In quei giorni beati della sua giovinezza, Oscar era una specie di Casanova. Uno di quei seduttori in età prescolare che cercavano sempre di baciare le bambine, che arrivavano alle loro spalle durante un merengue e facevano la mossa della pompa pelvica, il primo negro a imparare il perrito e a ballarlo ogni volta che poteva. Dato che a quei tempi era (ancora) un “normale” bambino dominicano, cresciuto in una “tipica” famiglia dominicana, la sua nascente papponeria veniva incoraggiata da parenti e amici. Durante le feste – e di feste ce n’erano tantissime, in quei lontani anni Settanta, prima che Washington Heights fosse Washington Heights, prima che Bergenline Avenue si trasformasse in una sfilata di accenti ispanici per quasi cento isolati di seguito – qualche parente ubriaco lo spingeva immancabilmente verso una ragazzina, e poi tutti si sbellicavano dalle risate mentre i due bambini dimenavano i fianchi come gli adulti.
Avreste dovuto vederlo, sospirava la madre di Oscar nei suoi Ultimi Giorni. Era il nostro piccolo Porfirio Rubirosa.4
Tutti i suoi coetanei evitavano le bambine come fossero portatrici di Captain Trips.* Oscar no. Lui andava pazzo per le femmine, aveva un casino di “fidanzate”. (Era un bambino robusto, sulla buona strada per diventare grasso, ma sua madre lo teneva ben vestito e pettinato, e finché le proporzioni della sua testa non si modificarono, poté sfoggiare vivaci occhietti scintillanti e belle guanciotte tonde, che si vedono in tutte le fotografie.) Le ragazze – le amiche di sua sorella Lola e di sua madre, e perfino la vicina di casa, Mari Colón, un’impiegata postale sulla trentina che si dipingeva le labbra di rosso e camminava come se avesse una campana al posto del culo – avevano tutte, si diceva, una cotta per lui. Ese muchacho está bueno! (Non erano disturbate dalla sua insistenza, dal suo evidente bisogno di attenzioni? Niente affatto!) Nella RD, durante le visite estive in casa dei parenti a Baní, Oscar si comportava peggio di tutti, piazzandosi davanti alla casa di Nena Inca e gridando Tú eres guapa! Tú eres guapa! alle donne che passavano per la strada, finché un avventista del Settimo Giorno non protestò con sua nonna, la quale interruppe la hit parade in tempo zero. Muchacho del diablo! Non siamo al cabaret!
Quel periodo, che per Oscar fu davvero l’Età dell’Oro, raggiunse l’apoteosi nell’autunno del suo settimo anno, quando si ritrovò fidanzato con due bambine contemporaneamente: il suo primo e unico ménage à trois, con Maritza Chacón e Olga Polanco.
Maritza era un’amica di Lola. Una smorfiosetta dai capelli lunghi, talmente carina che avrebbe potuto interpretare il ruolo di Dejah Thoris* da piccola. Olga, invece, non era un’amica di famiglia. Viveva nella casa in fondo all’isolato, che sua madre guardava di traverso perché era piena di portoricani che stavano in veranda a bere birra dalla mattina alla sera. (Ma allora non potevano restarsene a Cuamo? chiedeva, seccata.) Olga aveva una novantina di cugini, che a quanto pareva si chiamavano tutti Héctor, Luis o Wanda. E dato che sua madre era una maldita borracha (testuali parole della madre di Oscar), a volte Olga puzzava di pipì, e per questo gli altri bambini presero a chiamarla Signorina Urina.
Signorina Urina o no, a Oscar piaceva perché era taciturna, perché si lasciava scaraventare a terra per giocare alla lotta, perché si mostrava interessata ai suoi pupazzi di Star Trek. Maritza era semplicemente bella, non necessitava di altre attrattive, e oltretutto Oscar ce l’aveva sempre intorno, e così, con un vero e proprio colpo di genio, l’amico decise di provarci con tutt’e due contemporaneamente. All’inizio finse che il corteggiatore fosse il suo eroe numero uno, Shazam.* Ma quando vide che ci stavano entrambe, smise di fingere. Non era Shazam: era Oscar.
Quelli erano tempi più innocenti, e così la loro relazione consisteva nello stare vicini alla fermata dell’autobus e tenersi per mano clandestinamente, e culminò in un paio di baci molto seri sulla guancia, uno a Maritza e l’altro a Olga, scambiati di nascosto fra i cespugli sul ciglio della strada. (Guarda che piccolo macho, dicevano le amiche della madre. Que hombre.)
Il triangolo durò per una sola, splendida settimana. Un giorno, uscendo da scuola, Maritza bloccò Oscar dietro l’altalena e gli diede l’aut aut: o lei o me! Oscar la prese per mano e le dichiarò il suo amore a lungo e con serietà, ricordandole che si erano impegnati a condividere, ma Maritza non ne volle sapere. Aveva tre sorelle più grandi, e sapeva tutto quello che c’era da sapere sulle possibilità di condivisione. Non rivolgermi più la parola finché non l’avrai mollata! Maritza, con quella pelle color cioccolato e quelle fessure di occhi, esprimeva già l’energia Ogún che per tutta la vita avrebbe sbattuto in faccia alla gente. Oscar tornò a casa di cattivo umore, e si immerse nei suoi cartoni animati pre-catena-di-montaggio-coreana, Gli Erculoidi e Space Ghost. Cos’hai? gli chiese sua madre. Si stava preparando per andare al lavoro, il secondo lavoro della giornata, con l’eczema sulle mani che sembrava una macchia di cibo rappreso. Quando Oscar piagnucolò «ragazze», per poco Mamma de León non esplose. Tú ta llorando por una muchacha? Lo rimise in piedi tirandolo per un orecchio.
Mami, smettila, gridò la sorella di Oscar, smettila!
Lo scaraventò a terra. Dale un galletazo, ansimò, e poi vediamo se la piccola puta ti rispetta.
Un altro negro, al suo posto, avrebbe preso in considerazione il galletazo. Lui no, e non solo per la mancanza di un padre che gli insegnasse i segreti della virilità, ma perché era semplicemente privo di qualsiasi tendenza aggressiva e bellicosa. (A differenza di sua sorella, che si azzuffava con i maschi e con branchi di morenas che detestavano il suo nasino sottile e i suoi capelli quasi lisci.) Oscar aveva un indice di combattività zero; persino Olga, con le sue braccine rachitiche, avrebbe potuto picchiarlo come un tamburo. Aggressione e intimidazione erano escluse. Oscar rifletté. Non ci mise molto a decidere. Dopotutto, Maritza era bella e Olga no; Olga a volte puzzava di pipì, e Maritza no. Maritza poteva frequentare casa sua, e Olga no. (Una portoricana qui dentro? lo sfotté sua madre. Jamás!) Il negro ragionò con una logica sì-no, come quella degli insetti. Il giorno dopo chiuse con Olga nel cortile della scuola, con Maritza al suo fianco, e quanto pianse Olga! Tremava come uno straccetto, con quei vestiti di seconda mano e quelle scarpe di quattro taglie troppo grandi! Con il moccio che le colava dal naso e tutto il resto!
Anni dopo, quando lui e Olga erano ormai diventati due ciccioni spaventosi, Oscar non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, anche se solo per un istante, quando gli capitava di vederla attraversare la strada a lunghi passi o guardare nel vuoto vicino alla fermata dell’autobus per New York, e non riusciva a smettere di chiedersi quanto la freddezza bastarda con cui l’aveva mollata avesse contribuito a farla svalvolare. (Quando l’aveva lasciata, ricordava Oscar, non aveva provato nulla; non si era commosso neppure quando si era messa a piangere. Non fare la bambina, le aveva detto.)
Il momento in cui aveva sofferto sul serio era stato quando Maritza aveva mollato lui. Il lunedì dopo aver mandato in culo Olga, Oscar era arrivato alla fermata dell’autobus con il suo adorato cestino del pranzo del Pianeta delle scimmie e aveva trovato la bella Maritza mano nella mano con quel cesso di Nelson Pardo. Nelson Pardo, che sembrava Chaka della Valle dei dinosauri!* Nelson Pardo, che era così stupido da pensare che la luna fosse una macchia che Dio si era dimenticato di ripulire. (Ci arriverà presto, aveva assicurato ai compagni di classe.) Nelson Pardo, che sarebbe diventato l’esperto di furti con scasso del quartiere, prima di entrare nei Marines e perdere otto dita dei piedi nella Prima guerra del Golfo. Da principio, Oscar aveva pensato a un errore; aveva il sole negli occhi, e quella notte non aveva dormito abbastanza. Si era fermato accanto a loro e aveva rimirato il suo cestino, con quel Dottor Zaius così realistico e diabolico. Ma Maritza non gli aveva neanche sorriso! Aveva fatto finta di non vederlo. Dovremmo sposarci, aveva detto a Nelson, il quale, con un sorrisetto idiota, si era girato a controllare se stesse arrivando l’autobus. Il dolore gli aveva impedito di parlare; si era seduto sul bordo del marciapiede e aveva sentito qualcosa di incontenibile salirgli nel petto, facendogli prendere una gran strizza, e prima che riuscisse a capirci qualcosa stava già piangendo; quando sua sorella Lola si era avvicinata per chiedergli cosa avesse, Oscar aveva scosso la testa. Guarda quel mariconcito, aveva ridacchiato qualcuno. Qualcun altro aveva dato un calcio al suo adorato cestino del pranzo, graffiando la faccia del Generale Urko. Quando era salito sull’autobus, sempre piangendo, l’autista, un noto ex consumatore di PCP , gli aveva detto: Cristo, non fare il moccioso.
Come aveva influito la rottura su Olga? Ma la vera domanda era: Come aveva influito la rottura su Oscar?
Gli sembrava che da quando Maritza lo aveva mollato – Shazam! – la sua vita avesse cominciato ad andare in vacca. Nei due anni successivi continuò a ingrassare. L’inizio dell’adolescenza lo tartassò di brutto, rimescolandogli i lineamenti senza lasciare più nulla di carino, chiazzandogli la pelle di foruncoli, rendendolo impacciato; e il suo interesse per la fantascienza, che prima nessuno si filava, d’un tratto divenne sinonimo di sfigato con la S maiuscola. Non riusciva a trovare un amico manco a piangere: troppo imbranato, troppo timido e (stando agli altri ragazzi del quartiere) troppo strano (aveva l’abitudine di usare paroloni imparati a memoria appena il giorno prima). Non si avvicinava più alle ragazze, perché nel migliore dei casi lo ignoravano, e nel peggiore gli strillavano gordo asqueroso! Dimenticò il perrito, dimenticò l’orgoglio che provava quando le donne di famiglia lo chiamavano hombre. Non avrebbe più baciato una ragazza per molto, molto tempo. Come se quasi tutto il suo corredo per le relazioni con l’altro sesso fosse andato distrutto in quell’unica, merdosa settimana.
Le sue “fidanzate” non se la cavavano molto meglio. Sembrava che il cattivo karma amoroso di Oscar avesse colpito anche loro. In seconda media, Olga era ormai grande e grossa da far paura, come se avesse i geni di un troll; cominciò a bere rum a canna, e alla fine fu espulsa dalla scuola perché aveva l’abitudine di gridare NATAS!* in mezzo all’aula. Anche i suoi seni, quando infine spuntarono, erano flaccidi e raccapriccianti. Una volta, sull’autobus, Olga chiamò Oscar mangiatorte, e lui stava quasi per ribattere, “Senti chi parla, puerca”, ma si trattenne, temendo che s’imbizzarrisse e lo calpestasse; il suo indice di popolarità, già basso, non sarebbe sopravvissuto a una paliza del genere, e Oscar sarebbe finito alla pari con i bambini handicappati e con Joe Locorotundo, famoso per masturbarsi in pubblico.
