Mick Jagger
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Esibizionista, sfrontato e trasgressivo, a settant'anni Mick Jagger mostra sul palco la stessa grinta di un tempo, oltre a quell'irresistibile fascino androgino ancora in grado di richiamare a ogni concerto un pubblico sterminato, e non solo femminile.
La vita avventurosa e davvero unica della rockstar più famosa del mondo è qui raccontata da Philip Norman, già autore di opere fondamentali sui Beatles, su John Lennon e sugli stessi Stones. Intrigante e piacevole come un romanzo, il libro segue il protagonista dall'infanzia nella tranquilla contea del Kent fino agli studi nella severa Dartford Grammar School, dove l'adolescente Mick scopre il blues, lo accompagna dai primi passi nella Swinging London degli anni Sessanta fino alla nascita dei Rolling Stones e ai memorabili tour planetari. Grazie a interviste esclusive e materiali d'epoca chiarisce i retroscena degli eventi, anche drammatici, che hanno costellato la lunga carriera di Jagger, come l'arresto per detenzione di droga e la breve esperienza del carcere, la tormentata relazione con Marianne Faithfull, la morte di Brian Jones, fondatore della band, le violenze degli Hells Angels al concerto di Altamont e il rapporto burrascoso ma indissolubile con il «gemello» Keith Richards.
Se ovviamente ampio spazio viene dedicato al talento (spesso sottovalutato) di Jagger come cantante e musicista, creatore di un inconfondibile «marchio» sonoro e coautore di pezzi indimenticabili, l'opera di Norman rivela anche aspetti inediti e spesso sorprendenti della sua personalità: il carattere elusivo e riservato, il paradossale conformismo alle regole del bon ton, la fascinazione per il jet set e l'aristocrazia. Così, accanto all'icona di dio del rock, di artista dissoluto e perverso, di sex addicted amato da donne bellissime - da Chrissie Shrimpton a Jerry Hall, da Carla Bruni ad Angelina Jolie -, emerge il ritratto del figlio devoto, del padre affettuoso e, soprattutto, dell'amministratore oculato della propria carriera e delle proprie finanze.
Di fronte all'interminabile serie di successi ed eccessi che hanno punteggiato la vita dell'uomo simbolo del gruppo più longevo nella storia del rock, viene spontaneo chiedersi che cosa ne è stato del Mick Jagger che, agli esordi, aveva dichiarato: «Meglio morto che cantare ancora Satisfaction a quarantacinque anni».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039911

Parte seconda

LA TIRANNIA DEL COOL

XI

«IL BIMBO È MORTO, DICE LA MIA SIGNORA»

Il ruolo centrale che i Rolling Stones avevano in Sympathy for the Devil metteva più che mai in chiaro due cose: nel curriculum degli Stones continuava a mancare un film che fosse davvero tutto loro, e l’evidente potenziale di Mick come attore cinematografico era ancora da scoprire e sfruttare. Lui per primo se ne rendeva conto, e quando gli intervistatori gli chiedevano di Only Lovers Left Alive, il film di fantascienza distopico che avrebbe dovuto interpretare con Keith tre anni prima, forniva risposte piuttosto brusche. «Ormai Only Lovers l’ho lasciato perdere e sarebbe ora che lo lasciaste perdere anche voi» sbottò dalle colonne del «New Musical Express». «Faremo un film al momento giusto, con il regista giusto e nel modo giusto. Voglio una cosa di qualità, non una baracconata pop buttata lì, tanto per farla.»
In realtà, tornare sui palchi americani e trovare la strada giusta per portare se stesso e gli Stones – o soltanto se stesso – sul grande schermo era la priorità di Mick. Ispirato dalla passione per il ciclo arturiano, accarezzò brevemente l’idea di interpretare Sir Gawain nella versione cinematografica di Sir Gawain and the Green Knight, un poema cavalleresco del XIV secolo. L’intenzione era di scrivere la sceneggiatura a quattro mani con l’amico Christopher Gibbs, e di finanziare il progetto attingendo dalle casse degli Stones (la decisione fu presa durante una riunione della Tavola Rotonda negli uffici di Maddox Street, di cui i due armigeri Bill e Charlie rimasero beatamente all’oscuro).
Nel frattempo proseguivano gli sforzi per coinvolgere Mick in Arancia meccanica di Anthony Burgess, i cui diritti cinematografici erano passati al produttore americano Si Litvinoff. Il fotografo Michael Cooper abbozzò una sceneggiatura e un piano di riprese in esterni a Londra, con un budget ridotto, ma Litvinoff finì per affidare la regia a Stanley Kubrick: nel film del 1971 il ruolo di Alex, che era sembrato perfetto per Mick, fu interpretato da Malcolm McDowell. Un’altra idea sul tavolo era un adattamento di Il Maestro e Margherita, il romanzo di Michail Bulgakov che aveva ispirato Sympathy for the Devil. Mick sarebbe stato entusiasta di interpretare il personaggio di Satana, ancor più se la protagonista femminile fosse stata Marianne, ma nessuno riuscì a dar corpo al progetto.
La proposta vincente venne da un amico di Mick, l’avvenente e sofisticato Donald Cammell. Oltre che ritrattista di successo, Cammell – che aveva una decina d’anni più di Jagger – era un abile sceneggiatore e vantava già una produzione hollywoodiana, Duffy, con James Coburn. All’inizio del 1968 aveva scritto e modellato su Mick un trattamento intitolato The Performers. Raccontava la storia di Chas, un giovane gangster cockney inseguito dai suoi stessi sodali, che trova rifugio in casa di Turner, una rockstar solitaria. L’azione si divide tra il mondo sadico di Harry Flowers, il boss della banda di Chas, e la bizzarra residenza dove Turner e le due conviventi iniziano il malvivente alla droga, alle perversioni sessuali e al travestitismo.
Nella Londra dei tardi anni Sessanta la miscela di cultura rock e gangsterismo proposta da Cammell appariva tutt’altro che assurda. I temibili gemelli Reggie e Ronnie Kray, che da anni controllavano il crimine organizzato nell’East End e al contempo bazzicavano stelle dello showbiz, politici e nobili, grazie alle fotografie di David Bailey erano diventati icone della Swinging London. Sin dai tempi di Andrew Oldham e Reg il Macellaio, nell’entourage degli Stones c’era sempre stato un manipolo di individui inclini alla violenza psicotica e all’omosessualità. Tra loro, la figura più ingombrante era quella del tracagnotto e iperattivo David Litvinoff detto «Litz», presunto ex amante dello schizofrenico paranoide Ronnie Kray o, più probabilmente, suo semplice compagno di scorrerie quando andava a rimorchiare ragazzi. Litvinoff era colui che, picchiandolo a sangue, aveva accertato l’innocenza di Nicky Cramer dopo la retata di Redlands.
Mick vide nel ruolo di Turner la tanto ambita occasione per valicare i limiti del classico film pop – magari anche con un occhio alla qualità del prodotto – e lo accettò all’istante. A quel punto Cammell propose The Performers al suo agente Sanford «Sandy» Lieberson, un americano residente a Londra che gestiva i diritti televisivi e cinematografici degli Stones, l’uomo che aveva concluso l’accordo per farli comparire in Sympathy for the Devil di Godard e che aveva cercato di coinvolgere Mick in Arancia meccanica e Il Maestro e Margherita.
Scorgendo in The Performers una ghiotta opportunità commerciale, si offrì di produrlo e suggerì a Cammell di dirigerlo, oltre che di scriverne la sceneggiatura. All’epoca, tutti i grandi studios di Hollywood avevano una consociata britannica attenta soprattutto al mercato giovanile: potendo spendere il nome di Mick, Lieberson vendette facilmente il progetto a Ken Hyman, capo produzione della Warner Bros - Seven Arts UK e figlio del proprietario dell’azienda. Le prospettive di successo commerciale si fecero ancora più ghiotte quando il ruolo di coregista fu affidato al talentuoso Nicolas Roeg, e la giovane stella del cinema britannico James Fox – un ventinovenne celebre per ruoli aristocratici come quello di Tony nel Servo di Joseph Losey – accettò di sporcarsi le mani interpretando Chas, il gangster in fuga.
Il budget previsto era di 1,1 milioni di dollari, che nel 1968 era una somma più che rispettabile. A Mick toccarono 100.000 dollari per undici settimane di riprese in esterni da effettuarsi a Londra l’autunno successivo, più il 7,5 per cento dell’incasso lordo. L’accordo prevedeva anche una colonna sonora firmata Jagger-Richard e pubblicata come album dalla Warner. «Fu la prima volta che entrai in contatto con Allen Klein» ricorda Sandy Lieberson. «La sua reazione, quando gli raccontai della colonna sonora e del relativo album, fu: “Dovrete passare sul mio cadavere”. Gli dissi semplicemente che Mick aveva intenzione di fare il film, per cui lui non poteva far altro che negoziare. Era una delle persone più odiose che abbia mai conosciuto.»
Prima di tutto, però, veniva l’album che doveva ristabilire la credibilità musicale degli Stones dopo l’infelice digressione nella terra del sergente Pepper. Senza distrazioni dovute a tournée, processi o schermaglie psicologiche con manager ingombranti, il gruppo aveva lavorato in fretta e con grande affiatamento sotto la guida del produttore Jimmy Miller, e la Decca aveva fissato l’uscita del disco per luglio. La scelta migliore sarebbe stata di sicuro quella di focalizzare il disco su Sympathy for the Devil, indiscutibilmente il pezzo forte della scaletta, ma l’approccio «diabolico» era già stato sprecato con la fiacca mascherata di Their Satanic Majesties. L’album fu perciò intitolato Beggars Banquet (Il banchetto dei pezzenti), un paradosso che alludeva tanto alla vecchia leggenda inglese dei re che si fanno servi dei propri servi (di nuovo le letture di Mick) quanto alla fama degli Stones come signori del caos. Le canzoni, tuttavia, non avevano niente a che fare con le ballate medievali né con le stramberie e le trovate di Their Satanic Majesties. Per fortuna negli ultimi tempi la musica americana aveva preso una nuova direzione, che aveva permesso agli Stones di tornare alle proprie radici senza perdere di vista l’avanguardia. Il country & western aveva contribuito quanto il blues alla nascita del rock, ma era stato sempre identificato con cowboy in abiti pacchiani e redneck reazionari. Le nuove band, però, l’avevano modernizzato e rivitalizzato in forma di country rock, senza rinnegare le radici, aggiungendo un arsenale ritmico di chitarre Fender e batterie Ludwig al repertorio tradizionale a base di violini, mandolini, chitarre slide e dobro. Al posto delle camiciole e degli amuleti hippy questi gruppi sfoggiavano giacche scamosciate, camicie a quadri e cappelli da cowboy. L’album Music from Big Pink, il debutto della Band – il gruppo che accompagnava Dylan dal vivo –, era già un classico, un viaggio nel mondo della musica folk e hillbilly. Da par suo Dylan aveva seguito un percorso simile con gli album John Wesley Harding e Nashville Skyline, quest’ultimo realizzato con la collaborazione di un colosso del country come Johnny Cash.
Due giovani pionieri del country rock erano entrati nell’orbita degli Stones, prima come fan e poi come maestri del nuovo genere. Uno (il cui destino era segnato) era Gram Parsons, un ventunenne di stupefacente bellezza che, fresco di arruolamento nei Byrds, stava per lasciare un segno indelebile nel loro primo disco country, Sweetheart of the Rodeo. L’altro era il ventunenne Ryland «Ry» Cooder, virtuoso di chitarra slide nonché ex collaboratore del bluesman Taj Mahal e della Magic Band di Captain Beefheart. Quando Cooder svelò a Keith Richard l’arcano dell’accordatura aperta in sol – quella in cui la chitarra è intonata in modo da produrre a vuoto un accordo di sol maggiore –, non poteva immaginare quanto avrebbe influito sulle intro degli Stones negli anni a venire.
