Il labirinto di Osiride
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Il labirinto di Osiride

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  1. 600 pagine
  2. Italian
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Il labirinto di Osiride

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Informazioni sul libro

È passato molto tempo e tante cose sono cambiate dall'ultima volta in cui il detective della polizia di Gerusalemme Arieh Ben-Roi e l'ispettore della polizia di Luxor Yusuf Khalifà si sono incontrati. Sul punto di diventare padre per la prima volta, Ben-Roi è alle prese con un efferato omicidio avvenuto nella cattedrale armena di Gerusalemme. La vittima è una giornalista che stava facendo ricerche sul traffico del sesso in Israele. Quando nel corso delle indagini emerge un collegamento tra la donna e un ingegnere inglese scomparso a Luxor nel lontano 1931, Ben-Roi si rivolge al vecchio amico e collega Khalifà.
Anche la vita di quest'ultimo è molto cambiata, ma non per il meglio. Turbato da problemi personali e impegnato a sua volta in una difficile indagine - una serie di misteriosi avvelenamenti dell'acqua dei pozzi nel deserto egiziano - Khalifà accetta di aiutare il collega in ricordo dei vecchi tempi.
Inevitabilmente le indagini si intrecciano, conducendo i due poliziotti alla scoperta di una sinistra rete di violenze, abusi, corruzione e terrorismo internazionale. E tutto porta al Labirinto di Osiride, un mistero egiziano vecchio di tremila anni.
Yusuf Khalifà e Arieh Ben-Roi, già protagonisti del bestseller L'ultimo segreto del Tempio, si ritrovano in questo nuovo esplosivo romanzo, in cui Paul Sussman mescola con grande abilità indagini poliziesche e misteriose scoperte archeologiche, confermandosi uno dei migliori interpreti del thriller di avventura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852039751

SECONDA PARTE

CINQUE GIORNI DOPO

Se ci si prende cura delle piccole cose, le grandi si prenderanno cura di se stesse.
Questo mi hanno insegnato i miei genitori. Vivo ancora seguendo la stessa regola. Mi occupo delle piccole cose, vado avanti con il trantran quotidiano e confido che le questioni riguardanti la pulizia alla cattedrale si sistemeranno da sole. Come pare stia succedendo. Non ci sono state telefonate, nessuna visita inaspettata, nessuna interferenza inopportuna di esterni. La polvere pare depositarsi. Di norma non mi piace la polvere, ma in questo caso è una cosa da accogliere con piacere.
I miei genitori hanno avuto grande influenza su di me. Continuano ad averla, ciascuno alla sua maniera, per il meglio e per il peggio. Odo spesso la loro voce. Sento il loro odore, anche. Ho sempre avuto un fiuto fine e l’odore dei miei vecchi vive acutamente nei miei ricordi. Ecco perché, nella cattedrale, contrariamente al solito, ho deciso di restare per un po’ con la donna grassa sotto il tavolo, dopo averla trascinata lì. Ho spento la torcia tascabile rannicchiandomi accanto a lei nel buio, tenendole la mano, premendo il viso contro il suo, inalando il delizioso profumo di mandorle dei suoi capelli. Era quasi come se mia madre fosse di nuovo con me, cosa che trovavo rassicurante. Anche se la responsabilità per la famiglia da tempo è stata mia e solo mia, a volte ho ancora bisogno di rassicurazione. Ho bisogno di sapere che sto servendo al meglio delle mie capacità.
Ne ho bisogno più che mai adesso, per la decisione che devo prendere. La grande decisione, molto più grande di quella che ho preso nella cattedrale, quando ho ripulito più in fretta di quanto avessi progettato. Una decisione dalla quale dipende il futuro della famiglia.
Fai la scelta giusta e il futuro è garantito. Fa’ quella sbagliata...
In un certo senso, naturalmente, ho già deciso, eppure sono ancora in ansia. Mi chiedo che cosa avrebbero fatto i miei genitori nella mia posizione. Misero la famiglia sopra tutto il resto, come faccio io, ma anche così... agire all’interno del cerchio: questo è inaudito. Sono i dilemmi del dovere. Non si tratta semplicemente di ubbidire. Si tratta di decidere a chi ubbidire. E per quale motivo.
La tradizione non mi ha preparato a simili sfide. Non posso trovare alcun conforto nel passato. Chiamo i miei antenati, ma loro non rispondono. Nessuno mi è vicino. So cosa bisogna fare, per il benessere della stirpe, eppure ciò non mi rassicura.
Anche se almeno sotto un aspetto la mia determinazione è salda. Se e quando agirò, non sarà con la garrota. In questo caso è richiesta una discrezione anche maggiore del solito.
Ora, tuttavia, devo andare avanti. Ho cose di cui occuparmi. Il trantran quotidiano. Cose piccole. Quelle grandi, mi auguro, si occuperanno di se stesse.
Deserto del Negev, Israele
L’uomo correva veloce, attraversando con agilità da pantera il deserto illuminato dalla luna. Di tanto in tanto si fermava, scrutava i pendii rocciosi, tendeva l’orecchio. Poi riprendeva a muoversi, deviando verso la ripida collina dalla sommità piatta che dominava il panorama.
Giunto ai piedi dell’altura, si fermò di nuovo, più a lungo stavolta, per riprendere fiato; dopodiché si arrampicò con rapidità e l’unico indizio del suo passaggio fu il fruscio appena percettibile delle scarpe da ginnastica sulla ghiaia. Una volta in cima, tolse dallo zaino una Glock 17 e la puntò verso il margine opposto: con la pistola davanti a sé, girò rapidamente gli occhi a sinistra e a destra.
Lì il terreno sprofondava bruscamente, scendendo in una serie di larghi gradoni di roccia fino al percorso asfaltato della statale 40 più in basso. Il bersaglio si trovava sul gradone più alto, la testa inclinata all’indietro, gli occhi chiusi, gli auricolari dell’iPod infilati nelle orecchie.
Per un momento l’uomo fissò dall’alto il bersaglio, una donna, la cui testa si trovava solo a qualche centimetro dalla punta delle sue scarpe, e riuscì a sentire l’eco metallico della musica che proveniva dagli auricolari. Allora, ghignando, si chinò a raccogliere con la mano libera una manciata di ghiaia. Puntò la Glock e protese il braccio, con l’intenzione di lasciar cadere la ghiaia sui capelli di lei.
La donna si mosse con tale velocità che il cervello dell’uomo non ebbe neanche il tempo di recepire il gesto. Un attimo prima era seduta e quello successivo era scattata in piedi e si era girata, togliendosi contemporaneamente gli auricolari. L’uomo cercò di arretrare, ma lei gli aveva già stretto il polso in una presa simile a una morsa. Con l’altra mano lo afferrò per il giubbotto e lo tirò avanti dal ciglio dell’altura. Per un momento surreale l’uomo si sentì volteggiare nell’aria come una sorta d’acrobata da circo, prima di essere sbattuto sulla schiena, con tanta forza da restare senza fiato, ma senza riportare gravi conseguenze. Un piede gli bloccò il polso destro, una Glock comparve dal nulla e si librò a due centimetri dal suo naso. Dagli auricolari penzolanti proveniva una musica soffocata: Breathe dei Pink Floyd.
«Ti serve qualcosa?»
Ci volle qualche secondo prima che l’uomo riuscisse a fare ciò che la musica suggeriva, respirare. Quando ebbe immesso nei polmoni aria sufficiente, parlò con voce rauca, di gola. «Pensavo d’avercela fatta stavolta.»
«Invece no.»
«L’ho notato.» Per un momento rimase disteso a fissare dal basso il viso di lei, pallido e teso, con un lieve sorriso sulle labbra. Poi alzò la mano libera, gliela passò sulla guancia e le circondò la nuca.
Lei lo lasciò fare un paio di secondi, poi scostò con gentilezza la sua mano e arretrò. «Non rinunci mai, Gidi?»
«Tu non cedi mai, Dinah?»
«Non stanotte, tesoro.»
Lui rise. «Oddio, sei così sexy! Ho un’erezione da qui a Haifa.»
Lei fece una smorfia disgustata. Gideon ci provava sempre con lei, l’aveva fatto per tutti i quattro anni da quando si erano conosciuti. Proprio come cercava sempre di prenderla alla sprovvista quando lei andava lassù a godersi qualche momento di pace. Non aveva cattive intenzioni e Dinah non se la prendeva. Gidi era un brav’uomo. Il migliore. Solo che i bravi uomini non facevano per lei. Spense l’iPod e lo infilò nello zaino appoggiato in fondo al gradone, insieme con la Glock.
Gidi si mise a sedere e si massaggiò il polso. «Come hai capito che ero qui?»
«Ho sentito il tuo dopobarba.»
Lui borbottò. «Sconfitto dal mio buon odore.»
Dinah s’infilò lo zaino e gli tese una mano. Gidi la prese e lei con uno strattone lo tirò in piedi.
«Facciamo a chi arriva prima?» disse lei.
«Me ne starò seduto qui per un po’. A fumare uno spinello, a guardare le stelle, a farmi una ragione del rifiuto. È una notte molto bella.» Le stringeva ancora la mano. «Sta’ qui con me, Dinah. Niente giochetti. Solo seduti qui insieme. La faccenda della cattedrale... almeno permettimi di starti vicino.»
Lei rimase in piedi di fronte a lui, senza fare niente per sottrarsi alla stretta. Il chiaro di luna parve amplificare la finezza dei suoi lineamenti, gli zigomi delicati, gli occhi grandi e tristi. Passò qualche secondo. Poi, stringendogli la mano, si sporse a baciarlo sulla guancia. «Ci vediamo nel complesso.»
E con quel saluto sparì, balzando giù dai ripiani di pietra verso la strada in basso.
«Da qui a Haifa!» le gridò dietro lui.
«Mettici una borsa del ghiaccio!» fu la risposta che gli giunse da lontano.
Quando fu in piano, lei deviò dalla collina e prese la pista che dalla statale 40 portava nel deserto; gli unici rumori erano lo scricchiolio della ghiaia sotto i piedi e il lontano, malinconico ululato di una iena. Il sentiero correva dritto per qualche centinaio di metri, fiancheggiato da massi e di tanto in tanto da flaccidi cactus, poi scendeva in una stretta fenditura e zigzagava bruscamente a destra. Più avanti, a oltre due chilometri di distanza, un ammasso di edifici luccicava al chiaro di luna. Tetti a cupola, muri a intonaco: una manciata di zollette di zucchero. Dinah accelerò il passo.
Erano stati là fuori per tre anni. In precedenza loro quattro avevano operato dal suo appartamento a Tel Aviv. Ma c’erano troppi occhi, troppi rischi che il loro andirivieni attirasse attenzioni non volute, specialmente quando le missioni erano divenute più ardite, la pressione più forte. Si erano spostati in una brutta villetta alla periferia di Be’er Sheva. Poi, per maggiore prudenza, lì fuori.
Negli anni Sessanta il posto, anche se molto fuori mano, era stato un fiorente moshav. Ma l’insediamento era stato abbandonato da tempo, scorpioni e salamandre avevano preso possesso degli edifici e gli orti erano spariti sotto una coltre di polvere e di erbacce. Loro avevano rilevato la concessione, rimesso tutto in ordine, installato pannelli solari per l’elettricità, un sistema satellitare per il telefono e internet. Non sarebbero rimasti lì per sempre. Prima regola in quella faccenda: mai mettere radici, sempre pronti a filarsela all’improvviso. Per il momento, però, si adattava perfettamente alle loro necessità.
Lei aveva pagato per tutto, come faceva sempre. Non aveva detto da dove venissero i soldi e loro non avevano chiesto. Seconda regola: niente domande superflue. Loro quattro erano intimi, una famiglia, ma c’erano ancora parti della sua vita che lei doveva mantenere private. Non conoscevano nemmeno il suo vero nome. Ed era così che tutto sarebbero andato avanti. Il passato era il passato.
Raggiunse il complesso in meno di otto minuti, con uno sprint negli ultimi quattrocento metri. La luce di Tamar era spenta, di sicuro era andata a letto presto. Faz, a giudicare dagli spettrali barlumi grigi che filtravano dalla finestra, era nella sala dei computer, come sempre, ingobbito davanti a uno schermo per pescare alla traina nelle infernali regioni del ciberspazio. Faz era la pecora nera: arabo-israeliano, scontroso, introverso. Era anche un genio della tecnologia, uno dei migliori hacker sulla piazza, perciò il fatto che parlasse poco non aveva importanza. Tutti erano utili alla loro maniera. Faz poteva introdursi illegalmente in un sistema, impiantare un virus, usare una pistola. Era tutto ciò che contava. Alla fine della giornata nessuno di loro si aspettava di fare conversazione.
Si appoggiò al muro, accanto a uno dei fuoristrada, e si massaggiò i polpacci, inspirando aria nei polmoni, poi andò alla sala dei computer e sporse la testa dalla porta. Faz era seduto con la schiena verso di lei, gli occhi incollati allo schermo, un alone di fumo di sigaretta intorno alla testa.
«Qualche novità?»
Faz tese un braccio con il pollice abbassato verso il pavimento, come un antico imperatore romano che decretasse la morte di un gladiatore. Erano allo stesso punto di sei giorni prima, quando la notizia dell’assassinio era trapelata e loro si erano introdotti nel mainframe della polizia israeliana per tenere d’occhio le indagini. Qualsiasi cosa stessero facendo, i testa di cazzo in divisa blu non erano certo più vicini a identificare il colpevole.
«Barren?»
Altro pollice verso.
«Sicuro?»
«Sì.»
Quello era il massimo che avrebbe ottenuto da lui. Gli disse di continuare, tornò indietro, attraversò il cortile e andò nella sua stanza; si spogliò ed entrò nella doccia. Tirata la tenda, aprì i rubinetti e si mise sotto il soffione, senza aspettare che l’acqua si scaldasse, gettando indietro la testa e lasciando che i getti le scorressero sul viso e sul seno. Passò un minuto. Poi a un tratto lei si tese e si girò di scatto, mentre alle sue spalle una figura si stagliava contro la tenda di plastica opaca. D’istinto alzò i pugni per lottare contro lo sconosciuto, ma non appena sentì la voce di Tamar lasciò cadere le braccia.
«Sono solo io. La porta era aperta.»
Dinah tirò di lato la tenda, senza coprirsi. Tamar era in piedi: snella, pelle scura, capelli tagliati corti, ampia T-shirt bianca che le sfiorava le ginocchia.
«Tutto a posto?» chiese gentilmente.
Dinah annuì.
«Sono preoccupata per te.»
«Sto bene.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Rimasero a guardarsi, mentre l’acqua continuava a scorrere sulla testa e sulla schiena di Dinah e schizzava il pavimento piastrellato della stanza da bagno. Poi, sorridendo, Dinah si scostò di lato. Tamar si sfilò la T-shirt dalla testa, mettendo in mostra i piccoli seni sodi e i ciuffi di pelo nero sul pube, ed entrò nella doccia. Le due donne si abbracciarono.
«Li prenderemo, Dinah. Te lo prometto, li prenderemo.»
Dinah non disse niente, si limitò a chiudere con una mano la tenda mentre con l’altra accarezzava i capelli della compagna e la tirava più vicino a sé.
Nessuna delle due notò la telecamera dietro la griglia d’aerazione sopra la doccia. Non l’avrebbero vista neanche se avessero guardato direttamente da quella parte, era nascosta troppo bene. Come tutte le altre telecamere. Chi doveva osservare osservò e nessuno si accorse di nulla.
Egitto, tra Luxor e Qena
Yusuf Khalifà aspirò dalla Cleopatra e scrutò dal finestrino, mentre il treno sferragliava lentamente verso nord. Villaggi di mattoni di fango passavano lentamente, campi di mais e di canna da zucchero, un chiosco di macellaio con appeso un macabro pavese di trippa e teste di pecora. A un certo punto il treno si fermò con uno scossone e Khalifà si trovò a fissare un gruppo di bambini che giocavano su una zattera di fortuna in un canale d’irrigazione. Si sentì irrigidire, lottò contro l’impulso di sporgere la testa e gridare che uscissero dall’acqua. Fece un grande sforzo per trattenersi – ogni volta era la stessa storia – e trasse un sospiro di sollievo quando il treno si rimise in moto e la scena si allontanò. Terminò la sigaretta e sbriciolò sotto il tacco il mozzicone, attento a non disturbare l’uomo anzia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il labirinto di Osiride
  3. PROLOGO
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. EPILOGO
  7. GLOSSARIO
  8. RINGRAZIAMENTI
  9. Copyright