Amore folle amore
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Amore folle amore

La scandalosa storia di Zelda e Fitzgerald

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  1. 312 pagine
  2. Italian
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Amore folle amore

La scandalosa storia di Zelda e Fitzgerald

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Informazioni sul libro

Si incontrano a una festa da ballo: lei è la più corteggiata fanciulla d'Alabama, lui un giovane ufficiale che diventerà uno dei più importanti scrittori di tutti i tempi, autore di capolavori come Il grande Gatsby e Tenera è la notte. Tra i due nasce un amore totale e tormentato. Un amore che entra nella leggenda, tanto da rendere la coppia Zelda e Francis Scott Fitzgerald il simbolo dei "ruggenti anni Venti". Sono entrambi bellissimi, di successo, e legati da un sentimento profondo. Eppure la loro è una storia sempre in equilibrio sopra la follia. Tra il Paradiso e l'Inferno. Litigi furiosi, gelosie, ripicche si alternano ad attimi di felicità travolgente, dolcezza, passione. È un sentimento che li consuma, li distrugge, portando Zelda alla pazzia e Scott all'alcolismo. Eppure i due si cercano, si odiano, si amano per tutta una vita perché Fitzgerald, come il suo Gatsby, "crede nella luce verde" e i due continuano "a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato". In Amore folle amore Alfonso Signorini, autore di appassionanti biografie che hanno conquistato moltissimi lettori, ci restituisce viva e completa una delle più romantiche e struggenti storie d'amore di tutti i tempi.

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Informazioni

1

Zitto, bimbo, non dire una parola
Papà andrà a comprarti un uccellino che canta
E se l’uccellino non canterà
Papà andrà a comprarti un prezioso anellino
E se l’anellino si trasformerà in ottone
Papà andrà a comprarti uno specchio
E se lo specchio si romperà
Papà andrà a comprarti un capretto.
Le palpebre stanche di Mollie cedono alla penombra in cui è immersa la cameretta di Scott. La sua morbida ninna nanna, quella stessa ninna nanna che nonna Jodie le cantava da piccola, quando i mostri della notte non se ne volevano andare, la sta accompagnando verso un sonno languido e inconsapevole. Ormai fuori è buio pesto e il lefse s’è fatto bollente: la piastra deve averlo già maculato come il manto di un ghepardo. Mollie questa sera non ha troppa voglia di preparare lefse, ma il suo Edward ne va matto. Ogni volta che lui va via, alle sette e mezzo del mattino, è sempre la stessa storia: le dà un buffetto sul collo, che la fa sussultare, e le fa capire con una rapida occhiata verso la credenza che al suo rientro gli piacerebbe tanto trovare nel piatto quelle soffici crêpe di pasta dolce. E lei, nonostante la fatica e le tante ore di sonno arretrate, non riesce a negarsi alle voglie di quell’uomo, anche se la passione tra loro è spenta da un pezzo.
Finalmente il piccolo Scott si è addormentato. Ha pianto stasera, come ogni sera. A volte piange tanto che le viene voglia di scappare via, mettere insieme un paio di scarpe e qualche straccio, niente di più, e sparire dal resto del mondo. Magari sbattendo la porta, in segno di quella ribellione che non è mai riuscita a esprimere, né con i gesti, né con le parole. Così Edward capirebbe cosa voglia dire starsene lì a impastare il lefse, tenerlo sulla fiamma senza farlo bruciare o attaccare al fondo della piastra, mentre c’è da fare il bucato e i singhiozzi del piccolo Scott ti spaccano la testa.
Mary e Louise non hanno pianto quasi mai. Sembravano nate già adulte, pronte a capire come ci si comporta per non pesare troppo sulle fatiche di una madre. Forse per questo se ne erano andate via tanto in fretta. Ma perché? Perché? Mary non aveva che un anno; Louise ne aveva soltanto tre. Impossibile scacciare le immagini che tornavano a martellarle il cervello. Mollie avrebbe fatto di tutto per sbarazzarsene, avrebbe voluto schiacciarle con un tacco, come faceva con i mozziconi delle sigarette di cui era schiava. Ma non ci riusciva. Ogni volta le facce delle sue bambine, i loro occhi enormi tornavano a vivere, a prendere forma nella sua testa. E ogni volta il dolore mozzava il respiro, fino a farle scoppiare il petto.
Mary quella mattina aveva gli occhi arrossati e sembrava voler tossire. Ma non emetteva alcun suono, si vedeva che qualcosa le stava esplodendo dentro e che lei lottava per reprimerla, per soffocarla. Lottava duramente e intanto taceva. La pelle del suo piccolo viso pareva increspata e bianca più del solito. Il dottor Sobchak, un piccolo ebreo di settant’anni, tarchiato e con esperienza da vendere, si era fatto vivo solo nel pomeriggio. La sua faccia non lasciava sperare nulla di buono ma era solo una sensazione. In fondo l’espressione di Sobchak era quasi tutta nascosta dalla barba.
«Signora Fitzgerald, è necessario darle subito dell’olio di eucalipto. E poi tenetela ben coperta. Purtroppo molti bambini, qui nella zona, sono stati colpiti da febbri violente come questa. Sembra che siamo tornati ai tempi della febbre gialla. Non sarà facile uscirne.»
“Non sarà facile uscirne...” Cosa ha voluto dire il vecchio Sobchak? Non sarà facile uscire dal contagio per St. Paul o per l’America intera? O per caso si riferiva soltanto alla sua piccola Mary? Lei è sempre stata bene, in buona salute, sempre tranquilla e vispa. Ora che comincia a conoscere il mondo, ora che comincia a capirlo... invece quel dottore ha detto che non sarà facile uscirne. Quel pensiero non la mollava un istante e si impadroniva sempre più della sua stanchezza mentre le ombre della sera scendevano sulla sua piccola casa.
La notte poteva essere lunga, ma non lo fu. Gli occhi arrossati della piccola Mary cominciarono a sbiancare verso la mezzanotte. Malgrado l’olio di eucalipto, la febbre era rimasta alta. Mary non aveva mai pianto troppo. Prima che fuori albeggiasse, quel piccolo angelo, con i boccoli biondi e gli occhi più celesti di tutte le acque del Pacifico e dell’Atlantico messe insieme, aveva smesso di lottare con l’uragano che aveva dentro.
