Il mistero delle sette sfere
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Il mistero delle sette sfere

Ovvero: cosa resta da esplorare, della depressione di Afar alle stelle più vicine

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  1. 192 pagine
  2. Italian
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Il mistero delle sette sfere

Ovvero: cosa resta da esplorare, della depressione di Afar alle stelle più vicine

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Si chiama drd4-7r, è la variante di un gene di Homo sapiens, presente nel 20% di noi, ed è quella che spiegherebbe la nostra inarrestabile spinta a esplorare: così la genetica ci spiega perché noi, unici superstiti del genere Homo e forse unica razza intelligente della nostra galassia, siamo diventati «cosmopoliti invasivi», come topi o scarafaggi, in continua espansione. Lasciata l'Africa, figli di un'unica Eva vissuta 143.000 anni fa, in poche decine di migliaia di anni abbiamo esplorato tutto il pianeta, occupandolo fino al suo ultimo pezzettino, la cima dell'Everest, nel 1953. Nel 1961, comincia l'espansione fuori dal nostro pianeta: Yuri Gagarin va in orbita, e dopo altri otto anni i primi sapiens atterrano sulla sfera della Luna. Avvalendosi della guida di Jules Verne e dalla sua fantasia inesauribile e premonitrice, Giovanni F. Bignami ci conduce in un viaggio alla scoperta delle sette sfere, in parte ancora inesplorate, che circondano, sopra e sotto di noi, la sfera 0 della superficie terrestre. Nel nostro pianeta restano da perlustrare le immense dimensioni degli oceani e dei loro fondali (sfera -1), ma anche il nucleo incandescente della Terra (sfera -2), il cui centro sarebbe accessibile a un piccolo «satellite infernale» che viaggiasse per una settimana attraverso le profondità del sottosuolo.
La tecnologia attuale ci ha già portati nel cielo, fuori dall'atmosfera terrestre (sfera +1) fino a posare il piede sulla Luna (sfera +2); l'energia nucleare della fissione porterà l' Homo sapiens ( planetarius?) oltre la Luna fino a Marte, ovvero all'inizio della sfera +3, che contiene tutto il sistema solare e che esploreremo grazie alla fusione nucleare. Da Marte a Giove, fino al confine del sistema solare avremo una guida speciale: Werner von Braun, l'ex nazista che ci ha dato la Luna. Ed eccoci all'ultima sfera, la settima, la più difficile ma la più affascinante, quella delle stelle vicine a noi, con intorno pianeti abitabili, le future Americhe. Unica possibilità per arrivarci: la annichilazione della antimateria, l'energia più efficiente nota oggi. Sarà con noi Tito Lucrezio Caro, l'immenso poeta filosofo latino che sa esplorare l'Universo con la mente e con una lancia. Preoccupati del costo, in epoca di crisi? Niente panico: il mistero sarà risolto dall'«effetto Einstein» in economia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039072

