Nuovi Argomenti (46)
eBook - ePub

Nuovi Argomenti (46)

ITALIA ANNI ZERO: 18 racconti sull'inizio del terzo millennio

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Nuovi Argomenti (46)

ITALIA ANNI ZERO: 18 racconti sull'inizio del terzo millennio

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Raffaele La Capria, Dacia Maraini, Vincenzo Pardini, Giorgio van Straten, Mauro Francesco Minervino, Helena Janeczek, Lorenzo Pavolini, Carola Susani, Leonardo Colombati, Flavio Santi, Elisa Davoglio, Mario Desiati, Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Chiara Valerio, Arnaldo Greco, Federica Manzon, Paolo Di Paolo, Paolo Giordano.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Nuovi Argomenti (46) di AA.VV. in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literature e Literary Criticism History & Theory. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852037375

SE NON POTETE CALMARE,
CONSOLATE


LEONARDO COLOMBATI

I
Stavo guardando le gare olimpiche di canottaggio stravaccato sul divano davanti al televisore, alla fine di un lungo ferragosto passato a prelevare con la paletta piccoli vermicelli rossi dalle buche che i miei figli scavavano senza tregua sulla battigia, quando ricevetti una telefonata: il mio amico Dario Tognozzi, compagno d’università nei miei noiosi vent’anni, a quei tempi un ragazzo meticoloso e – immaginavo – del tutto insensibile a piaceri che non fossero collegati direttamente allo studio del diritto (benché un bel giorno mi chiese di fargli da testimone per le sue nozze organizzate in quattro e quattr’otto con una matricola cui tempo addietro lo avevo visto vendere per una cifra irrisoria i suoi ordinatissimi appunti di procedura civile), mi comunicava con una concitazione per lui inusuale che la moglie lo aveva appena lasciato, “almeno temporaneamente, per provare a ritrovare se stessa”.
Mentre Tognozzi ripercorreva la propria vicenda matrimoniale come se stesse redigendo una serie di premesse a cui avrebbe dovuto seguire la formula “si conviene e stipula quanto in appresso” – come nei contratti che con proverbiale perizia preparava per la sua sceltissima clientela: banche, società di assicurazione, aziende municipalizzate – mi domandavo perché avesse scelto proprio me come suo confidente: dalla nostra laurea erano passati quasi quindici anni (lui, centodieci e lode; io, un voto che nemmeno ricordo); quindici anni durante i quali la nostra frequentazione si era sempre più diradata, vuoi perché le nostre carriere avevano iniziato a divergere da quando io, dopo un breve periodo di tirocinio in uno studio legale, capii che quella dell’avvocato non era la professione per me, vuoi perché non avevo mai trovato piacevole la compagnia di sua moglie – l’antica studentessa con gli occhialini tondi e la gola solcata da rughe premature, che Tognozzi troppo prematuramente aveva impalmato: avevano ventitre anni lui e diciannove lei quando si scambiarono gli anelli in una chiesetta all’Aventino in un sabato di maggio carico di pioggia. Nei primi tempi m’invitavano a cena, anche assieme alla mia ragazza di turno. Abitavano in un minuscolo appartamento tra piazza Navona e il Lungotevere, a pochi passi da quell’antico Albergo dell’Orso dove – pare – alloggiarono Dante durante il Giubileo del 1300 e Montaigne quasi tre secoli più tardi. Giovanna – questo il nome della signora Tognozzi – apparecchiava coi piatti di plastica, Dario metteva su un disco di jazz ed entrambi mi guardavano con un sorriso di circostanza e un viso sfinito mentre mi servivo da una grande cuccuma ripiena di pastasciutta e melanzane informandoli sui miei progressi letterari: un racconto che forse sarebbe uscito su rivista, una collaborazione quasi certa con le pagine culturali di un giornale, il progetto di un romanzo che non ero troppo sicuro di saper scrivere…
Passarono due o tre anni, e i Tognozzi si trasferirono in una casa più grande, nel quartiere Prati, a cinque minuti a piedi dallo studio in cui Dario stava facendo rapidamente carriera. Gli inviti a cena si fecero più radi, l’espressione triste di Giovanna aveva guadagnato una nuova durezza, come se volesse segnalarmi tacitamente che il loro raggiunto status aveva scavato un solco tra me e loro, e io mi producevo sempre con maggior imbarazzo nelle mie ruote di pavone da artista da giovane. Finché un giorno riuscii davvero a finire un romanzo – che fu pubblicato con un certo successo – e quasi contemporaneamente ebbi la prima figlia dalla donna che nel frattempo avevo sposato. E la condiscendenza che fino ad allora avevo letto negli occhi di Giovanna si tramutò in un odio mal dissimulato: aveva sbagliato pronostico, ed ero diventato padre, per giunta, mentre lei – come mi confessò Dario una sera – non riusciva a restare incinta.