E la bella Maritza Chacón? Come se la cavava lei, l’ipotenusa del nostro triangolo? Be’, neanche il tempo di dire Oh, divina Isis, e Maritza esplose nella guapa più sgamata di Paterson, una delle Regine del Nuovo Perù. Continuavano a vivere nello stesso quartiere, e così Oscar la vedeva spesso, una Mary Jane del ghetto, i capelli neri e gonfi come una nube di temporale – probabilmente l’unica peruviana al mondo più ricciuta di sua sorella (Oscar non aveva ancora sentito parlare degli afroperuviani, né di una città chiamata Chincha) – un corpo da far resuscitare i morti, e, dalla prima media in poi, sempre in compagnia di uomini due o tre volte più vecchi di lei. (Maritza era negata per molte cose – lo sport, la scuola, il lavoro – però ci sapeva fare con gli uomini.) Questo significava che era sfuggita alla maledizione, che era più felice di Oscar e Olga? Ho i miei dubbi. Maritza, a quanto ne sapeva Oscar, si divertiva a prenderle dagli uomini. Infatti le capitava di continuo. Se un ragazzo menasse me, diceva Lola con arroganza, gli morderei la faccia.
Guardatela, Maritza: pomicia sui gradini di casa, sale in macchina con qualche bullo e poi viene sbattuta giù, sul marciapiede. Oscar continuò a guardare le pomiciate, l’andirivieni delle macchine e gli spintoni per tutta la sua adolescenza malinconica e senza sesso. Cos’altro poteva fare? La finestra della sua camera si affacciava sul davanti della casa, e così lui poteva spiare Maritza mentre dipingeva le miniature di Dungeons & Dragons o leggeva l’ultimo Stephen King. Le sole cose che cambiarono, in quegli anni, furono i modelli delle macchine, le dimensioni del culo di Maritza, e il tipo di musica sparata a palla dalle casse dell’autoradio. Prima freestyle, poi hiphop dell’era Ill Will, e per un breve periodo, proprio alla fine, Héctor Lavoe e la sua band.
La salutava quasi tutti i giorni, in tono vivace e falsamente allegro, e lei ricambiava il saluto con aria indifferente, ma nulla di più. Non pensava che Maritza ricordasse i loro baci, ma lui, naturalmente, non poteva dimenticarli.
L’INFERNO DEGLI IDIOTI
Frequentò le superiori alla Don Bosco Tech, una scuola cattolica maschile di città strapiena di circa duecento adolescenti insicuri e iperattivi, che si rivelò, per un nerd grasso e appassionato di fantascienza come Oscar, una fonte di angoscia inesauribile. Per lui, le superiori rappresentarono l’equivalente di uno spettacolo medievale, come venire messo alla gogna e costretto a subire insulti e lanci di oggetti da parte di una folla di deficienti squilibrati, un’esperienza che in teoria avrebbe dovuto migliorarlo, anche se in realtà non andò proprio così; e se per caso l’ordalia di quegli anni avesse contenuto una qualche lezione utile, Oscar non riuscì mai a individuarla. Entrava a scuola tutte le mattine come il nerd grasso e solo che in effetti era, senza pensare ad altro che al giorno dell’emancipazione, quando finalmente si sarebbe liberato da quell’interminabile orrore. «Ehi, Oscar, ci sono finocchi su Marte?» «Ehi, buco di culo, prendi questo.» La prima volta che sentì l’esp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La breve favolosa vita di Oscar Wao
  3. Parte Prima
  4. Parte Seconda
  5. Parte Terza
  6. APPENDICI
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright