Nuovi Argomenti (37)
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Nuovi Argomenti (37)

SCHIAVI E SCHIAVITÙ

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (37)

SCHIAVI E SCHIAVITÙ

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Roberto Saviano, Dacia Maraini, William Vollmann, Marcello Anselmo, Dario Stefano Dell'Aquila, Tommaso Giagni, Alessandro Leogrande, Marino Magliani, Marco Mantello, Melania Mazzucco, Luca Rossomando, Marco Rovelli, Piero Sorrentino, Carola Susani, Chiara Valerio, Charles Wright, Kenneth Koch, Admiel Kosman, Alberto Arbasino, Giuseppe Goffredo, Emanuele Trevi, Gabriella Sica, Derek Walcott, Tim Parks, Giuliano Amato, Franco Cordelli, Durs Grünbein, Lorenzo Calogero.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039270
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SCHIAVI E SCHIAVITÙ


Dacia Maraini

Abbiamo deciso, in una delle prime riunioni della redazione di Nuovi Argomenti, dopo la morte inaspettata e dolorosa di Enzo Siciliano, di puntare in futuro su numeri tematici. Fra i temi scelti c’è questo: Schiavi e schiavitù. È un tema forte, da “mani sporche”, ma chi crede più all’impegno nel senso sartriano? Alcuni infatti, l’hanno contestato ritenendo che si andasse fuori dal seminato. Eppure è stato fatto notare che fra i nostri redattori, ce n’è uno, anche dei più giovani, che si è ‘sporcato le mani’, tanto da indurre i carabinieri a proteggerlo. Parlo di Roberto Saviano che ha scritto un libro sulla camorra napoletana, congiungendo felicemente uno sguardo al tempo stesso sociale, politico, economico, a un tono lirico e personale, da poeta innamorato della lingua e dei suoi misteri.
Le discussioni in redazione sono state tante e anche brucianti. Ad alcuni sembrava che un argomento così socialmente determinato fosse nocivo per la scrittura letteraria che deve nutrire una rivista. Altri si chiedevano: ma l’etica della libertà, il problema della scelta, la questione della proprietà, dell’abuso del più forte sul più debole, non possono essere rappresentati dalla parola letteraria senza cadere nel sociologismo o nel neorealismo di maniera? E se Moravia fosse vivo, cosa avrebbe detto ? Il savio e sorridente Raffaele La Capria ci ha spinti a trovare un accordo e alla fine ci siamo arrivati: dei quattro numeri che escono durante l’anno, uno sarà intitolato ‘Schiavi e schiavitù’, un altro ‘Demoni’ (e comporterà una visione più letteraria e simbolica del male). Il terzo analizzerà il rapporto fra scrittori e scienza. Il quarto sarà dedicato al centenario della nascita di Alberto Moravia, fondatore della rivista.
Per il primo numero ci siamo messi subito al lavoro. Non tutti parteciperanno, anche se ci siamo detti che la redazione dovrebbe essere più presente con i suoi scritti e dire di sé appena possibile. Per quanto mi riguarda, mi auguro che questa diventi una prassi comune per il futuro della rivista: entrare in prima persona nella progettazione e nella costruzione del numero. “Sporcarsi le mani” anche in senso emblematico e letterario, perché no? Contare meno sugli scritti raccolti qui e là, dare prevalenza al tema scelto in partenza, collegialmente, pur non rinunciando alla presenza continuamente rinnovata di nuovi giovani scrittori, e senza abbandonare alcune tradizioni ormai consolidate, come il diario di ingresso alla rivista, che, giusto in questo numero, è stato affidato a Saviano.
La prima domanda che si pone chi si accinge a scrivere per questo numero è: ma cosa sappiamo della schiavitù, nuova o vecchia che sia? E come affrontare il tema, talmente trattato e logorato dai media da apparire frusto prima ancora di cominciare a scriverne? Alcuni, onestamente, come ha fatto Melania Mazzucco, come ha fatto Marco Mantello, hanno raccontato il loro rapporto, parziale, approssimativo, fatto soprattutto di una attenzione partecipe e ragionata nei riguardi della schiavitù, come può presentarsi a qualcuno che ci riflette sopra, ma la conosce solo attraverso fuggevoli sguardi al di là del muro. La domanda taciuta di molti è: come può apparire e parlare uno schiavo a chi si ritiene libero (anche se magari lo è molto meno di quello che crede)? Quale atteggiamento prendere di fronte a chi ha perso la proprietà di se stesso? quello di puri osservatori del fenomeno, come se non li riguardasse più che tanto? quello invece di una compartecipazione sentimentale, con tutti i rischi che questo comporta? Fare agire l’immaginazione per entrare nella pelle dell’altro? Ma fino a che punto si può entrare nella pelle di una persona che è cresciuta in un paese lontano, così differente dal nostro, attraversando esperienze devastanti che ne hanno incrinato per sempre la fiducia nel futuro?
C’è chi vede lo schiavo come un novello Gesù Cristo appeso alla sua croce, la ferita sul costato aperta che butta sangue; e c’è chi vede la corruzione e il degrado, anche affettivo, che lo stato di schiavitù comporta. Sono le contraddizioni in cui si era imbattuto uno che di schiavitù se ne intendeva. Parlo di Pasolini, che prima ha cantato ed esaltato il sottoproletariato ritratto nella sua innocente schiavitù sociale e poi l’ha esecrato, accusandolo di avere assorbito i valori volgarissimi, schiavizzati dal mercato, della borghesia italiana.
Intanto sono arrivati dei pezzi dall’estero: uno di William Vollmann di cui Mondadori sta per pubblicare un libro, che a sua volta è una piccola parte di un lavoro in sette volumi di un lungo racconto sulle sue esperienze in paesi come l’Afghanistan, l’Africa, l’India. Nello scritto si parla abbondantemente di schiavitù, soprattutto femminile, adolescenziale. Come interpretare il pur intenso pezzo di William Vollman, con quel protagonista che senza un minimo di pudore o di dubbio, vende e compra ragazzine dodicenni, anche se a volte lo fa per salvarle? Non c’è una eccessiva ambiguità in questo racconto? Altra discussione in redazione, durata ore. Si può essere ambigui di fronte a un tema così brutale? Certo, tutti sappiamo che la letteratura si nutre di dubbi e di dilemmi. Ma fino a che punto ci si può inoltrare in questa complessità dolorosa senza perdere il senso dell’orientamento? Helena Janeczek sostiene che l’ambiguità è un modo di avvicinare il tema della schiavitù, tale da mostrare, dall’interno, le contraddizioni che non possono mancare di fronte a una faccenda tanto scottante. E così, senza neanche accorgercene, siamo entrati nel secondo numero tematico di Nuovi Argomenti.
Altri, soprattutto giovani scrittori, hanno spedito racconti di esperienze a loro vicine, di una schiavitù molto concreta e reale, tutta italiana e giovanile. Niente a che vedere con il lavoro coatto degli stagionali africani o delle prostitute minorenni arrivate a noi con la tratta, ma vite di ragazzi e ragazze coinvolti in un destino di compravendita che li ha resi schiavi di se stessi e di altri prima che se ne rendessero conto. Forse è proprio questa la schiavitù che meno conosciamo e che sta dilagando in questa Europa del benessere e dello sviluppo tanto invidiato. Un popolo di giovanissimi che vendono se stessi per un viaggio, un vestito nuovo, un motorino. Si fanno dipendenti di qualche magia chimica che devasta i loro cervelli, pensano al lavoro come a una remota maledizione, si lasciano impantanare in rapporti brutali e scintillanti. Sono schiavi di qualcosa che stentiamo a riconoscere. Della crescente povertà? della disoccupazione? di una strana malattia che potremmo chiamare della volpe e dell’uva che non è mai matura per quella mano tesa?
Io, che ho proposto di indagare su schiavi e schiavitù, di fronte alle tante contestazioni, mi sono chiesta perché l’ho fatto. Ho già scritto storie di soggezione in una raccolta chiamata Buio. Non ho mai usato la parola “schiavo”, che poteva essere implicita nelle storie di bambini costretti a una sessualità di adulti senza scrupoli. Ma allora cosa vuoi che ti regali questo numero? era la domanda seguente. E credo di avere capito che a spingermi verso l’argomento sia stata proprio la sua lontananza e nello stesso tempo la sua vicinanza mostruosa e inavvertita. Rivoltare il binocolo e allargare lo spazio intorno alla malattia che mi pare stia contaminando la nostra vita di tutti i giorni, anche se in modo così perverso e sotterraneo. Non si tratta solo di testimonianze, che si trovano abbondanti nel giornalismo sul tema, ma di una voglia di memoria che viene fuori dal grande fardello nero di una esperienza continuamente ripetuta, nel silenzio della coscienza collettiva. La geografia che riguarda la schiavitù si allarga mentre la osservi, mentre ne tracci i confini e diventa multiforme, quasi si espande, liquida, sul foglio che hai davanti.
Una voglia di storicizzare? Forse. Anche. Come è stata pensata la soggezione umana nel passato? quando si è cominciato a usare la parola schiavitù? quanto si può espandere l’idea della dipendenza senza entrare nel patologico, nell’indistinto, nella pura psicologia del profondo?
Schiavo, mi dice il dizionario etimologico, deriva dal latino sclavus e rappresenta l’identificazione fra la funzione e il luogo di origine. Molti schiavi romani venivano infatti dalla Slavonia, ossia dell’antica Scizia. I greci invece li chiamavano eilotis perché i loro prigionieri venivano appunto da Eilos. Curioso che non ci sia un termine che rammenti l’Africa, salvo la parola negriero.
Ma quando e come è iniziata la schiavitù? E dove? E perché? Questo impossessarsi di un altro corpo, in senso legale e simbolico, è da considerarsi una tendenza stabile e profonda dell’uomo? E l’abolizione della schiavitù, quella sollecitata dalla rivoluzione francese, dalla guerra civile americana, dal nostro Beccaria, è da ritenere una conquista vera? qualcosa che ha cambiato i rapporti degli uomini nel mondo? Oppure si tratta di una proibizione puramente formale, sotto cui sono nate mille nuove forme di servitù che si infiltrano fra le abitudini di una società tecnologicamente sviluppata che si pretende emancipata?
Con queste domande in testa mi sono messa a fare una piccola ricerca sulla schiavitù dai tempi più remoti, consultando libri su libri e frugando in Internet. Sarò una inguaribile illuminista, ma sono convinta che le risposte più potenti derivino dalla organizzazione della memoria. Lì, nella conoscenza regolata del passato, può trovarsi la nostra capacità di capire qualcosa del presente. Da lì può svilupparsi il nostro talento nel giudicarlo e rappresentarlo. E da lì ho cominciato.
La prima testimonianza scritta della schiavitù ci viene dalla Mesopotamia. Questo ho imparato da un libro francese che si chiama Atlas des esclavages, curato da Dorigny e Bernard Gainot, accompagnato da una ottima e dettagliata cartografia. Il contratto in questione tratta la vendita di uno schiavo maschio e porta la data del 2600 avanti Cristo. Non è che prima non si praticasse l’ assoggettamento di esseri umani, ma non veniva segnato su un contratto. Il che presuppone un sistema legale accettato da una comunità.
Tracce scritte della compravendita degli esseri umani si trovano sia nel mondo greco, sia nella società ebraica. Fra i greci gli schiavi potevano essere solo stranieri. Un greco non aveva diritto di tenere in schiavitù un altro greco. Mentre, se si trattava di un essere umano portato in patria come bottino di guerra, poteva essere ereditato: la proprietà passava per diritto, da padre in figlio. Anche gli ebrei non facevano schiavi fra gli ebrei stessi. Ci sono testimonianze però che raccontano come, per la grande povertà di certe epoche, sia gli ebrei che i greci siano arrivati a vendere i propri figli che poi diventavano schiavi di altri ebrei, o di altri greci, nonostante le proibizioni della legge. E vedremo che questa dei genitori che vendono i figli per povertà è una costante di epoche diverse. Anche oggi succede e nemmeno raramente. Alla coscienza di un occidentale degli anni Duemila appare aberrante, ma la moltiplicazione dei casi, perfino recentissimi, deve indurci a capire che, superato un certo grado di miseria e di fame, si è disposti a fare cose che, in condizioni di minimo benessere, ci appaiono ripugnanti.
In Italia, le prime testimonianze di contratti che sanciscono il possesso di schiavi ci vengono dal Cinquecento. Genova e Venezia sono stati i maggiori centri di smistamento. Dal 1600 al 1729 le due città hanno preso il completo controllo del commercio che importava schiavi da Kaffa, Tana, Cipro, Creta. C’era perfino un traffico con la Russia per l’acquisto di Circassi e Tartari, molto apprezzati come lavoratori nelle città europee. Nel 1450 a Palermo si trovavano migliaia di prigionieri che erano stati trasportati dal Tchad. A Napoli provenivano soprattutto dalla Cirenaica.
Nel mondo greco tutte le strade venivano costruite dagli schiavi. Altri, tantissimi, prigionieri di guerra, erano usati per scavare lunghi tunnel nelle miniere. Solo nel 420 a.C si contavano 25.000 schiavi nella famosa miniera d’argento di Laureotiki, dove, dieci anni dopo, arrivarono a lavorare fino a 35.000 uomini.
La tratta internazionale di mano d’opera gratuita, nell’epoca più antica, faceva capo all’isola di Delos. Strabone scriverà, quasi quattrocento anni dopo, che ogni giorno 500 schiavi erano venduti nel mercato della piccola e deliziosa Delos, una città che contava solo 20.000 abitanti. Segno che c’era un gran traffico di uomini e donne di ogni età che venivano scaricati dalle navi sull’isola delle Cicladi, per essere immessi nel mercato. Un commercio cominciato, come testimoniano molti scritti, nel Quattrocento avanti Cristo, è continuato senza soste fino ai primi anni dopo la nascita di Gesù Nazareno. Per spostarsi, in un secondo tempo, a Zanzibar.
Ricordo ancora un mio viaggio nell’isola di Zanzibar alla fine degli anni ’60. Approdando nel piccolo porto di Stonetown, si veniva accolti da un fortissimo profumo di noce moscata e di cannella. Ogni mattina sembrava che la graziosa città africana uscisse dal forno, come una torta appetitosa. Eppure l’isola porta ancora i segni di un brutale traffico di esseri umani. Attaccati ai muri delle case più antiche si possono riconoscere gli anelli di ferro a cui venivano incatenati gli schiavi in attesa di essere venduti. Le piazze dei mercati portano sopraelevazioni in pietra su cui gli schiavi, nudi, venivano esaminati dai commercianti: la bocca aperta senza riguardi per vedere lo stato dei denti e l’età, come si fa coi cani e coi cavalli; i muscoli tastati per coglierne la capacità al lavoro e l’abitudine ai pesi, le mani guardate nei particolari perché non portassero piaghe, il membro scrutato da vicino per cogliere ogni traccia di malattia venerea. Insomma l’umiliazione fatta istituzione. La mortificazione era parte della moneta di acquisto. Tutto questo mentre, a pochi metri di distanza, un mare verde cristallino, bellissimo e profumato, si rovesciava, animato da piccole onde chiare e spumose, su lunghe spiagge abitate solo da granchi di un rosa struggente.
Nel mondo romano, sotto la Repubblica, gli schiavi erano moltissimi e venivano usati soprattutto per lavorare i campi. Il rapporto fra padroni e servi a vita era basato su una forma di paternalismo tollerante, come ci testimoniano gli scritti di Cicerone. Bellissime le lettere, raccolte e fatte pubblicare nel I secolo a. C. dal liberto Tirone. Chi li legge rimane colpito dalla convinzione, appartenente alla cultura dell’epoca, che la schiavitù fosse un destino immodificabile. Ma nello stesso tempo avverte il sentimento di pietà che molti provavano verso quegli esseri umani avviliti e assoggettati. Anche se in Cicerone alla fine prevalgono le preoccupazioni per una razionalizzazione dell’economia domestica. Le sue erano soprattutto apprensioni per un uso corretto di regole non scritte che dovevano disciplinare i comportamenti dei padroni verso i servi schiavi e viceversa.
Con l’Impero, l’allargamento dei confini, le grandi conquiste e l’aumento della ricchezza, sembra che Roma abbia imparato a conoscere e praticare piaceri perversi, sconosciuti alla Repubblica. Nasce l’abitudine di comprare bambini per il godimento degli adulti. Gli acquirenti si chiedono se sia meglio prenderli assieme alle madri, per avere meno noie, o farli tirare su da un guardiano. Usati da piccoli per diletto erotico, venivano mantenuti anche da adulti, dopo averli trasformati in bravi lavoratori: guardiani, stallieri, guidatori di carri, contabili, amministratori e perfino cerimonieri.
Plastica e vivacissima la lettera che scrisse Seneca fra il 61 e il 65 d.C.:
“Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione”. “Sono schiavi.” “No, sono uomini”. “Sono schiavi”. “No, vivono nella tua stessa casa”. “Sono schiavi”. “No, umili amici”. “Sono schiavi.” “No, sono compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere sia su noi che su di loro. […]. A quegli esseri infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio dei padroni con una parola, si sconta a caro prezzo; staranno tutta la notte in piedi digiuni e zitti. […] Viene spesso ripetuto quel proverbio, frutto della medesima arroganza: “Tanti nemici, quanti schiavi”: ma loro non ci sono nemici, siamo noi a renderli tali […].Ecco gli schiavi al lavoro: uno scalca volatili costosi, muovendo la mano esperta con tratti sicuri attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene! […] Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta con l’età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto e, pur essendo ormai abile al servizio militare, glabro, con i peli rasati o estirpati alla radice, veglia tutta la notte, dividendola tra l’ubriachezza e la libidine del padrone, e fa da uomo in camera da letto e da servo durante il pranzo. […] Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! […] verso di loro noi siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. […] “Ma io”, ribatti, “non ho padrone.” Per adesso ti va bene; forse, però un giorno lo avrai anche tu un padrone. Ti ricordi a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene?.... Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui.”
Nonostante queste esortazioni alla moderazione e alla tolleranza, gli schiavi in generale erano trattati peggio degli animali. Il fatto che non ci fosse una legge che li proteggesse, li esponeva a qualsiasi arbitrio. Molti ne erano terrorizzati e cercavano il consenso dei loro proprietari a tutti i costi. Altri covavano odio e progetti di emancipazione. Appena trovavano l’occasione, scappavano. Fra costoro c’erano soprattutto quelli che avevano una istruzione e prendevano come modello l’antica società greca. È accaduto spesso che gruppi di schiavi formassero piccole comunità clandestine. Riuscendo a volte anche a stanziarsi in piccoli centri, dove istituivano dei governi, anche approssimativi e grossolani, ma basati sui principi di eguaglianza e di libertà. In Sicilia si hanno notizie di città che per un certo periodo sono state interamente controllate dagli schiavi: la città di Triokola (oggi Caltabellotta), di Heraclea Minoa (oggi Capobianco), di Morgantina (nella zona di Selinunte), di Leontinoi (fra Lentini e Carlentini) e di Henna (Enna). Nonché per brevissimi periodi le città di Segesta, Halycude (Alicudi), Lilybee (Marsala) e Eryx (Erice).
Famose sono rimaste alcune rivolte di schiavi. La più conosciuta e la più antica quella di Spartaco, che dal 73 al 71 a C. fece tremare la Repubblica romana con la sua comunità di schiavi che aspirava alla completa autonomia. I romani avevano un atteggiamento razionale e pratico verso le persone tenute in stato di soggezione. Se possedevano doti particolari, li accettavano fra di loro, li lasciavano diventare anche famosi, soprattutto se artisti, come successe con Livio Andronico, con Terenzio Afro, con Cecilio Stazio, tutti figli di schiavi o schiavi essi stessi. Ma di fronte alla disobbedienza e alla p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (37)
  3. DIARIO - Roberto Saviano
  4. SCHIAVI E SCHIAVITÙ
  5. SCRITTURE
  6. RIFLESSIONI SULLA LETTERATURA
  7. INEDITO - Lorenzo Calogero - PENSIERI E POESIE
  8. Copyright