Quando ricevetti quella telefonata, erano quasi due anni che non sentivo Dario. Mentre mi confidava i suoi sospetti (un tradimento, ovviamente; anche se mi risultava inconcepibile che una donna frigida come Giovanna potesse averne architettato uno) tra i fruscii ventosi tipici delle comunicazioni satellitari, mi ero spostato nell’angusto terrazzino della nostra casa delle vacanze e ricevevo le sue lamentazioni ammirando la laguna di Orbetello al tramonto, dorata e lucida come una lama. Andava avanti così da quindici giorni: tornavo a casa dal mare, rosolato ben bene, prendevo certi taccuini zeppi di appunti, il computer, le sigarette e del succo di pompelmo e mi sedevo al tavolo di plastica che occupava quasi per intero il terrazzino, deciso finalmente a metter mano al mio nuovo romanzo; ma l’enorme sole rosso sangue che un gigante sembrava aver lanciato dalla cima del monte Argentario, le acque immobili della laguna da cui emanava un tremendo puzzo di zolfo, i lontani mulinelli degli allevamenti ittici e la striscia di platino dell’Aurelia su cui sfrecciavano in su e in giù automobili piccole come modellini andavano a comporre un paesaggio così inevitabile e uguale a se stesso che il mio senso del dovere ne risultava, come dire, sedato; come se quella vista, immodificata da un giorno all’altro, alterasse il mio calendario interiore regalandomi l’idea che dal mio arrivo in Toscana non fossero trascorse che poche ore.
L’ispirazione non esiste. Forse è una musa che guida l’opera di artisti, poeti e musicisti, ma senz’altro trascura il romanziere, per cui esistono solo la testardaggine, la fatica e la pazienza. In quelle immobili vacanze estive, stavo volentieri sacrificando l’impegno letterario all’altare della felicità famigliare: mi svegliavo al mattino, facevo giocare i miei bambini, andavo a far la spesa con mia moglie in una fattoria che vendeva prodotti biologici a prezzi da mercato nero, l’aiutavo a preparare i panini, a mezzogiorno scendevo in spiaggia e tra un bagno e l’altro facevo buche nella sabbia, costruivo imponenti fortificazioni che l’ultima onda del mare si mangiava prima che fossero finite; poi riprendevo la strada di casa, coi figli cotti dal sole e addormentati sui sedili posteriori dell’auto, andavo sul terrazzino coi miei strumenti di lavoro – fiducioso nella “volta buona” – e immancabilmente, dopo aver guardato per qualche minuto sempre quell’identico panorama, mi buttavo sul divano e seguivo con un occhio solo le prodezze di certe giavellottiste ucraine, di pugili delle Antille, di pallanuotisti boemi, sprofondando in un sonno appagante. Al diavolo la letteratura! Il mio dovere era quello di godermi le vacanze.
Eppure qualcosa mi rodeva: c’era un libro da finire, un contratto da rispettare, un anticipo da onorare. Così quando Tognozzi volle accertarsi timidamente se i giorni seguenti li avrei trascorsi in villeggiatura, nell’assurda speranza di trovare in me un altro povero cristo affogato nel deserto della Roma agostana, senza pensarci troppo gli diedi qualche speranza: sicuramente sarei rientrato in città quella domenica (tempo, quindi, due giorni) perché dovevo partecipare come ospite a una trasmissione radiofonica; ma forse sarei partito addirittura con un giorno di anticipo perché avevo delle faccende da sbrigare. “Decido domani mattina”, gli dissi. E Tognozzi, esultante e grato – e subito, mi sembrò, dispiaciuto per quella sua esultanza e gratitudine – mi pregò di farmi vivo appena possibile, perché “devo dirti delle cose che al telefono proprio non riesco…”
Era vero che sarei dovuto andare negli studi della Rai quella domenica per partecipare a una diretta radiofonica; ma non avevo alcun impegno a Roma per sabato. L’idea di passare due interi giorni in quasi perfetta solitudine mi piacque, comunque: avrei potuto finalmente scrivere in santa pace; per poco, sì, ma forse tanto quanto sarebbe bastato per riaccendere il motore. La storia di Tognozzi, poi, m’incuriosiva; per di più iniziavo ad assaporare sadicamente l’attimo in cui avrei visto scendere qualche lacrima da quei suoi occhietti nascosti nel grasso. E più di tutto mi allettava lo spettacolo di una Roma nuda, solitaria e liquefatta da godere privatamente: era come tornare nella mia città di nascosto.
Fu così che alle otto del mattino seguente salutai moglie e bambini e mi lanciai felice sulla statale, incontro ai miei due giorni di vacanza da tutto. Durante il tragitto fui più volte sul punto di chiamare Tognozzi e avvertirlo del mio arrivo. Ma – chissà perché – non lo feci. C’era tempo, comunque.
II
Alle nove e mezzo ero già arrivato a casa. Per prima cosa avevo aperto la portafinestra che dava sul terrazzino che da solo giustificava almeno la metà dell’affitto che corrispondevo ormai da cinque anni a una nobildonna toscana alla quale una volta avevo chiesto quanto antica, precisamente, fosse la sua famiglia. “Tutte le famiglie sono antiche”, mi aveva risposto. “La mia ha solo avuto da sempre il pallino di metter tutto per iscritto”.
Per un’ora provai a finire una scena dalla quale con ostinazione continuavo a non voler togliere un oscuro personaggio con indosso un cappello frigio. C’era stato un tempo in cui mi sentivo uno scrittore. Questo avveniva durante la stesura del mio primo romanzo, e fino a un anno dopo la sua pubblicazione. Poi, non più. Scrivere, peraltro, non mi dava più alcuna gioia. Avevo continuato a farlo, per un po’, provando a godere della sofferenza che ne derivava. Poi avevo smesso – quasi del tutto. Cosa era successo? Avevo visto il mostro troppo da vicino e mi ero spaventato? Avevo semplicemente perso il talento o forse avevo capito di non averlo mai avuto?
Quando, troppo prima dell’ora di pranzo, chiusi il computer e mi resi conto che davanti a me ci sarebbero stati due giorni senza nulla da fare, prima di addormentarmi accesi il televisore e provai ad appassionarmi a una gara di tiro al piattello. Mi risvegliai che era da poco passato mezzogiorno. Non feci in tempo a rendermi conto che in casa non c’era nulla di commestibile per il pranzo che il cellulare squillò:
“Pronto?”, disse una voce che riconobbi subito.
“Dario?”
“Ciao, come stai?”
“Sono appena arrivato a Roma…”
“Sì, lo so. Sono sotto casa tua. Ho visto le finestre aperte…”
Lo invitai a salire.
Come ci salutavamo? Con un abbraccio o, più formalmente, con una stretta di mano? Non lo ricordavo – era passato del tempo dall’ultima volta – ma un abbraccio, no, non mi andava di darglielo, e la stretta di mano era troppo formale. Finì che quando aprii la porta gli feci cenno di entrare senza sfiorarlo.
“Ti trovo ingrassato”, disse con un sorriso compiaciuto. Evidentemente gli faceva piacere che avessi quasi raggiunto il suo tonnellaggio.
“A proposito”, feci. “Hai già mangiato?”.
Mi rispose di no, mentre avanzava cauto nel soggiorno. Notai subito che rimase impressionato dai volumi che coprivano tutte le pareti della stanza. Il buon Tognozzi non era certo quello che si chiama un lettore forte: dopo cena, a volte, sfogliava qualche libro di cui si parlava molto. Non credo abbia mai letto qualcuno dei miei. Eppure, lì, buttato su un divano, mentre si asciugava il sudore con il dorso della mano e asciugava la mano strofinandola discretamente sulla tappezzeria, iniziò a chiedermi dei miei successi letterari, facendo attenzione a snocciolare correttamente qualche titolo. Capii che aveva studiato prima d’incontrarmi, e la cosa mi mise di cattivo umore.
“Allora, dove andiamo?”, disse quasi subito. “I ristoranti sono tutti chiusi”.
“Ne conosco uno aperto”, dissi mentre lo scortavo il più in fretta possibile verso l’uscita. Dopo cinque minuti – cinque minuti di relativo silenzio – eravamo seduti a un tavolino sotto una fila di platani agonizzanti. Ordinammo un mezzo bianco e una caprese e finalmente entrammo nel vivo del discorso: Giovanna – mi spiegò Tognozzi – era partita per la Sardegna, dove i genitori avevano una casa in riva al mare. “Mi ha detto solo che si farà viva lei”.
“Ma, scusa, perché vieni a raccontare certe cose proprio a me? È una vita che non ci sentiamo, e poi, lo sai, Giovanna non mi è mai stata simpatica”.
“No che non lo sapevo. Anzi, ho sempre pensato che voi due siete simili”.
“Ah sì?”
“Be’, insomma… Come te, Giovanna è sempre stata un po’ anticonformista”.
“Per via della sua bigiotteria etnica?”
“Adesso sei cattivo”.
“Te l’ho detto che non sono la persona adatta”.
“Negli ultimi tempi s’è anche messa a scrivere. Poesie, credo. Voleva chiamarti, a un certo punto, per avere un giudizio…”
Il cestino del pane era vuoto. Se l’era mangiato tutto Tognozzi, che era già al terzo bicchiere di vino. Potrei dire che mi faceva pena; ma forse era solo la disabitudine a vederlo scamiciato: senza il blazer e quegli orrendi nodi di cravatta sembrava quasi una persona normale. Ordinò un piatto di rigatoni al ragù bianco – io un petto di tacchino alla siciliana – e continuò nel suo tentativo di convincermi che sua moglie ed io avevano molte cose in comune. A un certo punto, dopo avere chiesto un’altra caraffa di Vermentino, la buttò in politica: “La pensa come te”.
“Be’, in questo momento è difficile pensarla diversamente”, dissi, ben sapendo da quale parte battesse il cuore del mio ex compagno d’università. Un cuore che proprio in quel frangente (ma non oso pensare che sia stata colpa mia) iniziò a giocargli un brutto scherzo; o almeno così sembrava, perché dopo l’ultimo rigatone Tognozzi si portò una mano dove davvero gli batteva il cuore e iniziò a lamentarsi che gli formicolava il braccio sinistro. Sudava molto, le occhiaie e il mento gli erano diventati rosso sangue.
“È solo il caldo”, diceva. Ma non sembrava troppo convinto.
III
Insistetti per accompagnarlo all’ospedale. “Ti fai fare qualche accertamento, un elettrocardiogramma… Roba di dieci minuti e non ci pensi più”. Dopo qualche resistenza, Tognozzi accettò e partimmo alla volta del San Giacomo. In macchina, mentre lui mi parlava della moglie (non ricordo nulla di ciò che mi disse), io mi interrogavo sul perché gli avessi dato una spalla su cui piangere, perché mi preoccupassi per la sua salute, perché stessi perdendo tempo con lui. E mi sembrò di capire che stavo facendo tutto quello per il solo motivo che mi entusiasmava vederlo a terra; addirittura, una parte di me sperava che i medici gli trovassero qualcosa, certo niente di grave, ma qualcosa sì: una sorta di piccola ricompensa per l’odio che provavo per lui sin da quando un giorno di tanti anni prima, mentre assieme ad un’altra quindicina di fuori corso occupavamo la facoltà di giurisprudenza suonando a tutto volume dei rap di un gruppo napoletano dalle casse di uno stereo portatile, arrivò Tognozzi in giacca e cravatta, con sottobraccio quella sua tristissima cartellina in pelle, e mi rivolse uno sguardo pieno di commiserazione e un sorriso falso, dicendomi più o meno: “Certo che non hai proprio un cazzo da fare”, prima di scomparire dietro la porta metallica del dipartimento di filosofia del diritto, dove di sicuro andava a portare la sua solidarietà a una cricca di ricercatori più tristi di lui.
Arrivammo davanti all’ingresso dell’ospedale, dove era inciso “SE POTETE GUARIRE, GUARITE; SE NON POTETE GUARIRE, CALMATE; SE NON POTETE CALMARE, CONSOLATE”, ci ritrovammo in un cortiletto al centro del quale era un busto di Pio IX, coperto da tazebao di protesta contro l’imminente chiusura: dopo sette secoli, il San Giacomo avrebbe smesso di funzionare per sempre di lì a tre mesi, lasciando per strada seicento tra medici e infermieri. Sulla sinistra, la porta a vetri da cui si accedeva al pronto soccorso. Entrammo; un’infermiera dietro un bancone ascoltò la mia veloce anamnesi (parlai io – Tognozzi era paralizzato dal terrore) e ci assegnò un codice giallo.
“Cosa vuole dire?”, mi chiese Tognozzi mentre ci sedevamo su una pancaccia di legno.
“Che passi davanti ai codici bianchi, verdi e blu”.
“C’è solo il rosso di peggio”, mormorò appena.
“Ma se non ti hanno ancora visitato! Cosa vuoi che facciano quando arriva uno che dice che ha dolori al petto e a un braccio? È ovvio che cerchino di controllarti prima di un bambino che s’è sbucciato un ginocchio, no?”
Non c’era alcun bambino nella sala d’attesa. Eravamo solo noi due, un vecchio con un enorme cerotto sulla fronte e due donne senza alcun segno visibile dei loro guai. Tognozzi fu chiamato per primo, dopo cinque minuti, e venne scortato per un lungo corridoio da un nano in càmice e zoccoli di gomma. I due scomparvero nel buio mentre dicevo: “Ti aspetto qui”.
Venti minuti più tardi, eccolo di ritorno. Sembrava sollevato: “Dicono che probabilmente non ho niente. L’elettrocardiogramma non ha mostrato nulla…”.
“Bene.”
“...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (46)
  3. AL LETTORE
  4. ITALIA ANNI ZERO
  5. RAFFAELE LA CAPRIA - FEBBRE
  6. DACIA MARAINI - UNA SUORA SICILIANA
  7. VINCENZO PARDINI - LA MORTE DELL’ORSO
  8. GIORGIO VAN STRATEN - UN RACCONTO MORALE
  9. MAURO FRANCESCO MINERVINO - IL TELEFONINO NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA
  10. HELENA JANECZEK - NATALE CON BAMBINO
  11. LORENZO PAVOLINI - LA DISCESA
  12. CAROLA SUSANI - LO SCIAME
  13. LEONARDO COLOMBATI - SE NON POTETE CALMARE, CONSOLATE
  14. FLAVIO SANTI - IL GIORNO PIÙ BELLO DELLA STORIA
  15. ELISA DAVOGLIO - L’ANNO DEL BUFALO
  16. MARIO DESIATI - SCHENGEN
  17. GIANCARLO LIVIANO D’ARCANGELO - OBAMA CLUB
  18. CHIARA VALERIO - PECHINORAMA
  19. ARNALDO GRECO - LA BALENA GIALLA
  20. FEDERICA MANZON - POKER PER MILIARDARI
  21. PAOLO DI PAOLO - L’AMORE NELL’ANNO ZERO
  22. PAOLO GIORDANO - VITTO IN THE BOX
  23. NOTIZIE BIOGRAFICHE
  24. Copyright