Storie e culture della televisione
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Storie e culture della televisione

  1. 480 pagine
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Storie e culture della televisione

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Cosa è successo quando è apparsa la televisione in Italia? L'hanno capita prima i cattolici o i comunisti? Ha ancora senso l'idea di servizio pubblico? Che rapporti ha intrecciato con il cinema e la letteratura? Come è diventata il medium egemone inglobando altre forme espressive? Le nuove tecnologie ne sanciranno la fine o ne trasformeranno la natura e le sorti? Aldo Grasso, il nostro maggior esperto in materia, ha radunato i più importanti studiosi di media, italiani e stranieri, per disegnare uno scenario inedito sul più diffuso e popolare strumento di comunicazione. L'intento è quello di inaugurare un nuovo metodo di osservazione nei confronti di un universo finora ingabbiato in letture ideologiche o settoriali. La storia della televisione italiana viene invece qui affrontata nei modi saettanti e curiosi della Kulturkritik, con una coralità di voci che si rispondono, intessendosi l'una all'altra, incaricandosi di riflettere con competenza e autorevolezza sui molteplici aspetti della questione. Alla televisione italiana mancava un libro così, un libro che, con precisione filologica e visionarietà teorica, ne raccontasse le storie, i risvolti, le potenzialità

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852038532
Categoria
Sociologia

STORIE

I

Politica

5

I partiti all’assalto di viale Mazzini
di Marco Damilano

La Rai prima della tv
«Sono dolente che per il modo con cui si svolgono le cose non mi sia possibile porgerle di persona il mio saluto augurale: voglia credere che per l’affetto che ho preso alla Rai in 15 mesi di Presidenza mi dà una sincera soddisfazione di sapere che passa nelle sue mani esperte…»1. Così, con un biglietto su carta intestata dell’Eiar corretta a macchina con la scritta «Il Presidente Rai», il 2 agosto 1946 Arturo Carlo Jemolo salutava il suo successore alla guida dell’azienda, Giuseppe Spataro. Parole che non nascondevano una profonda amarezza. Jemolo, insigne giurista cattolico-liberale senza tessere di partito, il primo presidente dopo l’Eiar fascista, si era battuto per una Rai indipendente dal governo. «La discriminante tra un regime autoritario e uno liberale» scriverà «è che nel primo il servizio pubblico è agli ordini della parte che sta al governo, nel secondo deve restare il servizio pubblico d’informazione spassionata ed imparziale, garanzia di tutti»2. Spataro, al contrario, è un politico di rango: fondatore della Dc, segretario del partito e sottosegretario per la stampa e l’informazione. Un notabile potente che per tutta la sua presidenza (1946-1950) resterà in Parlamento e al vertice di piazza del Gesù. E stabilirà l’imprinting della futura tv di Stato.
Nell’agosto del 1946 è in carica il secondo governo De Gasperi, l’Assemblea Costituente si è appena insediata, i rapporti di forza sono ancora da stabilire. Ma in Rai già si fiutano i futuri dominatori, il vento cambia con una nuova nomina. Con un colpo di mano, in estate, come avverrà quasi sempre. L’inizio delle trasmissioni televisive arriverà il 3 gennaio 1954, ma è in quel remoto passaggio di consegne tra il cattolico Jemolo e il democristiano Spataro, in quell’alba della Repubblica che si fissano le basi legislative, i rapporti istituzionali e soprattutto i codici di comportamento, il Dna della Rai, la Costituzione materiale destinata a durare fino agli anni Novanta, e oltre. La Rai è il laboratorio di innovazioni e di decadenze, anticipa svolte e cadute, è lo specchio più fedele della Repubblica dei partiti, di cui riflette progetti, ambizioni, miserie.
Una delle prime decisioni di Spataro è la chiusura del programma Opinioni, che garantisce spazi di intervento per tutti i partiti. Luigi Salvatorelli, che cura una rubrica settimanale, protesta per iscritto: «La mia Rassegna non era portavoce di opinioni mie o altrui; non era fatta a nome di nessun partito. Era un’esposizione obiettiva affidata direttamente a me, in ragione della mia competenza». Spataro replica: «Va ricordato che fu riservato un giorno alla settimana ad un conversatore dei partiti. E nell’affidare a Lei la “Rassegna” si tenne conto della Sua appartenenza al Partito d’Azione»3. Altro che competenza: Salvatorelli è in quota al Partito d’Azione. E agli azionisti tocca il sabato!
L’informazione radiofonica resta affidata a una sola voce: il governo. E la Dc la considera una cosa sua, come dimostra la ricca corrispondenza del presidente Rai. Scrivono le gerarchie ecclesiastiche: richieste imperiose, con la pretesa di obbedienza assoluta. Il nunzio in Italia, monsignor Francesco Borgoncini Duca, a nome della Segreteria di Stato, ordina a Spataro (15 gennaio 1948) di cambiare la collocazione della trasmissione degli evangelici, in onda la domenica mattina alle otto, prima del segnale orario. «Poiché» s’indigna il nunzio «tutti tengono aperta la radio per ascoltare il giornale radio e controllare l’ora, ne consegue che l’audizione del protestante “culto evangelico” diventa inevitabile». Scrive (5 settembre 1948) il direttore de «L’Osservatore Romano», il conte Giuseppe Della Torre, per chiedere la chiusura della commedia Tre rosso dispari, «quel che di più amorale come impostazione e di immorale come realizzazione si possa immaginare». Sulla censura Spataro è già intervenuto, ha proibito con una circolare ogni «allusione ad avvenimenti e a persone rappresentative dei vari partiti che possono offendere la coscienza politica e la coscienza morale e religiosa»4 degli ascoltatori. Scrive perfino don Luigi Sturzo, il 24 febbraio 1947. Sul bigliettino, classificato come «riservatissimo», si legge: «Caro Spataro, ti prego di tener presente il desiderio del maestro Alessandro Lualdi di dirigere per la Rai durante il prossimo marzo il concerto di Montecassino. Io m’interesso di lui solo per il lato artistico e perché fui amico di suo padre, un tempo prefetto di Catania». È l’anno zero del lungo regno democristiano. E le poche righe con cui il povero Sturzo, il prete fondatore del Partito Popolare, instancabile fustigatore della partitocrazia, raccomanda il maestro Lualdi «solo per il lato artistico» hanno le caratteristiche del fenomeno allo stato nascente: l’ingenuità e il candore.
Il Pci è il grande escluso, soprattutto dopo la sua estromissione dal governo, nel maggio del 1947. Il 6 giugno 1949 Palmiro Togliatti protesta personalmente con il presidente della Rai: «Ieri al Giornale Radio mi si è fatto dire che un operaio riceve in Cecoslovacchia un salario di quattrocento o cinquecentomila lire, e altre cose assurde. La prego di comunicare ai suoi ascoltatori che nella notizia non vi era nulla che corrispondesse a quanto io ho veramente detto»5. Del Giornale Radio Spataro conosce ogni dettaglio: i suoi collaboratori gli hanno consegnato un’informativa puntigliosa, l’elenco dei redattori affiancati dall’appartenenza politica. Vittorio Veltroni, caposervizio e poi primo direttore del telegiornale, è definito «simpatizzante democristiano», come Nando Martellini, il telecronista di Italia-Germania nel ’70 e dei Mondiali dell’82. Lello Bersani, la voce principe della radio che sarà volto simbolo del tg, è classificato come «indipendente di destra». Il futuro direttore delle Tribune politiche Jader Jacobelli è etichettato come azionista. La sorpresa è che, nell’organigramma, su undici redattori due hanno la tessera del Pci e altri due sono simpatizzanti. Per evitare che condizionino il notiziario si progetta un complicato incastro, l’anticipo della futura «zebratura», la convivenza nei tg dei lottizzati di tutti i partiti. «Il redattore capo» si legge «dovrà controllare il 2° e 3° turno, con speciale riguardo ai notiziari delle 20 e delle 13. In questi due turni dovrà essere presente un elemento di nostra fiducia. Nel primo – il meno importante, ma il meno controllato – non dovranno esserci elementi sospetti.» Anche se, ammettono gli informatori del presidente Rai, i giornalisti targati Pci non sono professionalmente meno preparati degli altri. «Arcà e Ragucci – di destra – non sono delle cime, ma pazienza. Orefice non vale un bottone». E già: Vittorio Orefice, «il firmatutto» (Sergio Saviane) della Velina, che per decenni incarnerà il pastone televisivo, la via democristiana all’informazione politica, rassicurante e tortuosa, tutta sfumature, sottintesi e ambiguità, per gli uomini di Spataro non vale un bottone.
Il 3 novembre 1946 arriva la riunificazione della rete nazionale. La Rai, completamente riorganizzata (Spataro ha recuperato i quadri aziendali più compromessi con l’Eiar fascista, a partire dal vicedirettore Marcello Bernardi; direttore generale è Salvino Sernesi), è ora pronta alla sfida della tv. E Spataro mette le premesse normative del potere democristiano. Il decreto legge del 3 aprile 1947, ratificato dalla Costituente senza dibattito, istituisce la Commissione parlamentare di vigilanza che per un decennio non si riunirà mai. La Convenzione del 1952 assegna per venti anni alla Rai in esclusiva la concessione dei servizi radiotelevisivi. All’Iri spetta la maggioranza assoluta delle azioni, il governo nomina il presidente, il direttore generale e sei membri del Cda. Così la Rai viene consegnata ai nomi forti della Dc, i presidenti del Consiglio degli anni Cinquanta: Mario Scelba, Antonio Segni. E l’uomo nuovo, Amintore Fanfani.
Il nuovo pulpito
Il 3 gennaio 1954, il primo giorno delle trasmissioni, la notizia viene accolta con scetticismo da giornali, intellettuali e partiti: «La tv sarà un privilegio di pochi eletti. E francamente non ci sentiamo di invidiarli» profetizza «l’Unità» il 9 gennaio. È la Chiesa a intuire per prima le potenzialità del nuovo mezzo: per l’inizio delle trasmissioni Pio XII invia ai vescovi italiani la lettera «I nuovi progressi». Il conservatore Papa Pacelli ha già intuito, ben prima di Karl Popper, che per fare tv serve una professionalità speciale, una patente. Teme che tramite il piccolo schermo «possa introdursi fra le pareti domestiche un’atmosfera avvelenata di edonismo… impressionanti rivelazioni del piacere, della passione e del male». E chiama alla «santa crociata catodica» i cattolici: occupare i posti di comando, indirizzare la tv verso il bene, il buono, il giusto. Trasformarla nel nuovo pulpito.
La tv italiana nasce così: nel segno della modernità e dell’integralismo. Non è ancora arrivata la lezione del convertito Marshall McLuhan, i cattolici pensano che controllando il mezzo si possa indirizzare anche il messaggio. È il cortocircuito che segna la breve stagione di Filiberto Guala, amministratore delegato dal 1954 al 1956. Ingegnere elettronico, cresciuto nell’Azione Cattolica, non sa nulla di televisione, lo nominano per la sua esperienza manageriale, per l’appartenenza alla corrente fanfaniana e per il fervore religioso. Ma Guala per i dirigenti della Rai è un oggetto misterioso. Clericale al punto di introdurre un «Codice di autocensura» con l’elenco delle situazioni vietate in tv (il divorzio, l’incitamento all’odio di classe, «le vesti non debbono consentire nudità immodeste che abbiano carattere lascivo…»). E innovativo quando seleziona con un concorso 40 giovani che diventeranno i registi, i funzionari, gli autori, i giornalisti della televisione: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Liliana Cavani, Fabiano Fabiani, Emmanuele Milano, Francesca Sanvitale… In Rai li chiamano i corsari perché usciti dai corsi diretti da Pier Emilio Gennarini, perché considerati la truppa d’assalto di Guala, perché desiderosi di conquistare posizioni di potere, in fretta. Ci riusciranno.
L’attivismo di Guala provoca la reazione degli aziendalisti di Bernardi. La stampa comincia a intervenire e a condizionare gli scontri interni alla Rai attaccando sempre più violentemente Guala: la sua carriera in Rai s’interrompe bruscamente nel 1956, quando entrerà in un convento vicino Roma, come frate trappista6.
Al suo posto c’è la stretta alleanza tra dirigenti democristiani attenti alla gestione e senza più l’ambizione di un progetto culturale, e la struttura laica e aziendale: la versione Rai del centrismo che governa l’Italia negli anni Cinquanta. E la tv di Lascia o raddoppia? e di Campanile sera decolla: nel 1954, all’inizio delle trasmissioni, gli abbonamenti erano 88.118, due anni dopo, al completamento della rete nazionale, il numero è già salito a 366.151, nel 1958 viene superato il milione, saranno due milioni nel 1960. Il paese si riempie di antenne, la tv arriva in zone isolate da sempre, per la Dc è un simbolo di buongoverno, i notabili locali si prodigano per portare la rete nel loro collegio: l’onorevole Dante Graziosi difende le popolazioni della Val Cannobina che con la tv avranno «il conforto del collegamento con il mondo», il calabrese Riccardo Misasi invoca un ripetitore nel comune di Papasidero «per il quale, data la sua infelice posizione geografica, il poter godere della tv rappresenta non solo l’unico diversivo che la popolazione possa concedersi, ma anche un contatto con la nazione…». I contenuti della programmazione sono in totale aderenza con i valori della Dc: il progresso equilibrato, il ritrovato benessere dopo la guerra, l’anticomunismo, la moderazione, le istituzioni sacralizzate (il capo dello Stato, il governo, i presidenti delle Camere) occupate dai cattolici. Mamma Dc e Mamma Rai sono la stessa cosa.
Gli altri partiti faticano a capire la potenza della televisione. I primi progetti di legge sulla Rai del Pci e del Psi prevedono «speciali commissioni che sorveglino sull’indipendenza politica dei programmi»: una cellula di controllo, quasi un soviet. Tra i laici (il gruppo de «Il Mondo» e de «l’Espresso», Ferruccio Parri, Ugo La Malfa) c’è il mito del modello Bbc: un monopolio statale autorevole, indipendente dal governo. E poi ci sono le destre (missina, monarchica, laurina) che si sentono escluse dai valori prudentemente antifascisti e costituzionali veicolati dalla tv. La messa in onda di Roma città aperta suscita le violente reazioni dell’Msi che accusa la Rai di ostacolare la pacificazione nazionale. E alla fine degli anni Cinquanta la catena Tempo Tv, formata da imprenditori contrari al centrosinistra, da Lauro ad Angiolillo, prova a dare vita a un circuito alternativo al monopolio, bloccato da una sentenza della Consulta che considera l’etere un bene pubblico. Già negli anni Cinquanta la tv privata non nasce con finalità solo economiche e commerciali, ma con una forte impronta politica, ostile all’apertura a sinistra.
Solo con le elezioni del 1958 l’egemonia Dc nella tv di Stato diventa un caso politico. Il capogruppo del Pci Pietro Ingrao chiede alla Camera a che titolo il ministro delle Finanze Giulio Andreotti ha nominato il suo collaboratore Franco Evangelisti nel Cda della Rai: «Per capacità giornalistiche? Non risulta a nessuno. Per doti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storie e culture della televisione
  3. SCENARI
  4. STORIE
  5. Note biografiche
  6. Copyright