Nuovi Argomenti (32)
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Nuovi Argomenti (32)

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (32)

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Pier Paolo Pasolini, Roberto Saviano, Helena Janeczek, Alessandro Leogrande, Marco Di Porto, Osvaldo Capraro, Davide Bregola, Babsi Jones, Angelo Ferracuti, Ennio Brilli, Carlo Carabba, Eugenio De Signoribus, Leonardo Colombati, Guido Mazzoni, Andrea Inglese, Andrea Raos, Rossano Astremo, Alessandro Piperno, Lorenzo Pavolini, Matteo Fantuzzi, Riccardo D'Anna, Flavio Santi, Massimo Onofri, Angelika Riganatou, Anna Maria Sciascia, Gabriella Palli Baroni, Franco Buffoni.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039225
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STORIE DELL’ALTRO MONDO


Angelo Ferracuti
Foto di Ennio Brilli

Quella di Lido di Fermo è la scuola elementare delle Marche che ospita più bambini immigrati di tutte, il quarantatre per cento. Sono d’origine cinese, albanese, nigeriana, pakistana, indiana, argentina, russa o polacca. Il quartiere dove vivono è una periferia molto promiscua. Dietro la scuola c’è un ampio giardino e poi la ferrovia, di tanto in tanto si sente l’arrivo del treno in transito. Oltre la strada ferrata c’è un campo sportivo e poi il mare. Davanti, invece, la statale adriatica sempre ingolfata di traffico, poi il quartiere fantasmatico Tre Archi, e a un tiro di schioppo Porto Sant’Elpidio, piccola patria della calzatura marchigiana. È qui che ho incontrato Umara, Zahid, Florian e il piccolo Tunde.
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Umara è timidissima, usa il sorriso come arma di difesa. Quando parla guarda sempre da un’altra parte. Mi racconta della sua amica Apsa, che ogni tanto sente al telefono, le chiede se si è fatta nuove amiche qui. Ma Umara dice di no, è sempre lei la sua più grande amica. Me la descrive: “Ha i capelli fino a qua come adesso i miei (a caschetto) ed era un po’ grossa…”. Poi si blocca, non riesce più a raffigurarla. “Era molto spiritosa” dice. Andava a casa sua dopo il Ramadam, quando c’era la festa. Questo ricorda: “ci mettono i vestiti nuovi, ci danno le rupie, e i bambini prendono ciò che lo vogliono.” Dice soddisfatta, ripensando a quei giorni, “non ci ferma nessuno”. Anche in casa erano più liberi. “Solo i bambini che hanno dodici anni, quelli più grandi no”.
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Zahid è pakistano, vive qui da due anni. Viene da Mirpur. “Mi ricordo quasi tutto” parte sparato. Poi dice solo: “i miei amici, che giocavo con loro a cricket”. Lui è buon battitore, se la cava abbastanza con la mazza.
È arrivato qui con un volo aereo. “Prima un fratello e una sorella erano venuti con mio padre, e poi io e la mia mamma e tre fratelli. Prima ci hanno fatto vedere l’euro (lo chiama così l’aereo) che va, ti fanno vedere l’euro che va così, dopo adesso sta andando su, e dopo abbiamo visto un film, e dopo ho visto sotto che c’era tanta acqua e ho avuto paura di cadere. Prima stavo su su, si vedevano pochissimo quelli bianchi bianchi, le nuvole, poi quando è andato un po’ sotto sotto e stavamo venendo in Italia, vicino al mare quando so visto poi ho detto che stavamo per morire”.
Mi parla anche di sua nonna Emna. Lei, quand’era piccolo, gli raccontava che una volta, tanti anni fa, gli animali parlavano. “Prima parlavano tutti” ribadisce. “Dopo dio ha detto che non si può parlare e sono stati zitti”.
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Florian è albanese. Ha una vocina debole ed è un ragazzino dal corpo minuto, il volto scarno, capelli corti e biondi. Nell’espressione del viso risalta una malinconia antica. Mentre parla di Tirana si stringe sulle spalle, la maglietta aderisce perfettamente al corpo ossuto, le mani sempre composte sembrano per un attimo perdere la calma, e le piccole dita s’avvitano su se stesse. “Se ripenso a dove vivevo due anni fa” dice, “penso con tristezza alla mia casa e ai miei amici. Certi pomeriggi partivamo in gruppo dalle nostre case, e a piedi andavamo dalle parti del fiume Lana per giocare a pallavolo o al calcio”.
Qui in Italia è arrivato in traghetto, da Durazzo. “C’era già mia sorella, dovevamo raggiungerla. Con me c’erano i miei genitori e la mia piccola sorella”. La sera che ha preceduto la partenza a casa di Florian hanno organizzato una festa. “C’erano tutti i miei amici e anche i genitori, e noi bambini ci siamo mascherati. Io, per esempio, ero vestito da Batman. Avevo un lungo mantello nero. Loro mi chiedevano: devi proprio andare? E io rispondevo: non sono io che voglio andare è mio padre che ha scelto di partire.”
Il piccolo Tunde è nigeriano, e ha fatto di tutto per non farsi fotografare coprendosi la faccia col berretto di lana.
Probabilmente anche io parlo una lingua, l’italiano, con inflessioni dialettali marcatissime, che loro capiscono solo in parte. Penso alla ricchezza della loro, che non conosco, e mi sento un vero ignorante. Chissà come la sentono nemica, e come debbono aggrapparcisi, perché questa lingua permette a loro di esprimersi, di essere accettati e compresi. Forse saranno proprio questi ragazzini magnifici a salvarla. Forse meglio di noi potranno capirla fino in fondo, perché una lingua è viva quando serve.
Alcuni di questi bambini finite le elementari si trasferiranno in altre città, oppure torneranno nei loro paesi di origine. Molti, invece, si iscriveranno alla scuola media di Capodarco, una piccola frazione di Fermo, come Muzafar, Wen Zheng, Rupa e Honorata.
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Muzafar è uno spiritello simpatico, uno che potrebbe scrivere delle storie perché ha la tempra autentica del raccontatore, le sue parole sono come scosse elettriche. Comincia a raccontarmi del nonno. “Questa è vera”, dice. “Una volta mio nonno è andato in città, e poi camminando lui, e dopo lui ha guardato che era una…come si chiama?... bianco! Una pecora. Era una pecora. Questo è nostra, ha detto, poi ha preso... e poi questa cosa qua è andato... e poi quella pecora andava sotto, sotto, sotto sotto... lontano”.
Lo ascolto incredulo. Però debbo dire che non è la prima storia “magica” che mi racconta. Gli animali di Muzafar fanno tutte cose stranissime. “Lui (il nonno) andava sopra e sotto la pecora ci stava l’acqua. E sopra andava mio nonno e quella non era la sua pecora. Era un mostro. E allora mio nonno ha detto una frase di Corano e quella pecora è scappata. Non era una pecora, era un mostro. In Pakistan ci stanno i mostri.” Anche lui li ha visti. “Si, ma non ho visto la faccia. La faccia fa schifo. Non puoi guardare, Allah ha scritto sul Corano che i mostri diventano tutte le facce, anche possono fare la tua faccia, e dopo però i mostri diventano sempre dietro, e no avanti come i nostri”. Mi spiega che i piedi dei mostri sono dietro, diametralmente opposti al volto. Solo chi ha paura li vede i mostri, chi non ha paura non li vede. Gli animali, invece, possono vederli. “Però non sanno parlare, non possono dire che ci sta un mostro a noi”. Ha sentito dire che questi mostri strappano il cuore alle persone, lo tagliano, e poi se lo mangiano.
Wen Zheng è un ragazzino cinese molto alto, il viso slavato, i modi calmi e il sorriso sereno, molto reticente. Viveva con i nonni nel piccolo villaggio di Zhejiang. Cerca di descriverli. “Mio nonno è molto basso, e aveva la gobba. Portava sempre vestiti blu”. Dietro alla casa c’era un giardino. Davanti una strada brecciata, “dove non passano degli automobili, né macchine. Ci sono soltanto le persone con le biciclette”. I suoi facevano gli agricoltori. “Piantavano le angurie” dice, “le carote e altra verdura”. Vicino c’era un fiume, dove lui andava a fare il bagno. “A volte andavo a pescare” riferisce “con un bastone e un filo lungo. Con la zanzara come esca.” Mi parla del viaggio durato dodici ore per venire in Italia, e della sua paura di volare, e poi mi confessa che in Cina qualcuno gli aveva detto: “Gli italiani sono tutti bianchi, e hanno i capelli gialli”.
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Rupa viene da una città indiana molto grande, Punjab, dove si coltiva il riso. Il giorno che la incontro mi accorgo che è molto raffreddata, glielo dico. “Io sono sempre raffreddata. Forse perché ogni mattina prima di venire a scuola faccio sempre la doccia. Bisogna lavarsi i piedi perché davanti al libro sacro non puoi andare con un cattivo odore”. Parla con molto amore del suo paese. “L’India è bella” mi fa. “È vero, ci sta un po’ di povertà, perché essendo grande da mangiare non basta per tutti” mi dice quasi per scusarsi. “I poveri vivono in certe zone della città nelle tende, nelle baracche, e molti bambini vanno per le strade a chiedere l’elemosina. Alcuni per la fame hanno la pancia gonfiata.”
È di religione Sik. “Quelli che portano il turbante e hanno le barbe”. Mi fa, “con il turbante bisogna per forza avere la barba, perché uno sennò non è bello. A me piacciono le persone con i turbanti” mi confessa Rupa. Poi dice che i profeti della religione Sik sono molti. Dieci quelli più importanti. “Si racconta che l’uomo primitivo della nostra terra è stato un profeta che il nome non si può dire. Non lo so perché, ma non si può dire. Però se uno lo dice ad alta voce, commette un peccato”.
Rupa un giorno mi ha portato in regalo una storia indiana, vergata a mano su un foglio a quadrettini con una penna di colore verde.
Una volta un corvo spinto dalla sete si sedesse su un albero, proprio sotto alla pianta vide una bocetta d’acqua, tutto contento andò a bere; purtroppo nella bocetta l’acqua era poca e il suo becco non centrava, ma il corvo aveva un’idea cioè che se ne metterà nella bocetta dei sassi così l’acqua potrà venire su, e così fece quando l’acqua venì sopra in modo che il becco del corvo centrava se la bevò e volò contento con gli altri uccelli”.
Honorata. Quando chiedo a Honorata cosa le manca di più di Krosno, lei risponde decisa: “Mi manca il cane di mia cugina. Un cane a pelo lungo, di colore nero.”
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RASSEGNA DELL’ULTIMA
POESIA ITALIANA


(seconda parte)

Carlo Carabba

Di pochi anni più giovane di Francesca Genti è Mario Desiati. Le luci gialle della contraerea (Lietocolle) è una piccola raccolta eterogenea, per gran parte composta da una lunga poesia corale, “Poesia della fermata del Tram”, formata a sua volta da sedici componimenti più brevi che mettono in scena una sorta di commedia umana animata dai passeggeri del mezzo. E poi liriche di varia misura, in cui a un passato che appare, tingendo di sfumature chiare i ricordi del poeta (“il ricordo delle nenie d’infanzia/ s’inerpica per angusti palchi [...] Ed era in lontananza Valona/ Durazzo, i monti celesti dell’Albania”, “si aspettava l’ora del tramonto per il telegiornale/ e poi con la televisione che faceva bianca la cucina”) si affianca il presente dell’autore, nel suo essere antièpico – la tasca dei pantaloni (e i suoi oggetti accumulati e consunti, “Il portafoglio, una chiave tagliente/ la moneta da un centesimo graffiata/ l’ovale del telefono mobile e poi/ le scorze di nocelle, la muffa delle olive/ le gomme masticate”) si presenta “come cosmo perfetto/ ragione dialettica del mio disordine interiore” e se il poeta afferma “c’è qualcuno che mi vuole uccidere” non è per una cospirazione hitchcockiana ordita a suo danno, ma per “i gesti semplici della giornata/ una posata incrostata, un tovagliolo malmesso/ uno squillo inopportuno [...] nascondermi lo zucchero”. Squarci improvvisi e dolorosi percorrono la realtà che circonda l’autore, presente e passata – viva per Desiati, senza essere stata necessariamente vissuta, presente per chi pure presente non era all’epoca degli accadimenti in una sovrapposizione dei piani temporali. In una delle poesie più belle della raccolta (“Era l’odore del maltempo1) dalla descrizione della campagna industriale si passa in piena continuità (continuità accentuata e “drammatizzata” dall’anafora del verbo “era”) alle immagini di Taranto bombardata: “le luci gialle della contraerea” che danno il titolo al libro (“Era il fischio delle bombe/ le luci gialle della contraerea./ Era il bagliore inciso sull’orizzonte/ verso i mari incendiati di Taranto”). E questa tensione temporale è pervasa da una vaga attesa apocalittica, in cui i rituali e le profezie di tempi passati e presenti (“i riti della Sant’Anna, con terribili profezie [...] ancora ogni notte corde robuste/ sono tirate per il crocevia”) si confondono a segnali di tutt’altro genere (ancora da “C’è qualcuno che mi vuole uccidere”: “Questa notte viene illuminata da sogni messianici/ profezie sotto forma di tamburi minuscoli/ il telefono alle sette di mattino, unomattina”).
I versi lunghi, apparentemente prosastici, di Desiati, ancora fortemente ritmati se scomposti in piccole parti, si muovono in un orizzonte descrittivo, lontano dal pensiero raziocinante che vuole “inventare risposte ai perché”. Un universo in cui il dialogo pare essere precluso agli uomini e le parole sono sconfitte dallo sguardo (la parola vale come descrizione, come testimonianza, il poeta diviene – o sogna di divenire – i suoi oggetti).
Dal paesaggio pugliese, denso di ricordi, di evocazioni sensoriali, addirittura luogo deputato all’amore, si passa a Roma, città oscura, all’ombra della presenza costante del tram – vero inquietante protagonista di questa Roma di Desiati (e l’animo del poeta si fa tetro, percorso da una continua inquietudine, “Faccio incubi tutte le notti/ con le coperte che odorano di umido/ avverto il locale sentore del tram [...] mangio pietre tutte le sere/ accompagnate col vino e il cattivo umore”) – città di disperazione, di solitudine, mentre si fa all’orizzonte lo spettro di un’umanità semiferina e violenta (“la classe di straccioni/ senza l’acqua da bere e forse neanche l’osso da grattare”, gli africani di borgata Fidene che si contendono un osso “come i cani”, “la Tiburtina, il gelido marciapiede/ e poi tutta quella fila di gente/ che si spingeva per salire sui treni/ con il suolo pieno di anime/ sputi e annunci immobiliari”). E la parola perde ogni funzione comunicativa, come se il dialogo fosse costituzionalmente precluso agli uomini. Perfino l’amore non è che gesti, intimità, abbracci situazioni. Le parole sembrano poter servire solo a fraintendimenti (“sbuffi che non sto zitto neanche un attimo...il mio sarcasmo”), arrivano a ferire colui al quale sono rivolte (“Non può essere crudele tutto quello/ che mi hai detto”). Il poeta, ed emerge l’animo e il talento di narratore di Desiati, deve registrare la realtà, scegliendo lo sguardo, quasi la fusione con il rappresentato, per quanto non possa valicare pienamente i limiti della propria soggettività, del proprio carattere, delle proprie inquietudini. Le persone, gli altri uomini, divengono anch’esse oggetti di descrizioni ma senza distacco, che “gli oggetti servono per essere amati/ inghiottiti, frantumati, oppure dimenticati”, “gli oggetti sono idee/ come lucenti, di notte i...

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  1. Copertina
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  3. DIARIO - Enzo Siciliano
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