Quando, quattro mesi dopo, Mollie notò gli occhi irritati di Louise e il tremore del suo corpicino, ancor prima di chiamare il dottor Sobchak corse a comprare dell’olio di eucalipto. Sapeva che cosa stava accadendo, lo sentiva. Nessuno avrebbe potuto farle cambiare idea, né il dottor Sobchak, né le frasi di circostanza di Edward e della signora Falewicz. Lei è la vicina di casa più amorevole che si potesse trovare, sempre sulla soglia della sua porta, la porta accanto, pronta a star vicino ai giovani e inesperti signori Fitzgerald in qualsiasi istante. Non sarebbe servita a nulla neppure lei, perché nulla sarebbe bastato. Mollie ormai sapeva tutto, perché Mollie sa sempre come andrà a finire.
Lei non credeva di essere nata per tutta questa sofferenza. Non ha mai visto l’Irlanda da cui proveniva suo padre, il vecchio Philip McQuillan, l’uomo che un lontano giorno del 1853 aveva deciso che il futuro era nel mistero senza confini del Nuovo Mondo. Phil aveva lasciato i mille laghi di Fermanagh County per avventurarsi tra i diecimila laghi del Minnesota. Aveva attraversato l’oceano per fare una prima tappa nell’Illinois. Qualche anno dopo si era diretto più a nord, nella città di St. Paul, il capoluogo della contea di Ramsey.
La vecchia Irlanda di suo padre Mollie non l’ha mai vista, eppure ce l’ha nel sangue e la sente nel cuore. Edward non può capire: lui ha soltanto la scorza dura e superficiale e la faccia del suo antico e nobile Maryland, una faccia un po’ tonta, che non si accorge di niente. Né di come siano fatti i quattrini, né di dove si possa andare a cercarli. Mollie davvero non riesce a comprenderlo. Edward si muove, si comporta, pensa come fosse ricco, lui che ricco non sarà mai.
Edward non è come Philip McQuillan, che ricco lo è stato davvero, malgrado fosse un semplice immigrato nordirlandese, uno che si era fatto strada nella regione dell’Upper Midwest senza avere alcun passato da spendere. Ma nell’umidità del Minnesota, tra gli olmi e le betulle, Philip aveva subito intuito come farsi notare. Nella cittadina di Enniskillen della contea di Fermanagh, ben prima dei diciotto anni, aveva iniziato a lavorare in una grossa drogheria. Sapeva far tesoro di tutto, faticava per guadagnare e per vivere, ma soprattutto per apprendere l’arte del far soldi. Una volta a St. Paul, aveva cominciato con una piccola bottega, nella quale la gente del posto trovava spezie, radici, frutta, cortecce e tutto quello che un dignitoso grocery store doveva avere. Gli era bastato poco per crescere, per imporsi come il venditore più abile, più fornito, più scaltro e più affidabile dell’intera zona. Nel giro di un paio d’anni, Philip McQuillan non era più “l’irlandese dai capelli rossi”, ma un danaroso e rispettato membro della comunità di St. Paul, nel cuore freddo e inospitale del Minnesota.
La stirpe dei Fitzgerald, al contrario, viveva di idee, qualcuna anche pericolosa. Un lontano cugino di Edward s’era conquistato la fama e l’immortalità componendo versi. Ciò aveva fatto di lui un eroe di famiglia, al punto che quando Edward e Mollie si erano ritrovati al cospetto del loro primo figlio maschio, lui non era stato nemmeno sfiorato dal dubbio.
«Mollie» aveva sussurrato alla moglie «è certamente il caso di chiamarlo Francis Scott Key. Devo averti raccontato che un mio avo, l’avvocato Francis Scott Key, è l’uomo che ha scritto The Defence of Fort McHenry, la famosa poesia di cui ogni vero americano va fiero. Daremo il suo nome a nostro figlio. È quello giusto. Vedrai, sono sicuro che gli porterà fortuna.»
Non poteva immaginare, Edward Fitzgerald, che presto quella poesia, grazie a un ordine esecutivo emesso dal presidente Woodrow Wilson in persona, sarebbe diventata ancor più famosa e addirittura prescelta come inno della Grande America, tanto da passare poi alla storia con un titolo diverso dall’originale: The Star-Spangled Banner.
Ma c’è dell’altro, nella storia degli avi di Edward Fitzgerald. Qualcosa di meno patriottico e più cruento. Un’altra cugina, di nome Mary Surratt, di incrollabile fede sudista come nella tradizione dell’intera famiglia, era caduta nella rete dell’indagine sull’assassinio del presidente Abramo Lincoln. E vi cadde fino al punto da essere condannata a morte. Almeno, le restò l’onore di essere la sola donna accusata di cospirazione nel caso Lincoln e la prima donna della storia americana a essere impiccata in nome del Governo Federale degli Stati Uniti d’America.
St. Paul sta stretta ai coniugi Fitzgerald. D’altra parte, nel loro orizzonte borghese, uno spazio per i sogni non è mai apparso. Si erano conosciuti già adulti: lui trentasette anni e lei trenta. Entrambi sufficientemente brutti per non vantare esperienze significative alle spalle e sufficientemente concreti per capire che quella sarebbe stata una delle ultime occasioni per farsi una famiglia. Il matrimonio è una questione che si risolve in fretta e occorre avere spirito pratico. Lei avrebbe sposato un raffinato uomo del Sud con un passato rispettabile e infarcito di storia americana, lui la figlia di un ricco irlandese. Uno con la gloria, l’altra con i quattrini: un’unione perfetta. Almeno sulla carta.
Cerimonia di nozze il più lontano possibile dalla bigotta St. Paul. La verità è che la famiglia di lei qualche pregiudizio sulla pelle ancora lo avverte. Philip McQuillan ha costruito la sua robusta identità sulla forza del denaro. Ma l’élite di St. Paul, discendente da un’altezzosa aristocrazia di colonizzatori francesi, conserva nei suoi confronti il pregiudizio del sangue e della fede. McQuillan resta pur sempre un cattolico irlandese, non uno di loro, non uno dei fieri discendenti della Chiesa gallicana di Francia. Tuttavia, quel giorno, Philip realizza il suo riscatto sociale: può vantare la soddisfazione di vedere tra gli invitati al banchetto di nozze della sua adorata figlia Mollie il volto autorevole e rassicurante del governatore William Rush.
«Mollie» sussurra alla figlia, mentre la accompagna all’altare «devi essere fiera del tuo vecchio e della tua famiglia. Un governatore alle tue nozze non è roba da tutti i giorni. Tuo marito può davvero girare a testa alta per la strada: fosse stato per lui oggi al massimo avresti avuto in prima fila il farmacista del quartiere.»
Il discorso di nozze di Eddy, leggermente tradito dagli effetti del bourbon, si rivela imbarazzante per tutti. Mollie, nel suo prezioso e romantico vestito di pizzo color cremisi, faceva rigirare tra le dita il piccolo bouquet di fresie, senza osare alzare lo sguardo verso i genitori e i parenti più prossimi. Più per la vergogna che per virginale pudore.
«Voi McQuillan siete la mia nuova famiglia. Vi porterò sempre rispetto. Ve lo devo: siete ricchi e il denaro vuole le sue regole. Alla vostra Mollie non farò mancare mai nulla, prometto. Compresa la macchina del ghiaccio, che c’è solo nelle case che contano. Si sa mai che non faccia il suo dovere di moglie e ci sia da far raffreddare i lividi delle percosse che le dovrò dare per addomesticarla...»
Grazie ai mezzi di Mollie, i nuovi Fitzgerald mettono su casa in Summit Avenue, la strada delle famiglie più in vista di St. Paul. Una casa tutta bianca, con un giardino curatissimo da Peter, il giardiniere di colore che papà Phil presta alla figlia due volte la settimana, in modo che non pesi sui conti di casa. La loro, però, non sarà mai un’abitazione da cui trasudi lusso: il lavoro saltuario di Edward non garantisce mezzi sufficienti a mantenerla all’altezza delle case dei vicini. Lui si occupa di forniture in vimini, tenta di arredare giardini e salotti dei ricchi, ma gli affari procedono faticosamente.
«Fino a quando potremo tirare avanti così? Non ti accorgi che se non ci fossero i miei genitori non avremmo neppure la credenza piena per mangiare? Mi hai riempito la casa di sedie e di mobili in vimini. Non riesci neanche a venderli. Sei un disastro, Eddy. E io sono una donna infelice. Sono stanca di fingere: fingere con le mie amiche, che ci credono ricchi da far paura. Fingere con mamma e papà, che ci credono felici. Fingere anche con te, perché non riesco a portarti rispetto, come invece ho giurato davanti a Dio. Perché deve essere tutto così difficile? Perché è tutto così diverso da come me lo ero sognato?»
Mollie non riesce a trattenere le lacrime. Davanti ai suoi sfoghi, ormai quotidiani, Eddy fatica a reagire. Si trascina stancamente nel suo furgoncino in cerca di nuovi clienti, spesso vagando senza una meta precisa per le piccole strade di St. Paul.
«Si parte tra due giorni, Mollie. Lasceremo questa città. È la soluzione migliore. Hai ragione tu: vendere il vimini non è più un vero affare e non posso certo sfamare nostro figlio rubando il mestiere a quel povero Cristo di Peter e potando siepi finché campo. Senza dirti niente due mesi fa ho risposto a un annuncio che ho letto sul giornale. I grandi magazzini Procter&Gamble cercano un addetto alle vendite nella filiale di Buffalo, nello stato di New York. Niente di prestigioso, si capisce. Ma ricominceremo la nostra vita da lì.»
Soltanto due anni prima di quell’inaspettato discorso, alle 15.30 del 24 settembre 1896, il piccolo Francis Scott Key Fitzgerald si era presentato al mondo col suo nome da avvocato patriota. Nome col quale padre John T. Harrison l’aveva poi battezzato nella cattedrale di St. Paul dodici giorni più tardi. Con un fuori programma. Il cero pasquale, posto accanto al fonte battesimale, improvvisamente era caduto per una mossa maldestra del chierichetto sulla veste di pizzo di Scott, che prese immediatamente fuoco. Un incendio durato solo qualche secondo, ma abbastanza per far dire a padre John: «Sarà un bimbo fortunato questo piccolo. Divorato dal fuoco della vita».

2

L’uomo dalla pelle scura ha gli occhi sbarrati e forse non arriva a diciotto anni. È in piedi, perché è così che gli hanno appena detto di stare. Le sue grosse labbra carnose sono impercettibilmente socchiuse, come aggrappate alle mosse del destino. Ai suoi fianchi, due uomini in divisa sudano sotto un cappello che sono costretti a indossare. Di fronte a loro, seduto su una sedia più alta di tutte le altre distribuite nell’aula, il giudice sta distrattamente declamando la sua quotidiana routine di sentenze, assoluzioni e condanne. È pronto a pronunciare il quinto giudizio del giorno. Ciò che per lui è consuetudine, per l’uomo tozzo che gli sta di fronte rappresenta l’istante che può decidere di tutta la sua esistenza, trasformandolo da operoso garzone nero di bottega, sottopagato ma devoto al padrone, in un fuorilegge ufficiale, probabile nuovo affiliato alla manodopera criminale di colore. Il ragazzo dice di non aver fatto nulla, ma questo non basta. Al padrone mancano dalla cassa dieci dollari e quaranta centesimi e il responsabile del piccolo furto non può che essere quel negro. A Isahia qualcuno l’aveva detto che lì dentro poteva andare in un solo modo: «Davanti a quelli non te la cavi. Al giudice non servono le prove, se hai la pelle scura sei già condannato».
«In nome del popolo degli Stati Uniti d’America, questa corte riconosce l’imputato Isahia Foreman colpevole di furto aggravato e continuato a danno del suo datore di lavoro, Stephan Winiarsky. Pertanto, condanna l’imputato a una pena di cinque mesi di carcere, da scontarsi immediatamente nel Penitenziario di Wetumpka State.»
Isahia Foreman ha il volto di chi non ha capito. Continua a tenere gli occhi sbarrati. Accanto a lui, i due uomini in divisa hanno un sussulto, lo afferrano per le braccia e brutalmente lo accompagnano, in via provvisoria, nella prima cella disponibile della Suprema Corte dell’Alabama, prima del trasloco nell’inferno di Wetumpka.
È ora di pranzo, il giudice Anthony Dickinson Sayre ha un languorino piuttosto insistente. Fissa una pausa al lavoro in aula, quando un fattorino interrompe ad alta voce il suo proposito di mettere qualcosa sotto i denti.
«Signor Giudice, signor Giudice!»
«Calmati, ragazzo mio. Che è successo?»
«Signor Giudice... sua moglie... è nato... anzi, è nata...»
«Ah, Minnie ha partorito. Bene, ragazzo, corri a casa mia e di’ che sto arrivando.»
Per il giudice Sayre, un figlio non è poi una gran novità. Ne ha già avuti cinque, tre femmine e due maschi. Purtroppo uno dei due, Daniel, è stato portato via dalla meningite poco prima che compisse diciotto mesi. La neonata che quel 24 luglio 1900 il giudice Sayre troverà nella sua bella casa di South Street a Montgomery completa una famiglia discendente da coloni che un secolo e mezzo prima avevano scelto di stabilirsi a Long Island, e che successivamente avevano deciso di traslocare nel ...

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  1. Copertina
  2. Amore folle amore
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  43. INSERTO FOTOGRAFICO
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