Un libro come questo è costretto a camminare su un sentiero stretto fra sabbie mobili terminologiche. Il problema è triplice. Primo: molti dei nomi con cui i lettori hanno familiarità sono imprecisi e, a volte, suonano offensivi. Secondo: persone diverse percepiscono le cose in modo diverso, per cui un termine, che può essere esatto da un certo punto di vista, può risultare estremamente impreciso da un altro. Terzo: le parole possono essere usate in modo diverso oggi e nel passato, per cui si può adoperare un termine appropriatamente (ossia così come esso era usato dalle persone che parlavano in un certo tempo e in un certo luogo) e tuttavia trasmettere un concetto completamente errato.
Prendiamo la parola «asiatico». In Paesi come gli Stati Uniti è sinonimo di «orientale», aggettivo che viene considerato eurocentrico. In altre parti del mondo, invece, la parola «orientale» e i suoi equivalenti suonano neutri. Poiché «asiatico» è un termine comune in qualsiasi lingua, a prima vista non dovrebbero esserci problemi a tradurlo. Ma è proprio vero? Il fatto è che, benché il dizionario definisca «asiatico» come «relativo a, o caratteristico del continente Asia» – cioè di tutta l’area compresa tra Israele e la Siberia – in pratica la parola si riferisce generalmente a gruppi specifici. Negli Stati Uniti essa di solito indica l’Asia orientale e sudorientale (la Cina, il Giappone, il Vietnam, per esempio), mentre in Gran Bretagna indica soprattutto l’Asia meridionale (l’India e il Pakistan, in particolare).
Questa, comunque, è una distinzione abbastanza semplice in confronto ad altre. Consideriamo il Parián, il grande ghetto cinese di Manila, che ebbe un ruolo così importante nel commercio dell’argento. Nei documenti spagnoli i suoi abitanti sono di norma definiti chinos e sangleys. Il secondo termine è, a dir poco, scortese: in realtà è offensivo quanto chiamare «crauti» i tedeschi e «rane» i francesi. Chino, invece, significa «persona cinese». Non è particolarmente spregiativo, ma non è neppure molto preciso: parecchi residenti del Parián non erano originari della Cina. A Manila, in realtà, l’aggettivo significava qualcosa come «persone dell’Asia che non sono originarie delle Filippine». (Poiché gli spagnoli distinguevano spesso i giapponesi dalle altre popolazioni asiatiche, sarebbe più esatto dire che il termine significava pressappoco «persone dell’Asia che non sono né delle Filippine né del Giappone».) Naturalmente gli abitanti del Parián non si definivano in questo modo. Moltissimi provenivano dal Fujian, e i fujianesi dicevano di essere hakka o min: per loro la parola «cinese» si applicava principalmente agli han, il gruppo etnico dominante.
La faccenda si complica ancora di più, se si considera che gli spagnoli usavano la parola chino con un significato diverso in luoghi diversi. In Messico i governanti della Nuova Spagna consideravano chino chiunque avesse fattezze «asiatiche», compresi i filippini. E così una parola spagnola, che in un luogo veniva usata per distinguere i filippini da altri asiatici, in un altro veniva usata per indicarli. Ma c’è di peggio: nell’America spagnola chino perse ben presto ogni nesso con la Cina e persino con l’Asia. Curiosamente, alcuni dei discendenti di sangue misto degli indiani finirono per essere chiamati chinos. Un personaggio femminile molto popolare nel folclore di Puebla in Messico è la china poblana: audace e provocante, è una donna vestita con una camicetta bianca, una gonna a motivi fantasia dai colori vivaci e uno scialle. Ai visitatori di Puebla si racconta che questa figura ha come modello Catarina de San Juan, la schiava moghul pia e visionaria di cui ho parlato nel capitolo VIII. La veste, si dice, è ispirata al suo sari. Ma le musulmane come Catarina non indossavano il sari: la pratica della purdah (il velo) stava diventando comune ed esse usavano abiti che le nascondevano dagli sguardi maschili. Sappiamo inoltre che a Puebla Catarina vestiva di nero ed era tutt’altro che provocante. L’abito della poblana, dicono i ricercatori, è semplicemente un adattamento dell’abbigliamento femminile indiano.
Problemi analoghi riguardano il termine «europeo». L’idea dell’Europa come entità geografica esiste da molto tempo; non così l’idea che questa entità territoriale sia popolata da persone con tali e tanti elementi comuni da poter essere definite un unico gruppo. Secondo l’Oxford English Dictionary, il primo uso inglese del termine per indicare «un abitante dell’Europa» fu riscontrato nel 1639. Ma quasi sempre nei secoli presi in esame in questo libro i popoli della riva orientale dell’Atlantico si definivano in base alla nazionalità: inglesi, francesi, olandesi e così via. I popoli della Penisola iberica, che hanno un ruolo tanto importante in questo volume, spesso si identificavano in base alla regione d’origine: estremadurani, baschi, castigliani, catalani e così via. Se dovevano usare un nome collettivo, si dicevano «cristiani», perché l’Europa faceva parte della cristianità. (Quando ho cominciato a scrivere questo libro, ho tentato di usare il termine «cristiano» in questo senso. Poi ho chiesto a un amico di leggere le prime pagine, e lui mi ha domandato perché coinvolgevo la religione in una storia che parlava di commercio. Stavo forse scrivendo un libello filocristiano o anticristiano?)
I popoli dell’Africa, dell’America e dell’Asia impararono presto che gli spagnoli, i portoghesi, gli olandesi e gli inglesi erano diversi. E tuttavia li consideravano membri di un unico gruppo: persone che venivano da un altro continente e volevano comandare. In Cina gli europei erano spesso considerati un tutt’uno e indicati, spregiativamente, come gweilo o laowai: termini che conservano ancora una connotazione negativa.
Di fronte a tanta inestricabile complessità non sono riuscito a trovare un modo coerente di usare una terminologia storicamente accurata. E perciò ho definito «spagnolo» il conquistatore delle Filippine, Miguel López de Legazpi, benché fosse basco, guidasse una spedizione composta principalmente da baschi e presumibilmente parlasse euskara in famiglia. Nei casi in cui l’origine regionale diventava importante, come nella parte dedicata alla guerra tra baschi e vicuñas a Potosí, ho usato termini geografici più locali. È una scelta che sfiora l’anacronismo, benché abbia cercato di evitarlo. Per esempio, siccome il Regno Unito di Gran Bretagna non esisteva prima che Inghilterra e Scozia si fondessero nel 1707, non ricorro mai al termine «britannico» per indicarne gli abitanti prima di tale data. Né, per evitare possibili confusioni, chiamo britannici coloro che provenivano dall’Irlanda, benché formalmente l’isola facesse parte del Regno Unito fra il 1800 e il 1921. Sono però certo di avere commesso degli errori, e perciò invito i lettori che li individuassero a contattarmi all’indirizzo www.charlesmann.org.
Nonostante tutti questi problemi, il metodo scelto ha il pregio di permettermi di evitare un altro tema scabroso: la razza. Oggi la razza rientra in qualsiasi discussione delle interazioni fra le persone di discendenza europea, africana, asiatica o indiana. Ma all’alba della globalizzazione i concetti moderni di razza non esistevano. Al tempo in cui gli abitanti della Penisola iberica combattevano contro gli imperi islamici africani di regola non uccidevano o facevano schiavi i «neri», ma uccidevano o facevano schiavi i «mori», gli «infedeli», gli «idolatri». All’inizio la schiavitù aveva scarse connotazioni razziali: la questione che preoccupava gli spagnoli non era se si potessero asservire i «neri» o i «rossi», ma se si potessero assoggettare i cristiani; per i pagani, gli eretici e i criminali di ogni colore non esistevano divieti.
Il termine negro, usato dai portoghesi per indicare i «neri», non entrò nell’uso comune fin verso il 1450, quando le navi del Portogallo arrivarono in quello che oggi è il Senegal e lo chiamarono terra dos negros. Benché la parola si riferisse al colore della pelle, aveva soprattutto una connotazione etnica, simile a «irlandese» o «malese». Qualcosa di analogo è ang mo, che in fujianese significa «testa rossa» e indicava gli olandesi, benché la maggior parte di loro non avesse i capelli rossi. In seguito, invece, negro divenne sinonimo di «schiavo» e in tal senso veniva usato dagli stessi africani. Come hanno osservato gli storici Linda M. Heywood e John K. Thornton, gli abitanti dell’Africa centrale insistevano perché i visitatori europei usassero la parola portoghese negro per indicare gli schiavi e la parola portoghese preto per gli africani liberi.1
Fin dal principio gli europei dissero cose terribili sui «neri», ma il disprezzo non era così monolitico come spesso si è detto ed è difficile distinguerlo dal comune etnocentrismo che pare essere una caratteristica inestirpabile della condizione umana. E soprattutto, i giudizi negativi non erano razziali nel senso moderno del termine: non facevano riferimento cioè all’ereditarietà genetica. Gli europei criticavano il comportamento africano, non la discendenza razziale africana: gli africani erano cattivi perché «promiscui», «ladri» o seguaci di «culti demoniaci», non perché erano inferiori sul piano fisico o intellettuale. (Sto semplificando eccessivamente: gli europei credevano anche che i genitori dediti a pratiche religiose malvagie trasmettessero una terribile macchia morale ai figli, i quali sarebbero cresciuti fisicamente e mentalmente inferiori. Ma questa è pur sempre una cosa diversa dal concetto moderno di razza.)
Le razze, nel senso attuale di modelli genetici ereditari associati all’origine geografica, esistono sicuramente, anche se identificare quali geni rendano qualcuno «africano» o «caucasico» è un’impresa ardua. Gli uomini e le donne che hanno una carnagione molto scura e il naso camuso, ma non hanno i capelli crespi, sono «neri»? E se hanno il naso aquilino e i capelli lisci ma la carnagione scura, sono «bianchi»? Le complicazioni sono infinite e nessuno si è mai neppure avvicinato a una soluzione. Oltretutto non sono pertinenti: questo tipo di descrizione scientifica non è ciò che avevano in mente i teorici del Sette-Ottocento, quando elaborarono il concetto di razza «bianca», «gialla», «rossa» e «nera». Le due definizioni di razza, genetica e sociale, sono solo vagamente connesse, ed è una delle ragioni per cui i discorsi sulla razza sono spesso discorsi fra sordi. Per evitare qualsiasi confusione, ho sempre indicato le persone in base alla provenienza geografica, parlando di africani, europei, asiatici e così via, tranne in alcuni casi per scopi retorici.
Ho fatto una sola, grande eccezione a questa regola. Gli indigeni, in questo libro, sono di solito indicati con il loro nome etnico, non con un’etichetta geografica. Nel contesto culturale attuale mi è sembrato accettabile riferirmi agli abitanti di Yuegang come a cinesi, anche se non è così che si sarebbero definiti, mentre mi sarebbe parso folle chiamare «peruviani» gli inca: il divario fra l’impero inca e il Perú moderno è troppo grande. Ho introdotto delle eccezioni alla mia eccezione. Nel capitolo IX, per esempio, parlo di «angolani» a Palmares, perché non è chiaro a quale gruppo etnico della regione corrispondente ora all’Angola essi appartenessero. Un’eccezione ancora maggiore, come avrà sicuramente notato il lettore, è l’uso del termine «indiano». La critica più semplice è che è un uso sbagliato: tra l’altro, gli indiani non vengono dall’India. (Il termine «pellerossa», usato talvolta in Europa, non è preferibile come modo per distinguere gli indiani delle Americhe dagli indiani dell’India.) Purtroppo le alternative non sono migliori. La definizione «nativo americano», per esempio, significa letteralmente qualcuno nato nell’emisfero occidentale. La mia famiglia e io siamo nati in America, e tuttavia non siamo indiani. Il Canada ha introdotto l’espressione «prime nazioni», una definizione ammirevole ma priva di aggettivi e di possessivi fruibili. Come scrittore, sono riluttante a imporre ai lettori termini che non riesco facilmente a usare.
A un livello più profondo, i termini «indiano», «nativo americano» e «indigeno» sono molto lontani dal modo in cui gli abitanti originari delle Americhe si pensavano. Come gli europei del Cinque-Seicento non si definivano «europei», così gli abitanti dell’emisfero occidentale in quello stesso periodo non si consideravano un’entità collettiva. Oggi questi nomi collettivi sono importanti. Da quanto ho potuto constatare, gli indigeni americani tendono a usare il termine «indiano» quando si riferiscono ai loro simili. Nel bene e nel male, seguo il loro esempio.
Perché il centro del commercio dell’argento diventò il Fujian e non qualche altro luogo della Cina? Una risposta potrebbe essere: perché era la regione cinese con la maggiore esperienza di scambi transoceanici. La favolosa Zaitun (l’odierna Quanzhou), una baia più a nord di Yuegang, era il luogo da cui partiva la via marittima orientale della seta.
Metropoli scintillante e congestionata, Zaitun occupava una posizione strategica in quello che si potrebbe definire un primo passo verso la globalizzazione, un sistema di scambi attraverso l’Eurasia che raggiunse il suo apogeo nel XIV secolo. Esistevano una via commerciale di terra, che attraversava la Cina occidentale, il Medio Oriente e il Mar Nero prima di raggiungere, attraverso una serie di intermediari, il Mediterraneo, e una via d’acqua, che toccava l’Indocina e l’India prima di arrivare fino al Mar Rosso e finire anch’essa nel Mediterraneo. La via terrestre fu quella più battuta finché non cominciò la disgregazione violenta dell’impero mongolo; a quel punto la via marittima divenne più sicura. Dai moli di Zaitun salpavano giunche cinesi che sprofondavano nell’acqua sotto il peso di casse di seta e di porcellana, e approdavano altre giunche cinesi cariche, annotava impressionato Marco Polo, di grandi assortimenti di gioielli e perle, dalla cui vendita si ricavavano enormi guadagni. Le sue descrizioni dei commerci del Fujian ruotano ossessivamente intorno ai beni di lusso asiatici – pietre preziose, seta, porcellana, spezie – che affascinavano gli europei. In realtà i mercanti fujianesi ricavavano la maggior parte dei loro introiti da merci che a Polo sarebbero apparse banali, quali carichi di rame e di ferro grezzi, molto richiesti dai templi di tutto il Sudest asiatico per la fabbricazione degli oggetti rituali. Zaitun, insomma, era un emporio, non una boutique.
La città era circondata da mura alte sei metri, rivestite di mattoni e piastrelle smaltate. Fuori dalle mura la ricchezza prodotta dai commerci serviva a finanziare grandi progetti, dalla bonifica delle paludi alla rete di canali irrigui, alle opere idrauliche per impedire che il fiume Jin colmasse di sedimenti il porto. All’interno delle mura, all’ombra degli alberi di corallo indiano (Erythrina variegata), camminavano uomini e donne di tutte le etnie: malesi, persiani, indiani, vietnamiti e persino qualche europeo. Ogni gruppo aveva il proprio quartiere. Svettanti verso il cielo oscurato dai fumi del carbone, c’erano sette grandi moschee, tre grandi chiese (ortodossa orientale e nestoriana), una cattedrale (cattolica romana) e innumerevoli istituzioni buddiste. In un solo monastero, disse un visitatore, c’erano tremila monaci. Il viaggiatore marocchino Ibn Battuta, che arrivò a Zaitun negli anni Quaranta del Trecento, osservò stupefatto le enormi giunche che gremivano il porto, intorno alle quali si muoveva uno sciame di piccole imbarcazioni piene di gente che comprava e vendeva, così numerose che non si riusciva a contarle. Il porto gli parve uno dei più grandi del mondo, anzi il più grande. Ibn Battuta non esagerava per rendere più affascinante il racconto: Zaitun, con le diverse centinaia di migliaia di persone che affollavano il suo litorale protetto alle spalle dalle alture, era una delle città più ricche e popolose del mondo. Nessuna meraviglia dunque che la narrazione di Marco Polo accendesse in tanti, fra cui Cristoforo Colombo, il desiderio di raggiungerla.1
Negli anni Settanta del Duecento, quando la dinastia Song fu sconfitta dai mongoli, gli ultimi focolai di resistenza si ebbero nel Fujian, dove un movimento di opposizione incoronò imperatore un principe Song. I mongoli non tardarono ad andare all’attacco con un grande esercito, e il principe si rifugiò a Zaitun con la sua corte e le sue truppe. Un potente mercante arabo di nome Pu Shougeng era stato a lungo soprintendente delle navi da trasporto, il che lo aveva posto a capo sia dell’esercito sia della marina locali. Il principe Song gli chiese il controllo delle centinaia di imbarcazioni appartenenti alla città: avrebbe così avuto subito una potenza navale con cui minacciare i mongoli, che non possedevano una flotta.
Un generale mongolo inviò i propri emissari da Pu per chiedergli di non sostenere l’imperatore Song. Dopo avere consultato i sapienti locali, i grandi proprietari terrieri e le famiglie dei mercanti stranieri, nel 1276 Pu offrì la città e tutte le sue navi alla nuova dinastia. E suggellò il patto con l’assassinio della famiglia del principe, che risiedeva a Zaitun. Le truppe Song, che erano accampate fuori dalle mura, assediarono con furia la città per tre mesi per poi fuggire all’avvicinarsi dei mongoli.2
I mongoli, che inaugurarono la dinastia Yuan, ricompensarono lautamente i cospiratori, concedendo di fatto il controllo del porto a Pu e alle famiglie mercantili musulmane con cui era alleato.* La minoranza musulmana di Zaitun divenne così potente che alcuni fujianesi si convertirono all’islam per potersi registrare come stranieri e godere dei relativi privilegi. Con il tempo, gran parte degli incarichi governativi di tutto il Fujian finirono in mano a cinesi convertiti.
Com’è facile prevedere, l’islam praticato dai neoadepti era molto lontano dalla fede pura della Penisola araba. Invece di compiere il pellegrinaggio alla lontana Mecca, i credenti fujianesi si re...