Escluse Sympathy for the Devil e Street Fighting Man, Beggars Banquet divenne così una miscela di blues e country rock in cui l’accento di Mick oscillava tra il delta del Mississippi e gli Appalachi. Parachute Woman proiettava l’immaginario sessuale del blues nell’epoca del motore a reazione («Bella paracadutista … atterra su di me stanotte…»), mentre Stray Cat Blues era un ritratto lascivo delle groupie liceali degli Stones («Lo vedo che c’hai quindici anni / No, non voglio vedere i documenti…») che oggi farebbe drizzare le orecchie alla buoncostume. Il purismo blues si spinse un po’ troppo in là con Prodigal Son, copia carbone di The Prodigal Son del reverendo Robert Wilkins: Jagger e Richard la firmarono dando per scontato che Wilkins fosse morto, mentre in realtà era vivo e vegeto e se la prese parecchio quando scoprì il trucco. Fu l’ultima occasione in cui Brian Jones poté fare sfoggio del suo virtuosismo di strumentista, in particolare alla chitarra slide nella ballata dal titolo ironico e inquietante di No Expectations (Nessuna speranza). Come per un vago presentimento, la voce di Mick vi assume un tono malinconico che di punto in bianco la rende di nuovo umana: «Mai nella mia breve e dolce vita mi sono … sentito … così».
Il desiderio di Mick di scrivere un inno populista alla John Lennon era rispecchiato da Salt of the Earth, con la sua invocazione sinistroide a «coloro che lavorano duro … alla massa anonima» (purché, ovviamente, rimanga a debita distanza). Prese il brano tanto sul serio da volare con Jimmy Miller fino a Los Angeles per aggiungere alla registrazione le voci di un vero coro gospel. Là conobbe i Doors, astri nascenti del rock americano, e il loro magnifico cantante Jim Morrison, un performer capace di correre rischi che lui non avrebbe mai osato affrontare. In dicembre, Morrison era stato il primo rocker a venire arrestato nel bel mezzo di un concerto per aver raccontato al pubblico che dietro le quinte un poliziotto gli aveva spruzzato addosso del gas lacrimogeno. Un anno dopo fu denunciato per atti osceni sul palco. Tre anni dopo era già morto, sepolto nello stesso cimitero parigino di Molière, Colette e Oscar Wilde, meta dei pellegrinaggi postumi di migliaia di fan. Mick disse che lo aveva trovato «noioso» (per citare la più famosa replica degli anni Sessanta: «Logico che abbia detto così, no?»).*
Anche la copertina di Beggars Banquet, ideata personalmente dagli Stones, non aveva niente a che vedere con i banchetti né con i pezzenti, e raggiungeva abissi di cattivo gusto che nemmeno Andrew Oldham avrebbe potuto immaginare. Mostrava la parete sudicia della toilette di un’officina di Los Angeles piena di scritte contro il presidente Lyndon Johnson, Mao Tse-tung, Frank Zappa e Bob Dylan, e aveva come sottotitolo ironico Music from Big Brown (Musica dal Gran Marrone), parodia della Big Pink della Band: questo fu un contributo personale di Keith. Nonostante non si vedesse che un angolino del water, sia la Decca sia la London, la sua consociata americana, posero il veto a una copertina piena di graffiti che reputavano offensivi. Con altrettanta testardaggine gli Stones si rifiutarono di proporre un’alternativa, e lo stallo costrinse a rimandare l’uscita del disco, con gran delusione di Mick, che avrebbe voluto festeggiare con Beggars Banquet il suo venticinquesimo compleanno, il 26 luglio.
Dovette accontentarsi di farlo ascoltare in anteprima agli amici musicisti durante una festa al Vesuvio Club, locale che rappresentava una delle rare attività legali dello spagnolo Tony Sanchez, lo spacciatore di Keith, e che era destinato a bruciare da lì a poco in circostanze misteriose. Gli ospiti, tra i quali spiccavano John Lennon e Paul McCartney, poterono approfittare di un buffet con punch alla mescalina e torta di compleanno all’hascisc, e ascoltarono i due brani portanti del nuovo album, Sympathy for the Devil e Street Fighting Man. Tutti convennero che erano notevoli, ma il trionfo di Mick andò in fumo quando McCartney allungò al dj del locale una copia dell’imminente nuovo singolo dei Beatles, ancora inedito, e il Diavolo dovette far spazio all’epica e lunghissima Hey Jude.
La London Records non si fece troppi scrupoli quando si trattò di pubblicare Street Fighting Man in America: il nuovo singolo degli Stones uscì il 31 agosto, malgrado le ragioni per posticiparlo fossero più fondate lì che in Europa. Dopo l’assassinio di Martin Luther King, avvenuto il 4 aprile, durante l’estate tutte le città americane erano state sconvolte da tumulti razziali e violente rappresaglie della polizia. La (tiepida) esortazione di Mick a salire sulle barricate giunse nei negozi pochi giorni dopo la famigerata convention democratica di Chicago, dove non soltanto i manifestanti pacifisti ma anche i giornalisti e i delegati del partito erano stati picchiati davanti alle telecamere dalla polizia del sindaco Richard Daley in assetto antisommossa. Andò a finire che Street Fighting Man fu bandita da centinaia di stazioni radiofoniche e non riuscì nemmeno a entrare nella Top 40. Ciò non impedì che il timido guerrigliero urbano diventasse l’idolo delle persone sbagliate, come e più che ai tempi di Satisfaction.
A questo punto era chiaro a tutti che Brian Jones, costantemente ubriaco, drogato ed esposto alle retate della polizia, era un handicap troppo pesante, una «gamba di legno» (parole di Mick) sulla quale gli Stones non potevano contare per rinnovarsi e tornare nel circuito americano dei concerti dopo l’arresto e Their Satanic Majesties. E allora perché non licenziarlo, come i Beatles avevano fatto con il loro primo batterista Pete Best, e gli Yardbirds con Jeff Beck, e come qualsiasi altro gruppo di punta avrebbe fatto senza batter ciglio con un componente che ormai creava più problemi di quanti ne risolvesse?
Perché gli Stones erano essenzialmente brave persone, che mai avrebbero osato infliggere a Brian un colpo simile, anche se necessario alla sopravvivenza collettiva. Nemmeno un egoista calcolatore come Mick poteva dimenticare la passione comune per il blues dei loro primi anni, o il fatto che agli esordi la band fosse il gruppo di Brian, e che senza il suo entusiasmo e la sua energia i Rolling Stones non sarebbero mai nati. Così, malgrado Brian fosse ormai diventato del tutto inaffidabile, i suoi compagni continuarono a sforzarsi di mostrare almeno in pubblico una parvenza di coesione e a prendersi cura di lui, almeno per quanto era possibile a una ciurma di rockstar viziate ed egocentriche.
Brian era ancora in attesa di processo per la presunta detenzione casalinga di cannabis (l’udienza era fissata per il 21 maggio) e per aver infranto il decreto di libertà vigilata emesso dopo la retata del dicembre 1967. Per evitare che durante i mesi estivi la polizia lo pizzicasse di nuovo, la scelta più logica fu quella di allontanarlo subito da Londra. Siccome non aveva un posto in cui stare, a parte la casa dei suoi nella borghese Cheltenham, Brian s’installò a Redlands, il cottage di Keith nel Sussex, insieme alla fidanzata Suki e all’autista e guardia del corpo Tom Keylock, incaricato di tenerlo d’occhio. Il suo non fu certo un esilio né una messa al bando: gli Stones tenevano regolarmente delle prove a Redlands, malgrado Brian non fosse quasi mai in grado di far altro che strimpellare stordito. Tra una sessione e l’altra tracannava brandy e Mandrax, maltrattava l’imperturbabile Suki e sfogliava i giornali musicali con il terrore di leggervi che gli altri lo avevano sostituito senza preavviso, magari con Eric Clapton, che da qualche tempo dava lezioni di chitarra a Mick ed era sul punto di sciogliere i suoi Cream.
Il sollievo di Mick per la lontananza di Brian si alternava a momenti di preoccupazione che sorprendevano persino Marianne, l’unica persona a cui Mick si degnava di mostrare il proprio lato sensibile e affettuoso. Secondo una routine domestica tipica di tutte le popstar degli anni Sessanta, un giorno a Cheyne Walk Marianne consultò l’I Ching, e la lettura dell’esagramma profetizzò che Brian sarebbe «morto per acqua». Mick, allarmato, la convinse che dovevano andare subito a Redlands. Purtroppo l’atto di gentilezza fece cilecca. Schizzinoso come sempre, Mick snobbò la cena preparata da Brian e Suki e disse che se ne sarebbe andato a mangiare con Marianne in un pub del posto. Brian lo prese come un affronto mortale e il litigio finì a pugni, con Brian che saltava nello stagno del giardino di Keith, profondo poco più di un metro, e Mick che lo trascinava fuori rovinando un paio di pantaloni di velluto nuovi.
Il 26 settembre Mick e Keith presenziarono al processo presso l’Inner London Sessions per manifestare di nuovo il loro pubblico sostegno a Brian, che fu trattato con inaspettata clemenza. Malgrado evidenti indizi del fatto che la cannabis era stata messa in casa sua dalla polizia, il giudice lo condannò per detenzione di droga, ma la corte stabilì che si era trattato di un incidente di percorso nel sincero tentativo di disintossicarsi, e l’imputato se la cavò con 50 sterline di multa e 105 di spese processuali. All’uscita dal tribunale, Brian si presentò ai paparazzi avvinto nell’abbraccio protettivo di Mick e Keith.
Sulla scia di quell’inusuale colpo di fortuna Brian s’imbatté in un progetto che catturò la sua attenzione come gli Stones ormai non erano più in grado di fare. Durante i loro viaggi in Marocco, Brion Gysin gli aveva fatto conoscere i Maestri di Joujouka, un gruppo di percussionisti e fiatisti originari di uno sperduto villaggio del Rif capaci di mandare in trance l’ascoltatore con la loro musica, che secondo alcuni possedeva addirittura proprietà taumaturgiche. In un breve ritorno di fiamma dell’antico interesse per le musiche etniche, Brian aveva deciso di registrare i Maestri di Joujouka sul posto, e poi di sovraincidere ai loro brani un accompagnamento rock, per mostrare l’affinità fra le tradizioni musicali nordafricane e nordamericane. Era andato due volte a Joujouka armato di registratore e microfoni, ma in entrambi i casi era troppo fatto per mettere insieme del materiale utilizzabile.
In agosto, appena prima della sua ultima apparizione in tribunale, tornò a Joujouka con Suki per assistere alla festa di Pan, la cerimonia secolare che prevedeva la vestizione rituale di un ragazzo con la pelle di un agnello appena sacrificato. Stavolta con lui c’era un fonico professionista, che finalmente mise su nastro la musica dei Maestri marocchini. In seguito, il materiale fu pubblicato su disco con il titolo Brian Jones Plays with the Pipes of Pan at Jajouka, in uno dei primi esempi di quella che oggi chiameremmo «world music». Ventun anni dopo le registrazioni di Brian, Mick ne ripercorse i passi e (anche ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Mick Jagger
  3. Prologo - Solidarietà per il vecchio diavolo
  4. Parte prima - «IL BLUES È IN LUI»
  5. Parte seconda - LA TIRANNIA DEL COOL
  6. Poscritto
  7. Ringraziamenti
  8. Referenze iconografiche
  9. Indice dei nomi
  10. INSERTO FOTOGRAFICO
  11. Copyright