La nuova geografia del lavoro
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La nuova geografia del lavoro

  1. 288 pagine
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La nuova geografia del lavoro

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Negli Stati Uniti l'economia postindustriale, basata sul sapere e sull'innovazione, sta cambiando profondamente il mercato del lavoro, sia per la tipologia dei beni prodotti sia per le modalità e, soprattutto, le località in cui vengono realizzati, creando enormi disparità geografiche in termini di istruzione scolastica, aspettativa di vita e stabilità famigliare. Per alcune regioni e città, infatti, la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie vogliono dire aumenti nella domanda di lavoro, più produttività, più occupazione e redditi più alti. Per altre, chiusura di fabbriche, disoccupazione e salari sempre più bassi. E poiché questa radicale ridistribuzione di impieghi, popolazione e ricchezza è un processo destinato a diffondersi nei prossimi decenni in ogni angolo del Vecchio continente, Italia compresa, le dinamiche in atto oltreoceano offrono importanti lezioni anche per i paesi europei.
Di questa "nuova geografia del lavoro" Enrico Moretti, docente di economia all'università di Berkeley, traccia una mappa dettagliata con sguardo lucido e puntuali rilevazioni sul campo: visita città in ascesa, che vedono fiorire un virtuoso intreccio di buoni impieghi, talento e investimenti, e città in declino; passeggia per le vie di Pioneer Square, quartiere trendy di Seattle, e per quelle di Berlino, la capitale più attraente d'Europa, ma anche una metropoli sorprendentemente povera; e scopre che ogni posto di lavoro creato in centri di eccellenza dell'innovazione ne genera almeno cinque in altri settori produttivi, e tutti retribuiti meglio che altrove. Tanto che oggi, ci dice, "il modo più efficace per creare posti per i lavoratori meno qualificati è attrarre imprese hi-tech con dipendenti altamente qualificati". In questo nuovo scenario l'Italia rischia di diventare per l'Europa quello che la terza America è per gli Stati Uniti, ovvero un insieme di città e distretti industriali in declino lento ma irreversibile, come dimostra la scomparsa di due industrie chiave, quella del computer e quella della farmaceutica. Capire, quindi, perché le differenze economiche tra città e regioni, anziché diminuire - com'era nelle attese di molti -, continuano ad aumentare, e perché le imprese e i lavoratori più creativi si siano concentrati in determinati luoghi e non in altri, è di vitale importanza per decifrare e orientare il futuro della nostra economia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852036576
Argomento
Business
III

La «grande divergenza»

Seattle non è la stessa di trent’anni fa. I capannoni fatiscenti sono stati recuperati per fare spazio a decine di piccole startup, mentre nuove, eleganti costruzioni sono state erette per accogliere gli uffici delle aziende più grandi. Il porto, un tempo cadente e rugginoso, è ora sede di società attive nel settore del web e del software. Il vecchio scalo ferroviario è stato ristrutturato e oggi ospita i laboratori della casa farmaceutica Amgen. Quella che era una squallida zona di abitazioni ed esercizi commerciali nella periferia nord è diventata il quartiere più di moda della città, con uffici dal design ricercato e nuovi edifici residenziali.
Se ci si siede per un paio di ore fuori del caffè Victrola, in 15th Avenue nel cuore del quartiere di Capitol Hill, si può percepire con chiarezza l’energia priva di presunzione e l’ottimismo discreto che promana dalla città. Con un mix eterogeneo di profili professionali, coppie gay, zelanti studenti universitari e stabili famiglie benestanti, l’area è uno dei molti quartieri fiorenti della città. La gente passeggia per vie piene di vita, disseminate di librerie eclettiche e piccoli negozi di prodotti artigianali. In tutta la città, ottimi ristoranti e nuovi spazi culturali hanno preso il posto di capannoni abbandonati e parcheggi all’aperto. Persino Pioneer Square, che fino a non molto tempo fa era nota più per i dispensari di metadone che per le sue startup, sta conoscendo una nuova fioritura, con l’insediamento di ditte hi-tech quali Zynga, Discovery Bay e Blue Nile nei suoi edifici storici di mattoni. È diventata talmente alla moda da richiamare anche istituti finanziari: Maveron, la società di venture capital del presidente di Starbucks, Howard Schultz, si è appena stabilita in un complesso ristrutturato in First Avenue.
Seattle è un luogo che combina un forte senso della comunità con un’energia imprenditoriale contagiosa e una misurata atmosfera cosmopolita. Ma soprattutto è una città che trasuda serena fiducia nel futuro, una fiducia basata su un semplice dato di fatto: la totale trasformazione da decadente centro di provincia legato alla vecchia economia a hub dell’innovazione tra i più importanti al mondo. In questo processo di trasformazione, i suoi abitanti rientrano tra i lavoratori più creativi e meglio pagati degli Stati Uniti.
In passato, la città era molto diversa. Oggi è difficile crederlo, ma il visitatore che avesse passeggiato per le vie di Seattle trent’anni fa ne avrebbe ricevuto un’impressione completamente diversa. Alla fine degli anni Settanta la città era chiusa e arretrata, consumata dalla paura del futuro, tormentata dalla criminalità e decimata dall’emorragia dei posti di lavoro. In una piovosa mattina ai primi del gennaio 1979 accadde qualcosa che cambiò il suo destino.

Storia di due città

Oggi tutti associano Microsoft a Seattle. Nella prima parte della sua esistenza, tuttavia, la sede di Microsoft era altrove. La società, infatti, è nata ad Albuquerque, nel Nuovo Messico. Era il 1975 e l’azienda aveva allora un solo prodotto, un cliente e tre dipendenti. Il cliente era la MITS, costruttore di hardware di Albuquerque che produceva un prototipo di computer chiamato Altair 8800; per funzionare il prodotto si avvaleva di software BASIC. Nei mesi che seguirono Microsoft andò crescendo. Il suo futuro prometteva talmente bene che alla fine del 1975 uno dei due fondatori, un acuto ventenne di nome Bill Gates, con il suo look pulito da studente universitario, prese un periodo di congedo da Harvard per raggiungere Paul Allen, l’altro fondatore, che si trovava già ad Albuquerque. Gli affari decollarono e Gates non tornò mai più ad Harvard per laurearsi. Non che ne avesse bisogno. Le vendite stavano salendo a ritmo esponenziale e nel 1978 avevano già superato il milione di dollari. Per Microsoft lavoravano allora tredici dipendenti.
I fondatori però presero la decisione di trasferirsi. Non fu una scelta dettata da ragioni economiche: Gates e Allen erano entrambi di Seattle ed entrambi volevano tornare nel luogo in cui erano cresciuti. Il giorno di Capodanno del 1979 l’azienda fece armi e bagagli e traslocò a Bellevue, un sonnacchioso quartiere suburbano sulla riva del lago Washington opposta a Seattle.
Nel 1979 Seattle era una scelta tutt’altro che scontata per un’impresa di software. Aveva anzi tutta l’aria di un posto da evitare. Ben lungi dall’essere il centro di successo che è diventato oggi, era una città in affanno. Come molte altre aree urbane nel Nordovest della costa pacifica, perdeva posti di lavoro di anno in anno. La disoccupazione galoppava e le prospettive di crescita erano a zero. Una realtà più simile all’odierna Detroit che all’attuale Silicon Valley.
Come nel caso di Detroit, il problema di Seattle era semplice: la sua economia dipendeva in modo rilevante dall’industria manifatturiera di vecchio stampo e da quella del legname, un mix decisamente poco attraente. Come a Detroit, metà dei posti di lavoro industriali erano nei trasporti. Non stupisce, quindi, che le sue imprese fossero in difficoltà e andassero contraendosi. Migliaia di abitanti lasciavano la città. Una forte presenza storica era stata l’industria aerospaziale, che gravitava intorno a Boeing la quale, tuttavia, negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta aveva accusato numerose battute d’arresto. Anche un’altra grande impresa locale, la Paccar, importante casa costruttrice di camion, era in notevole difficoltà. Tra le ombre non mancava qualche luce, come la Nordstrom, che aveva a Seattle il suo quartier generale, o come il porto; ma la loro presenza non bastava a risollevare le sorti economiche della zona. Con l’eccezione delle persone impiegate presso Boeing o alla University of Washington, inoltre, i residenti di Seattle non erano particolarmente istruiti.
Dal momento che l’economia locale andava male, la qualità della vita peggiorava. Oggi la maggior parte della gente ritiene che Seattle sia una delle città più piacevoli e vitali d’America. Ma quando vi si trasferì Microsoft, sul finire degli anni Settanta, il tasso di criminalità era sensibilmente più alto che ad Albuquerque e le rapine pro capite erano il 50% in più. Le scuole pubbliche erano di bassa qualità, i musei erano fatiscenti e il panorama gastronomico, oggi così interessante ed eclettico, era insignificante. Starbucks, all’epoca una minuscola catena di soli tre negozi, serviva ancora l’annacquato caffè americano e non aveva imboccato la rivoluzionaria via dell’espresso.
Solo qualche anno prima l’«Economist» aveva definito Seattle «la città della disperazione».1 In un articolo sull’allarmante declino dell’economia locale, il corrispondente della rivista scriveva: «I migliori acquisti negli Stati Uniti di auto usate, televisori di seconda mano e case si fanno a Seattle, nello Stato di Washington. La città è diventata un grande banco dei pegni, dove le famiglie vendono tutto ciò di cui possono fare a meno per ricavarne il denaro con cui comprare da mangiare e pagare l’affitto». La fiducia nel futuro era talmente scarsa che nei pressi dell’aeroporto fece la sua comparsa un gigantesco cartello con la scritta: «L’ultimo che lascia SEATTLE è pregato di spegnere la luce». Il cartellone, che ancora oggi è spesso argomento di conversazione, coglieva in pieno l’umore di una città in declino.
Anche se all’epoca non fu degno di nota, il trasferimento di Microsoft da Albuquerque a Seattle fu il seme che trasformò quest’ultima nel secondo centro dell’innovazione più importante d’America. La cosa incredibile è che tutto accadde quasi per caso. Bill Gates e Paul Allen avrebbero potuto spostare l’azienda nella Silicon Valley, dove si erano già stabilite molte altre società tecnologiche; o sarebbero potute semplicemente rimanere ad Albuquerque. Con il suo clima asciutto, la sua atmosfera rilassata, il Sandia National Laboratory e la University of New Mexico, Albuquerque pareva quasi predestinata a svilupparsi in un cluster dell’alta tecnologia, e probabilmente sarebbe successo se Microsoft fosse rimasta lì. Per un’azienda come Microsoft, insomma, nel 1979 restare ad Albuquerque non sarebbe stata una follia. Sulle prime l’idea del trasferimento incontrò qualche resistenza; alcuni dei dipendenti si trovavano bene in Nuovo Messico e non avevano voglia di migrare altrove. Ma Gates e Allen furono inflessibili.
Se c’è un settore che più di qualsiasi altro ha la capacità di trasformare il destino economico di intere comunità, così come la loro cultura, il loro assetto urbano, il mercato del lavoro e le tendenze politiche locali, è quello dell’innovazione. Lo sappiamo bene, ma nonostante questo determinare in modo preciso l’interrelazione di tutte queste forze e distinguere tra causa ed effetto non è facile, specialmente in realtà complesse come la Silicon Valley. La storia del settore hi-tech a Seattle, invece, si lascia ricondurre a un evento specifico e fortuito che ne fa un eloquente esperimento naturale.
Prima del trasferimento di Microsoft, a Seattle e ad Albuquerque il mercato del lavoro era simile.2 Nel 1970, per esempio, a Seattle il numero relativo dei lavoratori con istruzione universitaria era solo del 5% maggiore che ad Albuquerque. Anche gli stipendi erano leggermente più alti a Seattle, per via degli ingegneri della Boeing e della grande quantità di ospedali e cliniche associate alla University of Washington; ma la differenza era minima e le dinamiche analoghe. Dopo il trasferimento, le strade delle due città cominciarono a divergere in modo irreversibile. Nel 1990 la differenza nel numero relativo di lavoratori con istruzione universitaria era salita al 14%, e nel 2000, con l’esplosione del settore hi-tech, al 35. Oggi è giunta a un impressionante 45%: un divario enorme, paragonabile a quello che esiste tra gli Stati Uniti e la Grecia. Il gap si è prodotto anche nei livelli di salario, specie quelli dei lavoratori qualificati. Nel 1980 a Seattle i lavoratori in possesso di laurea guadagnavano soltanto 4200 dollari in più dei colleghi di Albuquerque: oggi 14.000.
Da quando ha perso Microsoft, l’economia di Albuquerque ha continuato a retrocedere. Gli scarsi progressi nel grado di istruzione dei suoi lavoratori hanno impedito lo sviluppo di un locale settore dell’innovazione. Intel e Honeywell hanno in città grandi impianti di produzione e Bank of America e Wells Fargo grandi centri gestionali, ma ben più diffusi sono gli ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La nuova geografia del lavoro
  4. Introduzione
  5. I. Ruggine americana
  6. II. Il lavoro del futuro: matematica, microchip e moltiplicatori
  7. III. La «grande divergenza»
  8. IV. Forze d’attrazione
  9. V. Mobilità geografica e mobilità sociale
  10. VI. Trappole della povertà e città attraenti
  11. VII. Il nuovo «secolo del capitale umano»
  12. Note
  13. Bibliografia
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright