Nuovi Argomenti (62)
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Nuovi Argomenti (62)

PRESENTE STORICO

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (62)

PRESENTE STORICO

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Lorenzo Pavolini, Juan Rodolfo Wilcock, Mauro Covacich, Filippo Tuena, Leonardo Colombati, Claudio Piersanti, Giorgio van Straten, Matteo Nucci, Silvio Perrella, Andrea Giannetti, Daniele Mencarelli, Giulia Rusconi, Jorge Riechmann, Tommaso Giartosio, Giuseppe Costigliola, Luca Alvino e Andrea Cirolla.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039775
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RIFLESSIONI
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ARIA DI BRAVERÌA
APPUNTI QUEER SUI «PROMESSI SPOSI»
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di Tommaso Giartosio

I.
Nel nostro Paese storicamente così frammentato la letteratura ha svolto per secoli un ruolo politico che forse non ha paragoni in Europa, di simbolo e testimone primario di un’identità fantasma. La storia letteraria è stata a lungo la nostra epica nazionale. I Promessi sposi sono un’articolazione cruciale di questa italianissima concezione politico-letteraria della tradizione. Se la lingua nazionale fonda la legittimità dello stato-nazione, quest’opera traccia appunto un modello linguistico deliberatamente esemplare, un protocollo per la lingua dell’Italia unita. Se la letteratura conferisce a una nazione pari dignità nel consesso delle altre, questo romanzo vuole appunto riportare la letteratura italiana nell’alveo delle letterature moderne, e in particolare del grande romanzo europeo. Si tratta insomma di un progetto letterario che si inserisce pienamente nel Risorgimento (benché certo non si esaurisca in esso), come un proclama o una costituzione.
Risorgimentale è anche la scelta di proporre il Seicento come archeologia della Restaurazione. Ma mentre i romanzi storici di D’Azeglio o Guerrazzi avevano anche un contenuto distintamente storico-politico (collocato nel passato ma anche, per allusione, nel presente ottocentesco), I promessi sposi raccontano una vicenda minima che solo per caso incrocia la Storia. Eppure questo matrimonio ostacolato e poi trionfante, questa riproduzione ottenuta a caro prezzo, sono profondamente storico-politici – non tanto nell’ottica della microstoria, quanto proprio nella prospettiva dell’unificazione e dell’indipendenza. Pongono infatti all’ordine del giorno la necessità di una «vita buona» che dia «buone nascite» su cui fondare una «buona nazione». Non a caso il romanzo tematizza, dell’eros, solo il versante istituzionale, il matrimonio: un apparente formalismo praticato (l’osservazione è di Arbasino) addirittura da Don Rodrigo, che si ingarbuglia a sventare le nozze mentre potrebbe semplicemente far rapire Lucia, sposata o meno.1 Ma questa jouissance libertina, eludendo la questione delle fondamenta sociali, farebbe dei Promessi sposi un romanzo gotico e non patriottico. Insomma, a essere «politica» negli Sposi non è solo l’ambientazione storico-sociale, ma soprattutto la vicenda privata: un tema biopolitico che va riferito al cattolicesimo di Manzoni. È proprio quando nasce la Patria che occorre puntare i riflettori sulla Famiglia.2
Del resto il tema della famiglia fa da filo conduttore di tutta la narrativa italiana dell’Ottocento. Le tappe iniziali, fortemente critiche verso il progetto famigliare, sono la Vita di Vittorio Alfieri (fuga dall’oppressione domestica, vagabondaggi solitari, infine costruzione di un sodalizio amoroso che non ha nulla del «nido») e le Ultime lettere di Jacopo Ortis (dove al ramingo protagonista si contrappone la famiglia di Teresa e Odoardo, viziata fin dalla sua origine, e non c’è neppure il lieto fine di un legame anticonvenzionale). Anche Leopardi, Nievo, Tommaseo si situano in vario modo entro questa prospettiva romantica che ridimensiona la sovrapposizione (di matrice borghese) tra eros, famiglia e procreazione. Al capo opposto, a fine secolo – non a caso dopo l’unificazione, cioè con la creazione di una casa comune – la famiglia è invece divenuta un nucleo indiscutibile, che si tratti di un luogo di rivalità (Mastro-Don Gesualdo, I Vicerè, L’eredità Ferramonti) o di un rifugio fragile ma prezioso (I Malavoglia, Cuore, Myricae), o di entrambi (Piccolo mondo antico). Ho certo tralasciato testi potentemente eccentrici, in primo luogo Pinocchio; ma entro questo arco storico il romanzo manzoniano sembra davvero essere il punto in cui si completa e si legittima l’affermazione della «famiglia coniugale intima», caratterizzata da una struttura nucleare e da un diminuito potere patriarcale, e borghese nello spirito se non sempre nella realtà (fu abbracciata anche da molti nobili).3 Del resto il conte Manzoni denuncia (negli Sposi e, con forza ancora maggiore, nel Conte di Carmagnola e nell’Adelchi) la famiglia aristocratica come groviglio di colpa e oppressione, spazio deformato in cui il matrimonio non è frutto di un patto eterosessuale ma di un accordo omosociale tra stirpi patriarcali, proprio come nei romanzi analizzati da Eve Kosofsky Sedgwick in Between Men.4 L’analisi che qui propongo è basata proprio sul pensiero queer di Sedgwick, cioè comporta una riflessione su caratteri, trasformazioni, instabilità e paradossi dell’identità sessuale (l’orientamento sessuale) e di genere nei Promessi sposi.
La costruzione del rifugio famigliare è il polo verso cui si orienta, di dilazione in dilazione, la trama stessa degli Sposi. La rinnovata unione dei fidanzati è l’obiettivo finale costantemente differito. Potrebbe essere almeno oggetto di sogni, desideri, rimpianti, scambi epistolari, ma come è noto Manzoni ne è molto parco: una celebre digressione del Fermo e Lucia osserva che «non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione» (172). Nei Promessi sposi non si parla dunque di promessi sposi, ma d’altro. Dopo l’impostazione della vicenda nei primi capitoli «borghigiani», i fidanzati sono costretti a dividersi: le loro peripezie costituiranno l’ossatura stessa del romanzo. Per cominciare, la cosa migliore è che Lucia vada in un convento di suore, Renzo in un monastero di frati. Soluzioni provvisorie, giacché il cosmo manzoniano non prevede alcun luogo che possa davvero surrogare il Focolare eterosessuale: neppure la casa di Dio può farlo.5 Ma con il procedere dell’intreccio una prospettiva separatista (gender-separative) colloca i due in sempre nuovi spazi di segregazione di genere, maschi con maschi, femmine con femmine (con alcune variazioni che vedremo di volta in volta). Finché non ne escono, i promessi non potranno riunirsi. Del resto la denuncia dell’omosocialità come minaccia è esplicitata fin dal primo capitolo: «Era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva» (22): gli esempi successivi chiariscono che si tratta quasi sempre di gruppi omosociali, perlopiù maschili. Questi gruppi chiusi sono la traccia di un vizio profondo della società del tempo.
Dunque i Promessi sposi sono fondamentalmente la storia di una diade eterosessuale che, proprio quando sta per formarsi, viene scissa e respinta entro spazi omosociali che costituiscono il principale ostacolo – e il principale incentivo narrativo – al lieto fine nuziale. Ora, questi spazi sono almeno potenzialmente omosessuali. E di fatto sono fortemente metonimizzati in tal senso. (Non a caso si tratta dei capitoli in cui Manzoni più si avvicina al romanzo gotico, sempre produttivo di increspature dell’identità.) Nel convento di Monza, per cominciare, Gertrude ha «giochi […] sregolati» e «discorsi» arrischiati con le sue novizie (210); fa arrossire Lucia, ha «una certa inclinazione» per lei (214); le dispiace il suo pudore, considera perderla «una sventura», e spesso la tiene con sé nel suo parlatorio privato e la accarezza, mentre Lucia la contraccambia «con tenerezza crescente» (383). Quanto a Renzo, su cui tornerò tra poco, è vero che di fatto finisce per non trovare alloggio nel monastero, ma in compenso si trova coinvolto in una serie di contesti omosociali maschili del tutto analoghi.
Ma prima di procedere, affrontiamo alcune possibili obiezioni. Si potrebbe pensare che la segregazione di genere negli Sposi sia un semplice riflesso del puritanesimo del primo Ottocento, e forse più specificamente della venatura calvinista manzoniana. Normale sessuofobia, insomma. Però la «normale» sessuofobia non dovrebbe essere solo eterofoba, ma anche – o prima di tutto – omofoba. È dunque «normale» che essa esponga e denunci, magari proprio in modo velato, l’omosessualità. Tuttavia, chiariamo: non intendo dire che in realtà vi siano rapporti omosessuali tra Gertrude e le monache o tra Gertrude e Lucia. La realtà di un romanzo è solo ciò che c’è sulla pagina. In questo caso, una serie di elementi semantici (e altri ne vedremo) solamente ambivalenti, ma realmente ambivalenti, che potevano non esserci e invece ci sono. È possibile che la Gertrude attratta da Lucia viva un’attrazione puramente morale per l’innocenza perduta: ma il romanzo si guarda bene dal confermare esplicitamente questa lettura. Lascia aperta la porta a altre interpretazioni. Un’opera letteraria comunica non solo trasmettendo significati «in chiaro», limpidi e deliberati, ma anche ottenendo effetti di senso che possono trarre la loro efficacia proprio dalla loro indeterminatezza (e la questione dell’intenzionalità di tali effetti è irrilevante ai fini della loro presenza ed efficacia).
Ma perché questa ambivalenza? Per capirlo, pensiamo invece al legame eterosessuale proibito tra Gertrude e Egidio, e al conseguente assassinio della conversa. Qui abbiamo a che fare con colpe designate dal narratore mediante perifrasi e allusioni (come il famoso «La sventurata rispose», 210) che rimpiazzano una trattazione ben più analitica nella prima stesura «gotica», Fermo e Lucia. Colpe non dette, dunque: eppure perfettamente riconoscibili alla prima lettura. L’omosessualità invece opera su un livello puramente connotativo, sfugge allo sguardo diretto. Non solo non può venire detta: non può neppure venire suggerita in modo trasparente: è il vizio infando, su di essa pesa un tabù più grave di quello che marchia le altre trasgressioni. Il narratore stesso (non sto parlando dell’autore) deve esserne all’oscuro. Eppure la colpa deve trapelare, come in effetti trapela.6 Essa deve riverberare sottotraccia, perché nella tabe omosessuale l’omosocialità rivela la sua spaventosa deriva etica, il suo fare da sfondo a ingiustizie e violenze, il suo opporsi non solo (empiricamente) al matrimonio dei promessi ma più in generale a quella valorizzazione del rapporto tra i due generi che costituisce, come via via vedremo, l’architettura etica del romanzo. Ma deve agire sottotraccia, non solo e non tanto per ragioni di decenza (già disattese in un precedente illustre e molto più esplicito come La Réligieuse di Diderot), quanto per non ridurre la critica dell’omosocialità (che fa corpo con un pensiero etico-sociale di vasta portata) al suo corollario estremo, al suo troppo specifico e troppo sulfureo caso-limite: l’omosessualità. Ciò che voglio dire non è dunque che negli Sposi «in realtà si parli di omosessualità» – non credo che ci sia una verità nascosta del testo da rivelare, un paragramma saussuriano – ma che sessuofobia, omosocialità e spauracchio omosessuale vi si manifestano come un unico discorso, che in queste pagine cercherò di ricostruire.7
Di qui un paradosso già messo in evidenza da Pasolini, che sugli Sposi ha scritto una frase davvero degna di comparire in Between Men di Sedgwick: «Una volta privilegiato e messo sull’altare il rapporto d’amore uomo-donna, tutti i rapporti che formano l’intreccio del libro sono caratterizzati da una strana intensità (fraternità o odio) omoerotica.»8 Purché non si parli di omosessualità, l’omoerotismo può manifestarsi con una carica emotiva negata al rapporto eterosessuale. Oltre ai brani citati più sopra (la «tenerezza crescente», per esempio) si può ricordare il rapporto fantasmatico con la conversa assassinata, che ha una carica libidinale infinitamente maggiore di quello con il seduttore e complice: «Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva muoversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale,» ecc. (212). È un procedimento tipico dell’ottica degli Sposi: l’eros eterosessuale deve esistere, sulla pagina, come fatto, ma non come aura: è il cuore del libro, ma il cuore non si vede; l’eros omosessuale al contrario non può esistere fattualmente, ma deve venire almeno evocato come sintomo, trasgressione, minaccia. Così va il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimonono.
II.
Riprendiamo dunque a seguire la trama, e in particolare le vicende di Lucia da quando viene rapita dai bravi. Il castello dell’Innominato è un altro contesto fortemente omosociale: c’è solo una vecchia (che del resto inviterà la ragazza a condividere il suo letto), e a parte lei tutta una santabarbara di materiali virili: schioppi, sgherri, manigoldi, ragazzacci allevati alle forche. Per Lucia non si tratta ovviamente di una svolta eterosociale, ma di un’omosocialità opposta e parallela a quella del convento, una compattezza che la isola e opprime. Eppure Lucia, con la sua aria da «madonnina infilzata», è di fatto l’unica donna del romanzo che non sia costretta in un ruolo di madre o vecchia o bimba o suora, cioè l’unica pedina libera sullo scacchiere della libido; e quella santabarbara lei la farà provvidenzialmente saltare in aria. Ma si potrebbe anche riutilizzare la principale metafora ossessiva del romanzo, il contagio, visto che Lucia innesca la conversione del villain in persona, vissuta come una contaminazione di genere: «Non son più uomo!», va ripetendo l’Innominato (406). È una femminilizzazione del maschio che ci viene proposta come elemento di civiltà, principio spirituale che si oppone alla fisicità del legame omosociale-omosessuale: l’Innominato si rivoltola nel letto, immagina il proprio cadavere, in un inedito narcisismo della ripugnanza; oppure ripensa con disgusto ai suoi uomini – «l’idea di ritrovarli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio» (406-407); negli Sposi il nesso tra omosocialità/omosessualità e materialità corporea è strettissimo, siamo al polo opposto rispetto all’omoerotismo spirituale di Michelangelo o Stefan George. Quel «Non son più uomo» esprime dunque anche un segreto sollievo – nel mondo e nella logica dell’Innominato, l’omosessualità è proprio «essere (troppo) uomo» (come i bravi), mentre venire contagiati da Lucia è la salvezza, un transgenderismo legittimato dalla dòxa. Il femminile fa ponte tra la rinuncia alla virilità «cattiva» e l’acquisizione della virilità «buona» (cioè la presa in carico di un potere-responsabilità moderato e paterno). Proprio quando teme di essere ormai una femminuccia il converso diventa davvero «uomo», perché segretamente «donna». Il suo modello, in fondo, è il sacerdote: la cui gonna, esprimendo simbolicamente l’assunzione maschile del femminile, cela e riscatta la natura omogeneamente maschile dell’istituzione, ed esalta la virile mitezza della Chiesa.
Purtroppo però a questa parziale transizione MtF dell’Innominato fa da contraltare il voto di castità di Lucia. Il voto è una variazione sul tema della falsa vocazione religiosa già sviluppato in Gertrude, in Abbondio, in una ragazza sottratta al monastero dal Cardinal Federigo: una vocazione che comporta la rinuncia alla relazione eterosessuale, cioè, nell’ottica degli Sposi, all’unica reale relazione con l’altro da sé: al cardine etico del romanzo.9 In teoria la Chiesa costituirebbe una formidabile smentita di questo assunto. Ma la Chiesa amata da Manzoni – a partire dalla stessa figura di Federigo, con la sua vita piena «d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti» (422), con il suo legame filiale con il cugino Carlo Borromeo e paterno con i ragazzi della plebe e con l’Innominato e naturalmente con la ragazza che dicevamo, a cui appunto offre di tasca sua la dote – questa Chiesa è profondamente «sposata al mondo». Non a caso in quell’antitesi di una falsa vocazione che è la chiamata incidentale e inattesa ma autentica di Lodovico, alias Fra Cristoforo, uno dei primi gesti del convertito è di assumere il nome dell’uomo che ha ucciso, nonché l’onere economico di mantenerne la moglie e i figli. Il sacerdote esemplare è quello che non si isola omosocialmente dal mondo laico, anzi vi «mette su famiglia». E sarà proprio Fra Cristoforo a spiegare a fine romanzo che il voto di Lucia è un errore, sia pure commesso a fin di bene. Lucia sbaglia a scegliere la purezza. L’apartheid sessuale, virtuoso o vizioso che sia, è una soluzione azzardata, inquietante, che nel migliore dei casi va bene per pochi; è meglio invece scendere nel «mondo», compiere il gesto eterosessuale, accettare la sfida del contagio.10
La più maestosa messa in scena di questa morale arriva poco dopo la liberazione di Lucia, ed è ovviamente la peste. Certo, con il diffondersi del morbo tutti devono isolarsi per salvare la pelle, ma Manzoni ci mostra soprattutto scene di separazione tra maschi e femmine. La prima caccia agli untori scatta quando qualcuno strofina l’assito che separa i due sessi nel duomo...

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  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (62)
  3. DIARIO - Lorenzo Pavolini
  4. INEDITO
  5. PRESENTE STORICO
  6. SCRITTURE
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  8. Notizie biografiche
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