Ross Perot lasciò l’EDS in macchina, svoltò a sinistra in Forest Lane e poi a destra sulla Central Expressway. Era diretto all’Hilton Inn, all’incrocio di Central e Mockingbird. Andava a chiedere a sette uomini se erano disposti a rischiare la vita.
Sculley e Coburn avevano preparato l’elenco. I loro nomi erano i primi due, e poi ne venivano altri cinque.
Quanti dirigenti d’azienda americani del XX secolo avevano chiesto a sette dipendenti di dare l’assalto a un carcere? Nessuno, probabilmente.
Durante la notte Coburn e Sculley avevano chiamato gli altri cinque, che si trovavano in varie parti degli Stati Uniti presso amici e parenti, dopo la precipitosa partenza da Teheran. A ognuno di loro era stato detto soltanto che Perot voleva vederlo quel giorno a Dallas. Erano abituati alle telefonate nel cuore della notte e alle convocazioni improvvise – Perot lavorava sempre così – e tutti avevano accettato l’invito.
All’arrivo a Dallas erano stati tenuti lontani dalla sede dell’EDS e mandati a prendere alloggio all’Hilton Inn. Ormai dovevano essere là quasi tutti, ad attendere Perot.
E Perot si chiedeva come avrebbero reagito, quando avesse detto che voleva che tornassero a Teheran per tirar fuori dal carcere Paul e Bill.
Erano uomini in gamba, e gli erano devoti, ma normalmente la lealtà verso il datore di lavoro non comportava l’obbligo di rischiare la vita. Alcuni di loro, probabilmente, avrebbero pensato che l’idea di un salvataggio mediante il ricorso alla forza era pazzesca. Altri avrebbero pensato alle mogli e ai figli, e avrebbero rifiutato… il che era comprensibile.
“Non ho il diritto di chiedere una cosa simile” si disse. “Devo guardarmi dal fare pressioni. Niente discorsi convincenti oggi, Perot: parla chiaro, e basta. Devono capire che sono liberi di dire: No, grazie, capo, non conti su di me.”
Quanti si sarebbero offerti?
Uno su cinque, pensava Perot.
In questo caso ci sarebbero voluti diversi giorni per mettere insieme una squadra, e rischiava di doversi servire di uomini che non conoscevano Teheran.
E se nessuno si fosse offerto volontario?
Perot entrò nel parcheggio dell’Hilton Inn e spense il motore.
Jay Coburn si guardò intorno. C’erano altri quattro uomini: Pat Sculley, Glenn Jackson, Ralph Boulware e Joe Poché. Altri due erano in viaggio: Jim Schwebach stava arrivando da Eau Claire, nel Wisconsin, e Ron Davis da Columbus, nell’Ohio.
Non erano «quella sporca dozzina».
Negli abiti scuri, con le camicie bianche e le cravatte sobrie, i capelli tagliati con cura e l’aria ben nutrita, sembravano esattamente ciò che erano: normalissimi dirigenti d’azienda americani. Era difficile vederli come una squadra di mercenari.
Coburn e Sculley avevano compilato due elenchi separati, ma su entrambi figuravano i nomi di quei cinque. Tutti avevano lavorato a Teheran, e quasi tutti avevano fatto parte del gruppo che aveva organizzato l’evacuazione. Tutti avevano esperienza militare o qualche specializzazione che poteva tornare utile. E tutti godevano della piena fiducia di Coburn.
Mentre Sculley li chiamava al telefono, durante le prime ore del mattino, Coburn era andato all’archivio personale e aveva raccolto un fascicolo su ognuno di loro, con età, statura, peso, stato civile e conoscenza di Teheran. Quando erano arrivati a Dallas, ognuno aveva completato un questionario precisando l’esperienza militare, le scuole militari frequentate, l’addestramento con le armi e le altre specializzazioni. I fascicoli erano destinati al colonnello Simons, che era già partito da Red Bay. Ma prima dell’arrivo di Simons, Perot doveva chiedere se erano disposti a offrirsi volontari.
Per la riunione con Perot, Coburn aveva prenotato tre stanze adiacenti. Avrebbero usato solo quella centrale: le altre due sarebbero rimaste vuote. Le aveva prese al solo scopo di evitare il rischio che qualcuno origliasse.
Tutto sommato, era una situazione piuttosto melodrammatica.
Coburn osservava gli altri e si domandava che cosa pensassero. Non sapevano ancora il motivo della convocazione, ma era probabile che l’avessero intuito.
Non poteva dire che cosa pensasse Joe Poché: nessuno ci riusciva mai. Poché, un uomo basso di statura, taciturno, trentadue anni, teneva sempre per sé le sue emozioni. La voce era sempre tranquilla, il viso impassibile. Era stato sei anni nell’esercito e nel Vietnam aveva comandato una batteria di mitraglieri. Aveva imparato a sparare con quasi tutte le armi in dotazione all’esercito, e per ammazzare il tempo, nel Vietnam, si era esercitato con una calibro quarantacinque. Era stato con l’EDS a Teheran per due anni: prima aveva progettato il programma dei computer che elencava i nomi degli aventi diritto all’assistenza medica, e più tardi era stato programmatore responsabile dell’archivio che costituiva la base dell’intero sistema assistenziale. Coburn sapeva che era un tipo logico e riflessivo, un uomo che non avrebbe mai dato il suo consenso a un’idea o a un piano se prima non ne avesse esaminato tutti gli aspetti e non ne avesse calcolato con cura tutte le conseguenze. I suoi punti di forza non erano il senso dell’umorismo e l’intuizione: erano l’intelligenza e la pazienza.
Ralph Boulware era dodici centimetri più alto di Poché. Era uno dei due neri inclusi nell’elenco: aveva un volto grassoccio e gli occhietti vivaci, e parlava sempre in fretta. Per nove anni era stato un tecnico dell’aeronautica e si era occupato dei complessi sistemi dei computer e dei radar dei bombardieri. Era rimasto a Teheran nove mesi soltanto; aveva cominciato come direttore della preparazione dei dati ed era stato rapidamente promosso direttore del centro dati. Coburn lo conosceva bene e lo trovava molto simpatico. A Teheran s’erano sbronzati spesso insieme; i loro figli erano compagni di giochi e le loro mogli erano diventate amiche. Boulware era affezionato alla sua famiglia, ai suoi amici, al suo lavoro e alla vita. Amava la vita più di chiunque altro Coburn conoscesse, forse a eccezione di Ross Perot. E Boulware era anche un tipo dalla mentalità molto indipendente. Non esitava mai a dire quello che pensava. Come molti neri che avevano fatto carriera, era piuttosto suscettibile e ci teneva a far capire che non gli andava di subire imposizioni. A Teheran, durante l’Ashura, quando era andato a giocare a poker con Coburn e Paul, tutti gli altri avevano dormito in quella casa per sicurezza, secondo gli accordi presi in precedenza. Ma Boulware no. Non c’erano state discussioni né annunci sensazionali: Boulware aveva preso su ed era tornato a casa sua. Qualche giorno dopo aveva deciso che per il lavoro che stava facendo a Teheran non valeva la pena di rischiare la sua sicurezza personale e quindi era tornato negli Stati Uniti. Non era il tipo che si associava al branco solo perché era un branco: se pensava che il branco stesse andando nella direzione sbagliata, lo piantava e basta. Era il più scettico tra gli uomini riuniti all’Hilton Inn: se doveva esserci qualcuno che avrebbe trovato da ridire sull’idea dell’assalto alla prigione, sarebbe stato sicuramente Boulware.
Glenn Jackson aveva anche meno degli altri l’aria del mercenario. Era un uomo mite e occhialuto e non aveva esperienze militari, ma era un cacciatore appassionato e un ottimo tiratore. Conosceva bene Teheran, vi aveva lavorato sia per la Bell Helicopter sia per l’EDS. Era un tipo così franco e retto, pensava Coburn, che era difficile immaginarlo coinvolto negli inganni e nella violenza inevitabili in un tentativo di assalto a una prigione. Per giunta, Jackson era battista – gli altri erano cattolici, eccettuato Poché, che non aveva mai confidato a nessuno la sua fede religiosa – e i battisti erano famosi perché battevano i pugni sulla Bibbia, non sulle facce altrui. Coburn si chiedeva come se la sarebbe cavata Jackson.
Si chiedeva la stessa cosa anche sul conto di Pat Sculley. Sculley aveva un ottimo stato di servizio militare – era stato cinque anni nell’esercito, ed era diventato istruttore dei rangers con il grado di capitano – ma non aveva esperienza in fatto di combattimenti. Aggressivo ed estroverso negli affari, era uno dei migliori giovani dirigenti dell’EDS. Come Coburn, Sculley era un ottimista inguaribile; ma mentre l’ottimismo di Coburn era stato temperato dalla guerra, lui aveva conservato un’ingenuità giovanile. “Se si dovesse arrivare alla violenza,” si domandava Coburn “Sculley sarà abbastanza duro da sapersi destreggiare?”
Dei due uomini che non erano ancora arrivati, uno era il più qualificato per partecipare all’assalto a un carcere e l’altro probabilmente era il meno adatto.
Jim Schwebach s’intendeva di combattimenti più di quanto s’intendesse di computer. Era stato per undici anni nell’esercito, aveva prestato servizio nel 5º gruppo delle Forze speciali nel Vietnam, e aveva svolto quel tipo di attività di commando che era la specialità di Bull Simons, compiendo operazioni clandestine dietro le linee nemiche. Aveva addirittura più decorazioni di Coburn. Poiché aveva passato tanti anni sotto le armi, era ancora un dirigente di basso livello, sebbene avesse trentacinque anni. Era andato a Teheran come apprendista ingegnere dei sistemi, ma era maturo e fidato, e Coburn gli aveva assegnato il compito di dirigere una squadra durante l’evacuazione. Era alto meno d’un metro e settanta, e aveva il portamento eretto di molti uomini di bassa statura, e l’indomabile spirito combattivo che costituiva l’unica difesa del ragazzo più piccolo della classe. Qualunque fosse il punteggio della partita, anche quando mancava un minuto allo scadere del tempo, Schwebach stringeva i denti, si rimboccava le maniche e si dava da fare. Coburn l’ammirava perché, per spirito di patriottismo, si era offerto di restare nel Vietnam anche quando sarebbe potuto tornare a casa. In combattimento, pensava Coburn, Schwebach era l’ultimo uomo al mondo che avresti voluto far prigioniero… era meglio ammazzarlo anziché catturarlo, perché avrebbe dato troppo filo da torcere.
Ma quell’aspetto del carattere di Schwebach non era evidente a prima vista. Sembrava un tipo molto normale. Anzi, quasi non lo si notava. A Teheran aveva abitato più a sud di tutti gli altri, in un quartiere dove non c’erano altri americani, eppure spesso se ne era andato in giro per le strade, in blue jeans, una vecchia giacca militare e un berretto di lana, e nessuno gli aveva mai dato fastidio. Aveva il dono di non dare nell’occhio… un dono che poteva essere utile in un assalto a una prigione.
L’altro che doveva ancora arrivare era Ron Davis. Trentenne, era il più giovane dell’elenco. Era figlio di un assicuratore e, sebbene fosse nero, aveva fatto rapidamente carriera nel mondo dei bianchi. Erano pochi quelli che potevano vantare progressi così rapidi. Perot era molto fiero di lui. «La carriera di Ron è come un lancio sulla luna» diceva. Davis aveva acquisito una buona conoscenza del farsi in un anno e mezzo di lavoro a Teheran alle dipendenze di Keane Taylor, che si occupava della computerizzazione della banca Omran, la banca dello scià. Davis era allegro, mordace, spiritoso, una specie di versione più giovane del celebre comico nero Richard Pryor, anche se usava un linguaggio più castigato. Coburn pensava che fosse il più sincero tra gli uomini che figuravano nell’elenco. Davis non aveva difficoltà a confidarsi e a parlare dei s...