Nuovi Argomenti (38)
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Nuovi Argomenti (38)

DEMONI

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (38)

DEMONI

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Hanno collaborato: Dacia Maraini, Alessandro Piperno, Simone P. Barillari, Leonardo Colombati, Andrea di Consoli, Moira Egan, Tommaso Giartosio, Helena Janeczek, Antonio Monda, Davide Orecchio, Lorenzo Pavolini, Antonio Scurati, Walter Siti, Valerio Chiara, Mariolina Venezia, Michelangelo Zizzi, Janice Galloway, Pietro Grossi, Antoine Cassar, James Wright, Franco Sepe, Sapo Matteucci, Gianni Clerici, Vincenzo Pardini, Luca Canali, Franco Buffoni, Mario Santagostini, Derek Walkott, Seamus Heaney, Michael McDonald, Flavio Santi, Raffaele Manica, Silvia Lutzoni, Margherita Carbonaro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039287
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DEMONI


Alessandro Piperno

Dio come faticai a leggere I demoni di Dostoevskij!
Avevo ingollato la sua opera con una rapacità che con gli anni ho perduto. Ogni libro (perfino il più lungo, verboso, complesso) sembrava nutrirmi l’immaginario in un modo inedito, come se quella prosa fratta e scortese avesse accesso a luoghi della mia interiorità che avevo orrore a frequentare da solo. L’entusiasmo (che dostoevskianamente vorrei definire “febbrile”) di fronte alle avventure dell’“uomo del sottosuolo” scaturiva proprio dalla capacità di quel depresso cronico di stimolare l’emisfero cerebrale per cui provavo vergogna: quello che mi spingeva a cercare le più orrende umiliazioni, e a godere di esse come di un premio. “Amo chi mi disprezza” dicevo a me stesso pieno di gioia, e sapevo che dietro c’era l’ombra sinistra di quel corruttore.
Da quel che ho appena detto si può capire come Dostoevskij si affacciò nella mia vita nell’età in cui la lettura non era ancora per me una professione, bensì un’esperienza totale e, allo stesso tempo, un ripiego ai troppi fallimenti sociali: sì, insomma, nell’adolescenza. Un tempo che si configura come fatalmente dostoevskiano, in cui i nostri comportamenti sembrano modellarsi su quelli di Raskòl’nikov, Myskin, Makàrovic.
Lessi tutto Dostoevskij a quel tempo, perché era giusto leggerlo e perché non potevo fare altrimenti.
Con la sola eccezione dei I demoni. Che non riuscii a finire, che mi abbrutì di noia, di cui non compresi l’urgenza. E pensare che aveva un titolo così splendidamente evocativo. Oggi mi è chiara la ragione per cui non ne terminai la lettura. Si trattava di un libro strampalato, in qualche modo incompiuto, difficilissimo da seguire, il cui argomento sembrava essere la “politica”, un tema così indigesto all’adolescente sentimentale e dostoevskiano che ero. Eppoi c’era la mancanza di quello che vorrei chiamare un “plot necessario”: la raffica di omicidi e suicidi messi in scena non sembravano avere alcun senso: erano gesti dettati da una gratuità sconcertante. E questo mi infastidiva. Per non dire di tutto quel parlare di religione, di Cristo, della missione del superiore popolo Russo… Certo, certo, Dostoevskij era anche questo. Ma che esagerazione, che insistenza! Non capivo.
Finché, recentemente, per ragioni di studio, mi sono trovato nella necessità di riaprire quel libro, e di studiarlo. Non senza spavento, a dire il vero. E ho visto compiersi una di quelle strane epifanie che sanciscono il passaggio da un’età all’altra. Ciò che un tempo mi sembrava tedioso e indigeribile, ora mi appariva avvolgente. I personaggi i cui nomi avevo stentato a distinguere ora mi venivano incontro, mi entravano dentro nella loro inconfondibile peculiarità. Capivo tutto di Stavrogin, di Kirillov, di Verchovenskij, di Šatov… Essi, con il loro risentimento, con la loro sinistra cattiveria, ma anche con la loro desolata umanità, erano tipi che mi sembrava di conoscere, o per meglio dire di riconoscere. Al punto da soppiantare Raskòl’nikov e Myskin.
Riflettendoci, mi sono fatto l’idea che la forza di quel romanzo è tutta nella sua imprevedibile genesi. Maurice Blanchot ha dedicato pagine fondamentali sulla natura dell’opera d’arte che scaturisce sempre (o quasi) dal tradimento compiuto dall’autore delle sue intenzioni originarie.
Ebbene mai tradimento fu più completo di quello di Dostoevskij con i suoi demoni.
Il libro, scritto all’inizio dei sulfurei anni ’70, nasceva dall’esigenza di questo ex rivoluzionario di fare la parodia dei nichilisti – gruppo di sovversivi spregiudicati e velleitari, riuniti attorno alla figura carismatica di Nacaev, che sognavano una rivoluzione in Russia. L’odio di Dostoevskij per questi individui era assoluto. Detestava il loro ateismo, la transvalutazione dei valori universali dettati dal Cristianesimo. Intravedeva dietro ai loro programmi eversivi un abisso di narcisismo, di immoralità, di relativismo, di nichilismo (sì, lo so, è incredibile che lui parlasse di cose che a tutt’oggi ci riguardano). Fu l’odio a spingerlo a scrivere. I demoni doveva essere un pamphlet politico, un documento settario che mostrasse tutta la follia distruttiva e autodistruttiva dei nichilisti russi.
Ma in corso d’opera accadde qualcosa di imprevedibile che sancì la nascita dell’ennesimo capolavoro. Dostoevskij si innamorò delle sue creature.
Anzitutto di Stavrogin. Tra i personaggi più enigmatici della storia della letteratura di ogni tempo. Superbo nell’arte dell’inafferrabilità, mostruoso nell’arroganza, non si riesce a capire chi lui sia realmente e cosa rappresenti per lo stesso Dostoevskij, che ne è atterrito e soggiogato, disgustato e attratto, non meno di quanto lo siano i sinistri figuri che lo attorniano. Ci si è domandati se Stavrogin rappresenti l’Anticristo o semplicemente un emissario demoniaco, asceso al nostro mondo come certi eroi byroniani per portarvi scompiglio. Molti si sono interrogati sulle ragioni occulte del suo suicidio finale e della sua controversa confessione. Qualche ottimista si è spinto addirittura a ipotizzare la presenza in lui della scintilla divina. Ma forse non è così importante stabilirlo. Il personaggio ha una presenza scenica shakespeariana, un magnetismo così penetrante e oscuro che intimidisce perfino il lettore. La riuscita del personaggio sta tutta nell’ineffabilità. La contraddizione vive in lui in un modo maestoso, come in tutti i grandi iconoclasti. Non a caso Stavrogin incute un rispetto inaudito anche nel cronista de I demoni: è l’unico personaggio del libro che non subisca mai alcuna ironia, sempre descritto nella pallida e irresistibile bellezza, nell’indolenza dei veri aristocratici, nella parsimonia verbale. La venerazione che molti personaggi de I demoni nutrono per Stavrogin è morbosa: in Šatov – colui che verrà assassinato e che sembra interpretare il punto di vista di Dostoevskij con quel suo amore disperato per Cristo e quel delirante sciovinismo panslavista – questa passione lambisce le soglie dell’omosessualità. Ma soggiogati sono anche gli altri demoni, assai più perniciosi del povero Šatov, come Kirillov e Verchovenskij. E perfino il suo vecchio e bonario precettore Stepàn Trofímoviã. Per non tacere della madre di Stavrogin e di tutte le donne che ha sedotto con quel suo appeal luciferino.
Ma non solo di Stavrogin. Dostoevskij si innamora, seppur in modo diverso (perfino più commovente), dello svagato Kirillov. Dostoevskij è attratto dalla natura dell’ateismo di Kirillov. Esso sembra essere il frutto ammaccato d’un eccesso d’amore per Cristo. L’anima di Kirillov è fatta per amare Dio e per mettersi al suo servizio: è la disperazione nichilista a spingerlo al ripudio di Dio, conducendolo al suicidio. Kirillov è un uomo eccitato, confuso, tormentato, dal cuore purissimo fin quasi all’innocenza: è un bambino che spende le sue notti a rileggere l’Apocalisse.
Ora, se l’ateismo di Stavrogin è totalmente volto al male, quello di Kirillov si protende verso il bene con sincerità. Lui vuole liberare l’uomo dalla schiavitù di Dio. In tal senso Kirillov anticipa l’antiteismo nietzschiano e l’umanismo sartriano: in effetti nietzschiana è la sua intuizione dell’uomo nuovo, colui che, proiettandosi oltre il bene e oltre il male, finirà con il comprendere che il male non esiste. “Tutto è bene per colui che sa che tutto è bene” è la battuta più famosa di Kirillov. Non c’è atto osceno o criminale, nessun gesto che offenda la moralità degli uomini che possa essere definito “male”. Proprio perché basta che l’uomo prenda coscienza della sua bontà e felicità per capire che anche ciò che sembra male in realtà è bene.
E nessuno potrà negare che tutto questo sia struggentemente dostoevskiano.
L’impressione è che Dostoevskij abbia regalato a ognuno dei suoi demoni qualcosa della propria umanissima perversità. In tal modo creando figure in cui è quasi impossibile non identificarsi.
Quale lezione trarre da questa abissale esperienza letteraria?
Che se vuoi raccontare il male te ne devi in qualche modo innamorare. Non nel modo estetizzante e aristocratico che piaceva ai romantici, ma in una forma intimamente dolorosa. Partendo dal presupposto che il male ti riguarda. Che tu, come ogni essere umano, sei naturalmente portato a commetterlo (quante volte hai desiderato la donna del tuo migliore amico? O la rovina d’un collega più fortunato? O la morte del tuo nemico di sempre?). E che quindi, per raccontarlo, occorre entrare in un rapporto empatico con chi lo compie o con chi desidera compierlo, e cioè con te stesso.
L’idea di questa sezione nasce da qui.
Abbiamo chiesto ad alcuni autori affermati e ad altri che si stanno costruendo, di raccontarci i demoni del nostro tempo (individui spregevoli nella cui malvagità non sia difficile immedesimarsi), con urgenza, con amore, senza lasciarsi traviare da alcuna tentazione giacobina.

I 19 ANGELI DELLINFERNO


Simone Barillari

È rivelato nella sura coranica XCVI detta del grumo di sangue, la prima data da Dio al Profeta, che a guardia dell’inferno è stata posta una schiera di esseri chiamati al-zabaniyya, e nella sura LXXIV detta dell’avvolto nel mantello, la seconda data da Dio al Profeta, che questi esseri sono angeli e sono in numero di diciannove. È scritto infatti nella sura XCVI, versetto 18, che contro colui che impedisce un servo di Dio quando prega
Noi convocheremo i custodi del Fuoco [al-zabaniyya]
e nella sura LXXIV, versetti 30 e 31, che
Sopra di essa [la vampa ardentissima] sono diciannove. E a custodi del Fuoco abbiamo costituito angeli solo, e del loro numero facemmo tentazione per coloro che negano la Fede, perché acquistino certezza quelli cui fu dato il Libro e aumenti la Fede di coloro che credono, e non dubitino quei che hanno ricevuto la Scrittura e i credenti, perché dicano quelli che hanno un morbo nel cuore e i Negatori: «Che cosa mai ha voluto dire Iddio con questa similitudine?»
Si noterà inoltre che dei diciannove zabaniyya viene specificato con forza, al principio del versetto 31, che essi sono tutti angeli, affinché in nessun lettore si potesse ingenerare il pensiero che si trattasse di demoni – nemmeno nei Negatori e nei kafirun seguaci della croce, che affermavano che l’inferno è il regno di Satana, mentre è il luogo delle punizioni di Dio, e che Satana è l’Avversario, mentre è soltanto il primo e il più infelice dei puniti.
Oltre quei versetti non esiste un altro luogo nella Parola dove si menzionino gli zabaniyya, se non un cenno al loro capo che i torturati delle fiamme chiamano Malik (XLIII, 47), e quanto ora verrà aggiunto si deve dunque interamente ai commentatori, poiché essi non risparmiarono le loro interpretazioni sulla natura e la forma di questi esseri né soprattutto su quel numero inesplicabile, 19, malgrado Dio lo avesse posto nel Corano come tentazione.
Fiorirono dunque come fiori di fuoco le diverse interpretazioni degli esegeti. Disse Mansur ibn ’Ammar al-Mughni che l’angelo dell’inferno ha mani e piedi quanti sono i dannati e con ogni mano e ogni piede avvinghia e incatena chiunque voglia. Secondo ’Abd ar-Rahim ibn Ahmad al-Qadi uno degli zabaniyya prenderà diecimila kafirun con una mano e diecimila kafirun con l’altra mano, diecimila kafirun con un piede e diecimila kafirun con l’altro piede e getterà quarantamila kafirun nel Forno d’inferno con un solo gesto della sua forza. Hanno occhi come bagliori di lampi, denti come corna d’armento; le labbra scendono fino ai piedi, dalle bocche emanano vampe di fuoco e tra ciascuno di essi vi è la distanza di un anno. Allah-ta’ala non ha creato in loro la compassione – non un solo filamento di pietà. Così, quando Malik ordinerà agli zabaniyya: «Gettateli nel fuoco!», gli angeli scaglieranno senza esitare i dannati nelle fiamme, dove quelli grideranno e ripeteranno la ilaha ill’llah, poiché è stato detto dal Profeta che chi reciterà la professione di fede, chi testimonierà incessantemente che non c’è altro dio che Dio, potrà andare nel fuoco e non esserne consumato: e infatti il fuoco si ritirerà dai dannati, e chiederà a Malik: «Come posso io prenderli?». Allora Malik gli imporrà di prenderli perché lo ordina il Signore del Sommo Trono, e il fuoco li prenderà: alcuni dai piedi, altri dalle ginocchia, altri dal ventre, altri ancora dalla gola; solo quando le fiamme saliranno ancora, Malik dirà loro di non ardere i volti, poiché quei volti si erano prostrati di fronte a Dio. Giudicando forse questa crudeltà degli zabaniyya incongrua alla loro essenza di angeli creati di sola luce, alcuni esegeti minori li hanno accostati a certi demoni alati del sottosuolo detti ifrit, ma il paragone è improprio e a differenza degli ifrit uno degli zabaniyya può entrare nel Mare delle Fiamme per sette anni e il fuoco non lo brucia, poiché la luce vince il fuoco.
Tutto quanto venne scritto sui compiti implacabili destinati da Dio alle nature angeliche degli zabaniyya, tuttavia, non può essere posto accanto alla moltitudine delle interpretazioni, infinite quanto la superbia degli uomini, avanzate dai commentatori per spiegare ciò che aveva spiegazione solo in Dio, per dare un motivo a ciò che era stato fatto per non averne. Anche se la Parola metteva in guardia, quanti caddero nella tentazione che era stata tesa da Dio furono solo in piccola parte i Negatori, e molto più numerosi furono invece coloro che, pur credendo veramente, mostrarono di avere nel cuore il morbo della sapienza. Osservò innanzitutto ’Abd ar-Rahim ibn Ahmad al-Qadi che 19 sono le lettere che compongono la Bismillah ir-Rahman ir-Rahim invocazione che apre ogni sura e si dice contenga in sé come un seme mistico il Corano e ogni altra religione, invocazione che è il respiro delle labbra in preghiera, in nome di Dio clemente misericordioso. E quanto più vasta era la dottrina, tanto più grande era la tentazione. Scrisse Abu al-Hasan al-Mawardi in uno dei sei volumi del suo famoso tafsir che il 19 è il più grande dei numeri piccoli e il più piccolo dei numeri grandi, visto che contiene il 9, la più grande delle unità, e il 10, il più piccolo dei numeri superiori a una cifra; e inoltre, che Dio regge e governa il mondo sempre attraverso elementi in numero di diciannove, per esempio sostenendo la Terra con diciannove monti e conservando l’ordine del cosmo con 7 stelle e 12 costellazioni dello zodiaco, e che pertanto Egli aveva preservato l’inferno attraverso 19 angeli. In uno dei 32 tomi della sua opera esegetica Mafatih alghayb [Le chiavi dell’invisibile], invece, Fakhr al-Din al-Razi spiegò che 19 sono gli angeli castigatori perché tanti sono gli istinti che corrompono l’uomo: 12 gli istinti animali e 7 gli istinti naturali, tra cui nutrirsi, crescere e generare. Venne poi osservato che delle ore che compongono il giorno, cinque sono dedicate alla preghiera, ma quelle che restano possono lastricare la via di un uomo alla gehenna. Altri notarono ancora che 7 sono le porte dell’inferno, di cui le 6 per i miscredenti sono formate a loro volta ciascuna da 3 porte, e che sopra ogni porta doveva sedere uno degli zabaniyya, poiché veniva introdotta nelle bocche degli empi una catena che usciva dalla schiena, e l’estremità della catena era nella mano di un angelo. Questo moltiplicarsi delle spiegazioni testimonia la loro infondatezza, e molti avrebbero dovuto adeguarsi con reverenza all’esempio di Muhammad ibn Jarir al-Tabari, colui che giunse più lontano di tutti nella scienza di Dio e che in merito al versetto 31 della sura LXXIV si limitava a riferire un aneddoto della tradizione apologetica in cui il Profeta, interrogato dagli ebrei su quanti fossero gli angeli dell’inferno, risponde formando con le mani il numero diciannove: ai depositari della conoscenza, ai nemici che lo mettono alla prova, non viene ceduta nessuna spiegazione, e nemmeno le labbra ma le dita pronunciano il numero.
Nella rigogliosa tradizione degli hadith sulla vita del Profeta, d’altra parte, nulla giunge mai a far luce su ciò che Dio ha voluto lasciare oscuro, e quanto a questo si deve intendere come un ammonimento chiaro e misericordioso che il primo dei pochi passaggi ambigui presenti nel Libro venga dichiarato tentazione e parli di angeli a custodia dell’inferno, di guardiani che percuotono con verghe di ferro, come se insieme alla tentazione venisse mostrato anche il castigo per chi vi soccombe. In III, 7 si legge infatti:
Egli è Colui che ti ha rivelato il Libro: esso contiene sia versetti solidi [muhkamât, da altri tradotto con ‘espliciti’] che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici [mutashâbihât, ‘che si prestano a interpretazioni diverse’]. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che vi è d’allegorico, bramosi di portare scisma e d’interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno: «Crediamo in questo Libro».
Intorno a questo versetto, sorse nel sesto secolo dell’Egira una disputa decisiva tra alcuni teologi sunniti e il commentatore aristotelico noto ai latini come Averroè, nella quale egli sostenne che era lecito prolungare il respiro della penultima frase e così consentire ad alcuni uomini di conoscere la Verità al pari di Dio, poiché quando il Libro venne redatto non esistevano segni d’interpunzione e le ultime righe di quel versetto avrebbero potuto essere correttamente lette anche in questo modo:
…la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio e gli uomini di solida scienza. Essi diranno…
Avvenne così il paradosso che su una questione d’interpretazione venisse fondata la possibilità stessa d’interpretare, e l’infinitesimale avanzamento di un punto avrebbe potuto generare un infinito avanzamento della conoscenza. La tesi di Averroè non venne accolta, ma se è vero che una diversa pausa della voce avrebbe potuto da sola annullare gli abissi di conoscenza che separano l’uomo e Dio, non verrà dimenticato, per contro, che fu soltanto un’altra pausa della voce, come un’incertezza sulla soglia della Luce, a spalancarli per sempre.
Non è avventato domandarsi poi se un differente esito di quella controversia non avrebbe offerto un differente destino anche a Rashad Khalifa, l’ultimo e il più radicale esegeta dei versetti 30 e 31 della sura LXXIV. All’inizio degli anni Settanta colui che era stato fino a 38 anni un umile perito chimico scrisse un libro in cui intendeva dimostrare che ogni singolo elemento del Corano era stato composto matematicamente e che il 19, acronimo numerico dell’unico Dio, reggeva segretamente questa composizione matematica. Dopo aver trascritto il Libro su un computer, Rashad Khalifa aveva scoperto infatti che il numero delle sure del Corano, il numero totale dei versetti di tutte le sure, la somma di tutti i numeri menzionati nel Corano, il numero di parole di cui consistono la prima e l’ultima rivelazione coranica, il numero di volte in cui compare la parola Allah, la somma dei numeri dei versetti in cui compare la parola Allah, oltre a centinaia di altre somme, erano tutti multipli di 19. Aggiunse poi che Muhammad, il Profeta che viene chiamato Illetterato, non poteva essere artefice di simili calcoli, e che questo miracolo matematico era la prova inconfutabile che autore del Libro è Dio. In arabo, peraltro, 19 era da sempre la cifra che rappresentava Allah-ta’ala, poiché corrispondeva al valore gematrico (ottenuto cioè come somma dei valori che ogni lettera aveva anticamente nell’alfabeto) del suo più alto attributo, l’essere “Uno” e Solo, Wahd; e proprio come Dio era il Primo e l’Ultimo, così anche il 19 era composto dal primo e dall’ultimo numerale. Anche il suo nome, disse Rashad Khalifa, era codificato nel Corano, e la sua stessa venuta era annunciata in XXXI, 8, laddove si legge che «un Messaggero vi sarà inviato a confermare la rivelazione».
Rashad Khalifa morì una mattina di gennaio del 1990 mentre pregava in una moschea, ucciso da una setta di integralisti islamici.
Non avrei potuto scrivere questo articolo senza il contributo e la pazienza, ugualmente formidabili, di Mario Casari, Samuela Pagani e soprattutto Roberto Tottoli. Si deve a loro, tra i più importanti conoscitori italiani di cose mediorientali, buona parte del materiale che ho utilizzato, mentre appartengono esclusivamente a me gli errori e le distorsioni che le esigenze del testo e l’insufficienza della mia preparazione possono aver generato.

L’UOMO DELL’ACQUA


Leonardo Colombati

Salimbene da Parma racconta che Federico II volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini, arrivando all’adolescenza, senza aver mai potuto parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dar latte agli infanti e con la proibizione di parlargli. Voleva infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure la greca o la latina, o l’arabica; o se non parlassero sempre la lingua dei propri genitori, da cui erano nati. Ma s’affaticò sen...

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