Parte prima

La Terra, il mare, il cielo, la Luna

Prologo 1

Un grande falò brilla nella depressione di Afar, in Etiopia. È uno dei posti più caldi del mondo, di solito, ma quella sera di novembre 1974 era fresco. Seduti intorno al fuoco, con un bicchiere in mano e gli occhi lucidi, ci sono una dozzina di serissimi antropologi, uomini e donne delle più importanti università di Francia, Usa e Inghilterra. Festeggiano forse il più importante ritrovamento della storia, un fossile che getterà una nuova luce sulla lontana origine dell’uomo. Donald Johanson, curatore del museo di antropologia di Cleveland, sta raccontando per l’ennesima volta a Yves Coppens, del Collège de France, che nel pomeriggio, girellando nel fondo secco di un fiume, ha visto sporgere un pezzo di osso, e poi un altro e poi un altro... Anche a Yves brillano gli occhi, e alza il bicchiere di champagne portato da Parigi sulle Land Rover proprio per occasioni come questa (e pazienza se non è gelato...).
Alla fine della giornata, tutti hanno capito che, incredibile ma vero, non ci sono duplicazioni nei pezzi ritrovati. Le ossa raccolte appartengono tutte allo stesso scheletro! Uno scheletro recuperato al 40%, un record, capiranno poi, dopo mesi di lavoro di analisi. Per adesso festeggiano intorno al fuoco, con un mangianastri che suona a palla un grande successo dei Beatles: Lucy in the sky with diamonds. Sanno che lo scheletro ritrovato è femminile e qualcuno, non si sa più chi, propone di chiamarlo Lucy. Tutti approvano e brindano ancora a Lucy, una giovane femmina di ominide vissuta tanto tempo fa.
Nasce così il nome Lucy per lo scheletro, ufficialmente noto come Australopithecus afarensis, nome in codice AL 288-1. Sono le ossa di quella che, almeno simbolicamente, è considerata la mamma di tutti noi (e anche di un bel po’ di altri primati...). Di Lucy oggi sappiamo anche l’età. Sappiamo l’età che aveva quando morì, circa 25 anni, forse travolta da una piena del fiume nel cui letto fu ritrovata, come nella bellissima ricostruzione cinematografica curata da Yves Coppens stesso: per i nostri standard, era giovanissima. Ma, quel che più conta, abbiamo calcolato l’età in cui visse rispetto a oggi: un rispettabile 3,2 milioni di anni fa, con un errore di meno di 100.000 anni.
Sappiamo diverse altre cose di Lucy: era piccolina, pesava 30-40 chili per poco più di un metro di altezza, con una testolina di taglio decisamente scimmiesco. Ma aveva una caratteristica importante: la forma delle ossa del bacino e delle gambe mostra che, miracolo!, camminava stando in piedi, anche se un po’ ancheggiando, dicono gli esperti. Più o meno la prima «quadrumane bipede», nata e vissuta nel cuore dell’Africa. Doveva aver capito, buon per lei, che stando in piedi si vede lontano, sopra le alte erbe della savana. Questo migliora di molto le possibilità di sopravvivenza: per esempio si può scorgere il leone prima di essere attaccati o si avvista la riva di un fiume prima di morire di sete. Forse oggi sono stati rinvenuti resti fossili di ominidi ancora più vecchi, databili anche da 4 a 7 milioni di anni fa, ma non importa: per noi la prima resta sempre Lucy, la prediletta.
Senza farla troppo lunga con la paleoantropologia, scienza affascinante quanto difficile, diciamo semplicemente che, mentre generazione dopo generazione i nipotini di Lucy crescevano e si rinforzavano nel corpo e nella testa, per quasi tre milioni di anni essi non lasciarono l’Africa. In questi tre milioni di anni (che non sono pochi) questo strano nuovo bipede terrestre nostro antenato passa il tempo a rinforzarsi e a migliorare la sua dieta e quindi il suo fisico, soprattutto il cranio, che aumenta notevolmente di volume. La sua permanenza nella stessa parte del globo è decisamente in contrasto con il comportamento della sua futura discendenza. Australopithecus afarensis non sembra aver voglia di esplorare.
Ci vorranno più di centomila generazioni, ciascuna con occasioni per mutazioni genetiche più o meno casuali, per cambiare attitudine. E chissà come sono andate davvero le cose su tempi scala difficili da valutare. Anche se non sappiamo spiegare come e perché sia avvenuta questa evoluzione, se sia stata graduale o a strappi, quello che a noi interessa è che a un certo punto vien fuori un «nipotino» di Lucy che ha un patrimonio genetico un po’ differente da quello della sua antenata, dalla quale pure incontestabilmente deriva: si chiamerà Homo sapiens.
La difficoltà della spiegazione sta anche nel fatto che, forse parzialmente in parallelo all’evoluzione tutta africana da ominidi discendenti da Lucy, in Eurasia sembra svolgersi un’altra evoluzione del genere Homo con rami «laterali» (tipo uomo di Neandertal e diversi altri). Comunque, alla fine, sapiens, un po’ secchione e un po’ bullo, vince, e 70.000 anni fa emerge dall’Africa destinato a diventare un conquistatore. Ma c’è di più, c’è un forte legame genetico che accomuna tutti i sapiens. Si tratta di una piccola parte, poco più di un milionesimo del nostro DNA: 16.500 unità su più di tre miliardi, ovvero i mitocondri. Sono quelle piccole frazioni del nostro messaggio genetico che sono trasmesse esclusivamente dalle madri. Ebbene, tutti i mitocondri di tutti gli odierni sapiens provengono da una sola donna. Era una sconosciuta Eva la madre comune a tutti noi che ora siamo sulla Terra. Visse in Africa intorno a 143.000 anni fa e la sua datazione è sempre più precisa, con attualmente un errore ridotto al 10%. Siamo davvero una sola grande famiglia, noi umani terrestri. Perché vince sapiens? Forse perché ha una nuova «organizzazione» del cranio: il volume di 1 litro e mezzo non è appiattito e antero-posteriore come il Neandertal, è molto più sferico e con le ossa riorganizzate, una morfologia adatta a sviluppare il pensiero, prima, e poi, rapidamente, il linguaggio, cioè il segreto per trasmettere ai singoli l’esperienza di tutta la specie.
O forse vince perché ha dentro di sé qualcosa che lo spinge a muoversi, a esplorare, a cercare sempre qualcosa di nuovo, anche sopportando fatiche, rischi e perdite incredibili, senza voltarsi indietro. Forse è un gene speciale, come vedremo più avanti, comparso nel patrimonio di sapiens, un gene che lo spinge e gli dà il necessario coraggio per prendere dei rischi.
Certo qualcosa di nuovo, di enormemente nuovo è successo. Dopo tre milioni di anni di vita grama e marginale, sempre più o meno nella stessa regione africana, è nata una specie che invece non starà più ferma, mai più, e si muoverà sul pianeta a una velocità semplicemente inimmaginabile, ma soprattutto incommensurabile con quella dell’evoluzione della specie fino ad allora.
«Che ne dici Jules?» chiedo al mio Virgilio francese. «L’ho raccontata troppo semplice? Decenni di dotte e aspre discussioni tra antropologi, condensate in poche righe per riassumere la storia dell’evoluzione umana fino alla soglia dell’antropocene.»
«Mais non, mon cher» risponde Jules. «Mi era comunque già tutto chiaro. Sai che io ero un grande ammiratore di Darwin.»

I

La sfera 0 (o della Terra)

Homo sapiens alla conquista della superficie terrestre

Fatto sta che poche decine di migliaia di anni dopo essere uscito dall’Africa, 70.000 anni fa, trascorso talora un periodo di convivenza con altri rappresentanti del genere Homo, il nostro sapiens li soppianta tutti, all’occorrenza dopo averne acquisito un po’ di materiale genetico, per esempio quel 2% di Neandertal che c’è in tutti i gruppi usciti dall’Africa.
Sapiens comincia a esplorare e a popolare tutta la superficie della Terra, la «sfera 0». È anche un artista e un pensatore: già 18.000 anni fa, quando i piccoli Homo floresiensis, l’ultima specie del genere Homo rimasta oltre a sapiens, erano vicini all’estinzione e 15.000 anni dopo la scomparsa dell’ultimo Neandertal, sapiens celebrava il fatto di essere rimasto l’unico rappresentante del genere Homo sulla Terra dipingendo le grotte di Lascaux. Ci disegna tori, orsi, cavalli, felini, un solo uomo, ferito, e altri segni misteriosi.
Conquista la superficie della Terra a una velocità impressionante. L’Eurasia e l’Oceania sono quasi completamente occupate in poche decine di migliaia di anni, entro i 30.000 fa; le Americhe, dall’Alaska al fondo del Cile, forse addirittura in 2000 anni, da 16.000 a 14.000 anni fa. Alla incredibile velocità media di più di un chilometro all’anno.
Lo straordinario di questa velocità di diffusione sta nel fatto che si trattò di una espansione, non di una migrazione, almeno come la intendiamo noi oggi. Migrazione fu quella, ad esempio, dei longobardi in Italia. Migrazione, forse più correttamente, è quella degli gnu africani, o delle anguille, o dei salmoni: un fenomeno ciclico, nel quale una specie va e poi torna, per ragioni legate alla riproduzione o alle condizioni climatiche, o altro ancora non capito.
Con Homo sapiens il fenomeno è su larga scala e non si riferisce al particolare trasferimento di un popolo: è una diffusione, è l’espansione «areale» di una specie che va e non torna, non guarda più indietro, per sempre, perché cerca (e trova) sempre nuove aree dove insediarsi. È un’espansione soprattutto «out of Africa», a più riprese, seguendo anche molto le variazioni del clima e dei conseguenti cambiamenti dei paesaggi e dei livelli degli oceani.
Che cosa spinse sapiens a espandersi, a cercare nuovi orizzonti? Non sappiamo dare una risposta certa a questo fenomeno. Sappiamo però che sapiens fu l’unico, fra tutti i suoi numerosi parenti del genere Homo, a compiere un’espansione globale e senza precedenti. Dove non c’erano predecessori (Australia, le Americhe) si impiantò, arrivando per primo, dove invece (Europa, Asia, Africa) c’erano specie potenzialmente competitive per la sua stessa nicchia ecologica ne accompagnò l’estinzione, più o meno rapidamente.
Oggi, gli etologi e gli ecologi, per esempio Telmo Pievani in Italia e molti altri nel mondo, sono d’accordo su un nome tecnico per la specie Homo sapiens: «cosmopolita invasivo». Non è proprio un complimento: è una definizione che si applica altrettanto bene a cornacchie, topi o scarafaggi, oltre che alla specie che si affaccia, all’alba della storia, a dominare il mondo.
Forse, all’espansione del sapiens ha concorso una ragione genetica: la variante di un gene che si chiama DRD4 e che controlla la dopamina, una sostanza fondamentale nel funzionamento del cervello. La variante DRD4-7R sembra sia presente in circa il 20% di tutti noi sapiens, e potrebbe essere quella che spinge a cercare il nuovo, in tutti i campi, anche alimentare o sessuale e a prendere i rischi connessi.
Lo stesso scopritore della variante 7R, però, è il primo a metterci in guardia da interpretazioni troppo semplici. Se è vero che il 20% di individui superdotati per il rischio e per il nuovo potrebbe spiegare l’espansione rapida e violenta di una nuova specie, è anche vero, dice Kenneth Kidd dell’Università di Yale, che un solo gene, o una variante di un gene, non è una causa sufficiente. Occorre considerare un contesto di fattori, da quelli genetici, responsabili di mutamenti fisici, a quelli ambientali. Insomma, non basta la motivazione (che però ci vuole), servono anche i mezzi e le occasioni.
E si arriva così, circa 10.000 anni fa, alla conclusione della lunghissima fase del paleolitico. L’inizio del neolitico vede il sapiens oramai ben radicato in tutti i continenti, padrone del linguaggio, non più costretto solo alla caccia e alla raccolta, bensì capace di produrre cibo tramite l’agricoltura e l’allevamento,... insomma, pronto per entrare nel futuro.
Chiude la preistoria, idealmente, l’uomo di Similaun, risalente a un’epoca compresa tra il 3300 e il 3100 a.C. (età del rame), trovato a più di 3000 metri sulle Alpi, conservato nel ghiaccio. Era già perfettamente attrezzato per andare in montagna: scarpe in pelle con dentro il fieno per tenere caldi i piedi, guanti, cappuccio ecc. Muore colpito da una freccia: forse, esplorando, era finito a casa d’altri. L’esploratore ha comunque vinto e popolato in un lampo tutta la Terra. Il resto, come si dice, è storia, anche perché è proprio da qui in avanti che comincia la Storia.
«Caro Jules, che ne dici? Sapevi del sapiens esploratore?»
«No, non in questi termini, però un po’ l’avevo immaginato. È una bella storia, se potessi ci scriverei su un libro. Che ne dici di Giro del mondo in 80.000 anni
«Sarebbe fantastico.»
La storia delle esplorazioni «moderne» della sfera 0 va, simbolicamente, dall’uomo di Similaun a oggi. Raccontarla è difficile perché i più grandi, i più coraggiosi e intelligenti esploratori sono e rimarranno per sempre sconosciuti. La nostra storia «occidentale» tende a presentare le scoperte geografiche e le esplorazioni in generale come tutte dovute a uomini bianchi, legati in qualche modo a grandi imperi, da quelli mediterranei (ad es. Egitto, Persia, Macedonia, Roma, le cui carte avrebbero riportato la scritta «hinc sunt leones», da qui in avanti ci sono leoni, dove gli esploratori si erano stufati di esplorare...) agli imperi oceanici e coloniali (ad es. Spagna, Portogallo, Inghilterra).
Così oggi, a scuola, si studia che l’Asia fu «esplorata» da Marco Polo, l’America fu «scoperta» da Colombo e così via. Pochi in Europa (o comunque fuori dalla Cina) conoscono il grande ammiraglio Zheng He, uno dei più importanti esploratori della storia. A partire dall’anno che noi chiamiamo 1405 (ma che era tutt’altra data per Zheng He e i suoi) e per trent’anni e più, per ordine del secondo imperatore della dinastia Ming, dalla Cina l’ammiraglio esplorò tutto l’oceano Indiano, circumnavigò l’India e si spinse sulla costa orientale dell’Africa, scendendo dalla Somalia fino a Zanzibar. Aveva delle magnifiche navi, certo di classe oceanica, anche se non agili come le caravelle di Colombo di un secolo dopo.
C’è chi sostiene (soprattutto in Cina) che Zheng He doppiò il Capo di Buona Speranza, attraversando poi l’Atlantico fino a scoprire l’America... ma gli esperti sostengono che non ci siano prove di questo e che le sue navi non ce l’avrebbero fatta. Certo però avrebbero potuto risalire l’Africa lungo la costa ovest e poi, perché no?, sbarcare in Spagna e infine «scoprire» l’Europa e, chissà, colonizzarla: si aprirebbero affascinanti scenari di fantastoria.
Dopo le grandi esplorazioni degli oceani, dal XVI al XVIII secolo, grazie agli imperi spagnolo, portoghese, inglese, ma anche agli arditi commercianti olandesi, arriviamo alle grandi esplorazioni continentali del XIX secolo, come quelle in Africa di Henry Morton Stanley (1841-1904), il giornalista-avventuriero-esploratore che non trovò le sorgenti del Nilo, ma trovò David Livingstone (1813-1873). Era stato inviato a cercarlo con istruzioni un po’ vaghe: Livingstone era disperso «da qualche parte in Africa». Famoso l’incontro fra i due, gli unici bianchi nel raggio di migliaia di chilometri, quando Stanley disse: «Dr. Livinsgstone, I presume»... e poi proseguì a percorrere tutto il fiume Congo, naturalmente guidato da «nativi» che sapevano già la strada.
Interessante anche la spedizione compiuta nel continente nord-americano all’inizio del secolo XIX, «esplorato» tra il 1804 e il 1806 da Meriwether Lewis e William Clark dal Missouri fino al Pacifico, dove «nessuno» era mai arrivato. Agivano per conto del grande presidente americano Thomas Jefferson, che oggi ha la sua faccia sul biglietto da 2 dollari (ormai in via di estinzione). Il presidente voleva trovare per la neonata Unione una strada per il commercio con l’Asia. Anche loro non andarono soli: avevano con sé una ragazza indiana di quindici anni, Sacajawea, già moglie di un ambiguo cacciatore di pellicce francese e madre di un bambino, che conosceva la strada e le lingue dei vari nativi da sempre abitanti la zona. Il passaggio attraverso le Montagne Rocciose, Bozeman Pass, è ancora oggi il valico più naturale (ci passa l’Interstate 90) e fu suggerito da lei, che, chissà come, sapeva che lì passavano i bufali.
In realtà, le grandi esplorazioni riportate e giustamente esaltate nella nostra storia, come la circumnavigazione del globo da parte della flotta di Magellano, al servizio di Carlo V, dal 1519 al 1522, servirono a completare e possibilmente confermare la visione politico-religiosa di volta in volta più in voga nel mondo occidentale. Furono anche, e soprattutto, intraprese a fini commerciali, come nel caso della ricerca della miglior via alle Isole delle Spezie, le Molucche, che nel 1500 promettevano rese sul capitale investito pari solo a quelle della via della droga di oggi. Nella corsa alle Isole delle Spezie, per esempio, gli imperi spagnoli e portoghesi, in lotta tra loro, «scoprirono» che le estremità meridionali di Africa e Sudamerica non sono collegate all’Antartide (che comunque nessuno all’epoca conosceva), e che invece sono circumnavigabili a sud, anche se con difficoltà.
In fondo, Africa e Sudamerica avrebbero benissimo potuto essere unite all’Antartide: sarebbe bastata una piccola differenza nel moto di deriva dei continenti, ovvero nella forma di quell’unica massa continentale primitiva, la Pangea, nella quale tutti i continenti odierni erano riuniti, prima che cominciassero a derivare e spargersi, come grandi isole, negli oceani, muovendosi più o meno alla velocità alla quale crescono le unghie.
A pensarci bene, per la stessa ragione avrebbe potuto non esistere il doppio continente americano a dividere Atlantico e Pacifico. E allora, altro che «buscar el levante por el poniente»: Colombo e le sue ridicole c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il mistero delle sette sfere
  3. Dello stesso autore
  4. Introduzione
  5. Parte prima - LA TERRA, IL MARE, IL CIELO, LA LUNA
  6. Parte seconda - MARTE, I PIANETI, LE STELLE
  7. Coda
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright