Garibaldi era comunista
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Garibaldi era comunista

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  1. 168 pagine
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Garibaldi era comunista

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"Il guaio è che da studenti ci siamo abituati a vedere i personaggi storici in maniera semplificata. Alcuni ci sembrano buoni come il pane, pronti a lottare ogni giorno per il bene e per i deboli, in ogni momento generosi e coraggiosi, altri ci sembrano invece personaggi terribili, crudeli, che godono come pazzi soltanto quando vedono soffrire il prossimo. Siamo seri, le cose non possono stare proprio così." Immaginiamo di salire su una macchina del tempo a due posti. Accanto a noi, Luciano De Crescenzo. Immaginiamo di viaggiare nel passato e trovarci faccia a faccia coi grandi della Storia, scoprire i loro lati meno consueti, poter fare due chiacchiere come se fossimo davanti a una tazzina di caffè.
Incontrare Adamo e chiedergli com'è andata a finire poi con Eva dopo la faccenda della mela. Incontrare Masaniello per capire meglio la politica di oggi, o Cavour ("uno che dalle mie parti non ha tutta questa popolarità...") per discutere della questione meridionale. Dire a Romolo: "Non ho mai capito se tu sei il fratello buono o quello cattivo. A partire da Caino e Abele, fino ad arrivare a John e Lapo Elkann, ce n'è sempre uno con la faccia perbene e un altro che si caccia nei guai". Incontrare Adriano "uno dei più simpatici" e Napoleone, che magari così simpatico non sarà stato, però bisogna ammettere che ci sapeva fare. Capire se Nerone era davvero un "fetente" o se in fondo forse è stato diffamato. O perché Mussolini si è fermato davanti a un bidet... E poi ovviamente scoprire perché, camicia rossa a parte, Garibaldi era comunista.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039782
Argomento
Storia

Giuseppe Garibaldi

Garibaldi era comunista. Portava la camicia rossa, doveva per forza essere comunista. Comunque, la mia idea è che Garibaldi sotto sotto un’anima da comunista ce l’aveva davvero. Secondo me aveva dentro di sé l’ambizione di un’Italia divisa in parti uguali, o diciamo in parti abbastanza uguali. Progettava addirittura la famosa riforma agraria. Cioè dividere la terra tra tutti i contadini, che invece erano costretti a lavorare solo per i padroni. Già prima che Garibaldi nascesse, i Savoia accarezzavano il vecchio sogno di allargare i confini del regno di Sardegna, pensavano che almeno tutto il Settentrione, che diamine, dovesse essere nelle loro mani. Napoli in quel periodo era invece nientepopodimeno che la capitale del Regno delle Due Sicilie, ovvero di un regno praticamente inventato dai Borbone. Purtroppo, però, il caro Ferdinando IV, che Dio lo perdoni, pur essendo un re molto potente, viveva con ansia le notizie che arrivavano dalla Francia, dove era scoppiata la Rivoluzione. Sembrava che le novità che ogni giorno giungevano da Parigi presto avrebbero cambiato la vita di tutti gli esseri umani.
«Maestà» gli dissero una mattina del 1789 «i francesi hanno occupato la Bastiglia e i giacobini si sono messi in testa di governare il paese, si dice pure che vorrebbero uccidere tutti gli europei, ma proprio tutti, dagli albanesi ai russi, e quindi non solo i nemici ma anche gli amici, compresi i re e le regine.»
«Cosa volete che vi dica?» rispose Ferdinando. «Prima o poi tutti quanti dobbiamo morire. E poi non diciamo fesserie, i francesi non verranno mai fino a Napoli, per loro è troppo lontana. State sicuri che qui la rivoluzione non può arrivare, non arriverà mai.»
Arrivò pochi anni dopo, nel 1799, e arrivò proprio grazie ai francesi guidati da un certo generale Championnet, che avete già conosciuto. Ferdinando fu costretto a scappare e a rifarsi vivo, arrabbiatissimo e vendicativo, solo quando la situazione nel Regno fu normalizzata.
Torniamo a Garibaldi. Il primo fatto strano che lo riguarda è la sua origine. Lui è rimasto nella storia come l’italiano più italiano di tutti, il personaggio che più di ogni altro ha creato l’Italia. Eppure in realtà era francese. Intendo dire che era francese di nascita e, del resto, lo sarebbe anche oggi. Era nato a Nizza nel 1807, quando la città era sotto la giurisdizione della Francia perché rientrava tra i territori conquistati da Napoleone Bonaparte. Infatti, quando i suoi genitori si presentarono negli uffici dell’anagrafe per registrare la sua nascita, non dissero all’impiegato: “Buongiorno, questo neonato è nostro figlio e si chiama Giuseppe”. Dovettero dichiararlo attribuendogli un nome francese e scelsero Joseph Marie Garibaldi. A questo punto, mi viene solo un dubbio: ma per caso lo pronunciarono pure con l’accento sulla “i” e con la “erre moscia”? Aggiungo che a me “Garibaldì” sembra una parola con la puzza sotto al naso.
Nizza restò francese fino al 1815, quando Garibaldi aveva otto anni e a Vienna si tenne il famoso Congresso, che si era riunito quando Napoleone fu definitivamente sconfitto. I regnanti di tutta Europa si spartivano di nuovo i territori che Bonaparte aveva conquistato e fatto diventare francesi. Tra questi c’era pure Nizza, che passò nuovamente ai Savoia e diventò, come già era stata in passato, una città del Regno di Sardegna. Perciò, da ragazzino, Garibaldi diventò finalmente un italiano a tutti gli effetti. O, se vogliamo essere più precisi, un suddito della corona sabauda, cittadino del Regno di Sardegna, perché naturalmente l’Italia vera e propria ancora non esisteva.
Ma andiamo avanti, e non dimentichiamo che dovremmo chiamarlo onorevole Garibaldi. E sì, perché lui è stato parlamentare del Regno di Sardegna, prima che ci fosse l’Unità, e poi anche deputato alla Camera nel Regno d’Italia. Ma io confesso che nei panni di parlamentare non ce lo vedo, e penso che anche lui in quel ruolo si sentisse un po’ a disagio. Garibaldi era uomo da camicia rossa, era generale nell’anima. Fare l’uomo politico, una volta che il Risorgimento era finito, per lui dev’essere stata una fatica. Quando lo immaginiamo come un simbolo dell’uomo libero, non sbagliamo di tanto. Quando era giovanotto, mi dicono, i genitori insistevano perché scegliesse gli studi giuridici.
«Giuseppe, vai a iscriverti alla facoltà di Giurisprudenza. Così ti garantisci un futuro» gli ripeteva la mamma dalla mattina alla sera.
Ma Giuseppe faceva finta di non sentire. Preferiva giocare, preferiva andarsene in giro tutto il giorno con gli amici.
«Non stai mai a casa. Ma quando studi? E va bene» insisteva la mamma, la signora Rosa «allora perché non fai il prete?»
Peggio ancora. Continuava a non rispondere, ma guardava la madre con la faccia rassegnata. Prima di tutto, Giuseppe sapeva perfettamente di non avere la vocazione, e poi si vedeva già con le armi in pugno, impegnato in qualche avventura o in una battaglia. Figuriamoci se poteva vedersi vestito da sacerdote a celebrare una messa. Al massimo poteva pensare di fare il marinaio. Anzi, il mare era proprio il suo grande amore e devo dire che lo capisco. Quando nasci in un luogo che si affaccia sul mare, com’è capitato anche a me, il ricordo di quell’odore inconfondibile e il suono delle onde non te li togli più da dentro. Mai più.
Vedete, sapere cosa fare del proprio futuro è un aspetto importante. Ci sono persone che fanno un mestiere che avevano in testa fin da quando erano ragazzini. Ma ci sono pure quelli come me. Ora vi spiego quale fu il mio percorso. Subito dopo aver preso la maturità classica al liceo Sannazaro di Napoli, io non avevo dubbi, mi sarei iscritto alla facoltà di Filosofia. A quell’epoca abitavo con la mia famiglia al Vomero, la zona di Napoli che sta in collina. Così una mattina presi la funicolare, dovevo raggiungere il centro e mettermi in fila allo sportello “immatricolazioni” dell’università. Seduta in funicolare proprio vicino a me c’era una ragazza bellissima.
«Ciao» le dissi.
«Ciao» mi rispose un po’ freddina.
«Tu eri al liceo Sannazaro, vero?»
«Sì.»
«Anch’io. Io mi chiamo Luciano. Tu?»
«Io Mariolina.»
«Dove stai andando?»
«Vado un po’ di fretta perché devo fare l’iscrizione all’università.»
«Oh Gesù, pure io. Stamattina sono sceso per lo stesso motivo. E dove ti iscrivi?»
«A Matematica. Forse è difficile, ma è una materia che mi piace.»
«Matematica?» dissi io. «Ma tu pensa. Anche io ero uscito per andarmi a iscrivere proprio a Matematica.»
Ma voi capite? Ero disposto a cambiare tutto, anche i miei progetti sul futuro, pur di seguirla quella mattina, solo per stare con lei ancora qualche ora. So che molti maschietti possono comprendermi. Fatto sta che furono la funicolare e la passione per Mariolina a farmi abbandonare tutti i propositi sulla filosofia e a far sì che poi io sarei diventato ingegnere.
Garibaldi, invece, già quando era adolescente era innamorato della barca di suo padre Domenico. Per Giuseppe quella barca era una tentazione continua, non vedeva l’ora di salire a bordo e partire. Non sapeva ancora dove voleva andare, però sapeva che voleva allontanarsi e viaggiare. Come vedete, di Garibaldi tutto si poteva dire tranne che fosse un bamboccione. Non aveva ancora nessuna certezza sul lavoro e su come mantenersi e già pensava di lasciare la famiglia e andarsi a costruire la vita da qualche parte.
Tanto entusiasmo alla fine convinse pure sua madre e suo padre. Dovettero accettare che il loro secondogenito era fatto per le avventure, e che forse l’attività di marinaio era la più adatta a lui. Non c’era niente da fare, bisognava solo rassegnarsi. Questo benedetto Giuseppe non avrebbe certo dato le soddisfazioni di suo fratello maggiore, il primogenito Angelo, uno che invece a scuola era sempre stato il primo della classe e che con i genitori si era sempre comportato bene ed era ubbidiente. Infatti aveva proseguito con gli studi e si stava costruendo una carriera importantissima. Soltanto qualche anno più tardi Angelo Garibaldi fu addirittura nominato console negli Stati Uniti.
Ma torniamo a Giuseppe, che ci teneva a non restare ignorante e infatti studiava per conto suo. Evidentemente non si sentiva tagliato né per i banchi di una scuola né per quelli di una università. Lui nel cuore aveva le navi, i viaggi, voleva visitare le altre città del mondo. Un giorno era a Taganrog e non mi chiedete precisamente dove si trovi, so che è dalle parti del mare d’Azov. Ora, io quando andavo alle scuole medie in geografia ero bravino, diciamo che me la cavavo per arrivare alla sufficienza, ma niente di più. Però devo dirvi che quando ho letto che Garibaldi una sera si trovò in una taverna di Taganrog, qualcosa mi diceva che il nome di questa città io l’avevo già sentito. Ho riflettuto una giornata intera, poi finalmente mi è venuto in mente che Taganrog è la città in cui era nato Anton Cechov, il grande scrittore russo. Ho controllato e avevo ragione, e naturalmente la cosa mi ha riempito d’orgoglio. È vero che non ero il massimo in geografia, ma vedo che per fortuna la letteratura russa ha lasciato in me delle tracce.
Andiamo a vedere che era successo nella taverna di Taganrog. C’era stato un incontro con un uomo che tutti avevano soprannominato Il Credente. Lo so che questo sembra l’inizio di un romanzo giallo, ma è andata veramente così: fu un incontro molto misterioso. Questo signor Il Credente, si chiamava in realtà Giovanni Battista Cuneo ed era originario di Oneglia, in provincia di Imperia. È un elemento che ha la sua importanza, perché nella zona da cui proveniva, questo Cuneo già da molto tempo aveva cercato di organizzare delle insurrezioni contro la monarchia di casa Savoia, spinto dall’altro famoso Giuseppe del Risorgimento italiano, famoso quasi come Garibaldi. Avrete già capito che sto parlando di Giuseppe Mazzini. Il Credente chiacchierò una mezz’oretta con Garibaldi e gli parlò della Giovine Italia.
«Precisamente come funziona?» chiese Garibaldi a Giambattista Cuneo.
«Siamo un’associazione politica che fa ogni cosa in segreto» gli fu spiegato «perché la polizia del Regno è attentissima a tutti i nostri movimenti. Sanno che tramiamo contro la monarchia e ogni giorno arrestano militanti, o anche dei semplici sospettati. Quindi, ti avverto, questo è un lavoro pericoloso.»
«Pericoloso?» ripeté Garibaldi. «Allora ci sto.»
Da quel momento, il giovanotto diventò un membro della Giovine Italia. All’epoca aveva intorno ai venticinque anni. Prima di alzarsi dal tavolo al quale si era seduto per parlare con Il Credente, Garibaldi chiese:
«Io adesso sono dei vostri, che devo fare?»
«Metterti dalla parte dei repubblicani» gli disse Il Credente «e sostenere la lotta per l’Unità d’Italia.»
“La lotta” pensò Garibaldi. “L’Unità d’Italia” pensò dopo meno di un minuto. “Qua ci vuole la barba.”
Fu per questo che decise di farsela crescere. Perché... diciamolo chiaramente, la barba ti può trasformare la vita, ti dà tutta un’altra aria e un aspetto completamente diverso. Io ho deciso di lasciarla crescere quando avevo all’incirca quarantasette anni. Ero già da molti anni un ingegnere della IBM, un incarico per il quale secondo me la barba non serviva. Quando un giorno ho cominciato a fare lo scrittore, mi sono detto: “Ora non la taglio per una settimana, così mi do una faccia da scrittore”. Il primo test importante sono le persone di famiglia, le prime che notano questa trasformazione. “Ma che devi fare con questa barba?”. Il segreto è resistere. Per fortuna avevo mia figlia come unica alleata. È naturale che se cedi, se ti arrendi alle prime difficoltà e ai primi commenti di quelli che ti sfottono, allora vuol dire che non sei fatto per portarla lunga. È meglio che la tagli. Io riuscii a tenere duro, pensai che la mia resistenza non era niente rispetto a quella del famoso Diogene, che per anni se n’è andato in giro tutto nudo dentro a una botte. Figuriamoci quanto lo hanno preso in giro i suoi parenti e i suoi concittadini, lui però non si è mai curato di nessuno e ha conservato l’aspetto che voleva. Non vorrei sbagliare, ma aveva anche la barba lunga. E sì, doveva avercela per forza. Che io sappia, nessuno storico ha mai raccontato che Diogene tenesse un rasoio nascosto nella botte.
L’atteggiamento spavaldo di Garibaldi, e secondo me anche la barba, piacevano molto alle donne. A Genova ce n’erano tante che per il giovane signor Garibaldi avrebbero fatto pazzie. Una si chiamava Caterina Boscovich ed era la padrona della taverna L’osteria della Colomba. Un’altra era la cameriera che lavorava al suo servizio e si chiamava Teresina Cassamiglia. Un’altra ancora, Natalina Pozzo, aveva un negozio di frutta. La polizia sabauda aveva fiutato che in giro si stavano organizzando insurrezioni e cominciò a fare retate. Del resto, Garibaldi non sapeva tenere la bocca chiusa e se ne andava in giro a cercare nuovi iscritti alla Giovine Italia.
«Giuseppe» gli dicevano i compagni «non dimenticare mai che la nostra è un’associazione segreta. Se parliamo ci mettiamo nei guai.»
«Ho capito» rispondeva «ma se continuiamo a tenere tutto segreto, l’insurrezione quando la facciamo? E soprattutto, con chi la facciamo?»
Quando la polizia lo scoprì e iniziò a cercarlo, lui fuggì. Era un bravo marinaio e riusciva a imbarcarsi senza troppa fatica su molte navi, però nascondeva la sua vera identità. Un giorno raccontò di essere napoletano per farsi prendere a bordo di un brigantino che doveva andare sul Mar Nero, precisamente a Odessa. Non so come, riuscì a far fesso il comandante, ma so per certo che non lo convinse cantando ’O sole mio. Quest’episodio si verificò nel 1835 e a quel tempo la canzone ancora non esisteva, fu scritta solo nel 1898.
Dovete sapere una cosa curiosa, il caso vuole che anche ’O sole mio c’entri con Odessa. Eduardo Di Capua si trovava proprio in quella città, in compagnia di suo padre musicista, quando scrisse le musiche della canzone napoletana forse più famosa nel mondo. Le cose andarono così. Qualche settimana prima, Giovanni Capurro, un giornalista, ne aveva scritto il testo e poi aveva chiesto al maestro di farci una melodia. Una mattina Di Capua restò estasiato mentre guardava l’alba sul Mar Nero: quella fu l’ispirazione per comporre la musica.
Più tardi Garibaldi si ritrovò in Sudamerica, quando iniziò in Brasile la sua carriera di rivoluzionario. In pratica faceva il pirata, assaltava navi governative, ma il suo vero scopo era liberare gli schiavi trasportati su quelle navi. Dopodiché rinunciava alla parte di bottino che gli spettava e lo metteva a disposizione dell’equipaggio. Capirete che con tanto coraggio e tanta generosità non ci mise molto a diventare un eroe e a far parlare di sé.
Pochi anni dopo, era in Uruguay a combattere ancora per la libertà. Fondò un’associazione che chiamò Legione Italiana, creata per combattere al fianco del generale Fructuoso Rivera. Gli immigrati italiani che lottavano al suo fianco avevano bisogno di vestirsi, di una divisa che li rendesse riconoscibili. Garibaldi aveva poco denaro, ma come avete capito era pieno di idee. Andò al mercato e comprò in cambio di pochi soldi maglie e camicie usate dai lavoratori del macello. Erano tutte rosse, di un rosso vivo, un colore che nascondeva le macchie di sangue degli animali macellati. Da quella volta, il rosso delle divise diventò il colore di Garibaldi.
In Brasile, aveva conosciuto la famosa Anita. Vi avverto che aveva un nome complicatissimo, si chiamava Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva. Non vi meravigliate, se non ricordo male anche il vero nome di Pelé era lunghissimo. Si vede che è un vizio dei brasiliani. Anita aveva solo diciotto anni, ma era già sposata da quattro. Il marito però era andato via e lei, innamoratasi di questo bell’italiano con la barba, subito seguì il suo nuovo amore. Si racconta che Garibaldi l’abbia conquistata con una frase in italiano, visto che del suo portoghese ancora non si fidava troppo. Parliamoci chiaro, era la frase di uno che non voleva perdere tempo. Appena la vide, disse ad Anita: “Devi essere mia”. Vi sconsiglio di provare a fare lo stesso con la prima bella ragazza che incontrate per strada. Anche perché i tempi sono cambiati, potrebbero denunciarvi per molestie. Ma Garibaldi era Garibaldi.
I due ebbero anche quattro bambini. Al primogenito, nato in Brasile, fu dato il nome Domenico. Un bel nome, niente da dire. Ma povero figlio, appena nato mamma e papà Garibaldi cominciarono a chiamarlo “Menotti”, per ricordare Ciro Menotti, il patriota morto una decina di anni prima in difesa degli ideali rivoluzionari. Quanto fosse difficile essere figlio di quei genitori, il piccolo Menotti lo capì già all’età di pochi giorni. L’esercito dell’imperatore,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Garibaldi era comunista
  4. Prefazione
  5. Adamo ed Eva
  6. DUE CHIACCHIERE CON ADAMO
  7. La Torre di Babele
  8. DUE CHIACCHIERE CON LA TORRE DI BABELE
  9. Romolo
  10. DUE CHIACCHIERE CON ROMOLO
  11. Nerone
  12. DUE CHIACCHIERE CON NERONE
  13. Adriano
  14. DUE CHIACCHIERE CON ADRIANO
  15. Lorenzo il Magnifico
  16. DUE CHIACCHIERE CON LORENZO IL MAGNIFICO
  17. Masaniello
  18. DUE CHIACCHIERE CON MASANIELLO
  19. Napoleone
  20. DUE CHIACCHIERE CON NAPOLEONE
  21. Camillo Benso, conte di Cavour
  22. DUE CHIACCHIERE CON CAVOUR
  23. Giuseppe Garibaldi
  24. DUE CHIACCHIERE CON GARIBALDI
  25. Benito Mussolini
  26. DUE CHIACCHIERE CON MUSSOLINI
  27. Copyright