La nostra guerra non è mai finita
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La nostra guerra non è mai finita

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  1. 240 pagine
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La nostra guerra non è mai finita

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"Un corpo irriconoscibile abbandonato come un cane nelle campagne della Locride. L'interminabile, soffocante stagione dei sequestri di persona. E poi, nella nostra carne, le fiamme che divorano il mobilificio di nonno Ciccio, l'omicidio di mio padre. E nessun colpevole. Perché continuare a vivere in una terra che ripagava il nostro amore incondizionato con tanta spietata ferocia? Andarsene via, ovunque, purché lontano da Bovalino, fuori da quei confini diventati così angusti. Approdare in una città accogliente come Modena, nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità. Nascondendo a tutti, persino a me stesso, la rabbia e la sofferenza.
E così ho fatto per tanto tempo, fino a quando, ormai ventenne, ho chiesto in lacrime a mia madre di guidarmi nel doloroso esercizio della memoria. Ho voluto sapere tutto di quella sera del 23 ottobre 1989, di quei colpi di lupara sparati contro la Panda rossa di mio padre. Dopo, per me è stato l'inizio di una nuova vita. Senza più vergogna, senza più sentirmi addosso gli sguardi di commiserazione della gente. Ma ricordare e raccontare sono atti troppo rivoluzionari, troppo scomodi per chi ha costruito il proprio impero sulla menzogna e sull'omertà.
Intanto la 'ndrangheta aveva viaggiato più veloce di noi ed era già lì, nell'Emilia terra della Resistenza, a conquistarsi sul campo il predominio della criminalità organizzata e pronta a zittire le mie inchieste giornalistiche. Dopo avermi rubato l'infanzia, voleva portarmi via anche il presente, la libertà e - adesso lo so - la vita. Ma la voce delle vittime innocenti che non hanno avuto giustizia è troppo forte dentro di me per rinunciare. Ho cercato di recuperare il tempo che è passato invano, inghiottito dal silenzio. Ho riavvolto il nastro dei ricordi, ho ripercorso trent'anni di storia della mia famiglia e della 'ndrangheta moderna. Per scrivere di una guerra lunga tre generazioni, e mai finita."

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852036828

V

I nuovi sovrani

Di miliardi, le ’ndrine ne hanno incassati parecchi con i sequestri. Alcune – tra Milano, Torino, Bologna e Genova – si sono già da tempo tuffate nel traffico della droga e nell’edilizia, acquistando camion per il movimento terra. L’attenzione mediatica e investigativa concentrata sull’Aspromonte ha fatto comodo a tanti. Forse rientrava in una sottile strategia.
Altri hanno investito nell’immobiliare, al Nord e al Sud. C’è un quartiere, a Bovalino, chiamato sottovoce «Paul Getty», come il nipote del ricchissimo petroliere americano rapito negli anni Settanta dalla ’ndrangheta. Al nonno, i criminali hanno estorto svariati miliardi, dopo averlo convinto spedendogli a casa in una busta l’orecchio mozzato del giovane. Con quei soldi avrebbero costruito un intero isolato di palazzine a fungo, con la base più piccola rispetto ai piani superiori. Ci passo ancora, quando sono a Bovalino, e ricordo che da piccolo mi facevano paura: impedivano di vedere il mare, sembrava che, così alte e strette, dovessero crollare da un momento all’altro. Edilizia fatta con i soldi di un sequestro, che a guardarla fa rabbrividire. Provoca disgusto. Invece, molti miei concittadini non ci fanno più caso. Palazzi come gli altri. Funghi in cemento ne sono stati costruiti a iosa negli anni dei sequestri. In spregio alle norme antisismiche e al dolore con cui era impastato quel cemento.
Mentre a Bovalino scorreva questo fiume di soldi sporchi, la Fonti Cucine, dopo l’incendio, la morte di Ciccio e l’assassinio di mio padre, provò a continuare l’attività con il lavoro onesto dei sopravvissuti, ma l’impresa si rivelò impossibile.
La Bnl fu la prima banca a revocare i finanziamenti, chiedendo anche il rientro immediato delle posizioni debitorie dell’azienda nei suoi confronti, seguita a ruota da tutti gli altri istituti di credito. I liquidi disponibili bastavano solo a pagare gli ultimi stipendi e le indennità di licenziamento degli operai. Nel luglio 1991 nonna Amelia e i suoi figli decisero di dichiarare fallimento.
Io percepivo il nervosismo di quei giorni concitati, ma non lo mettevo in relazione alla fabbrica. Pensavo a mio padre, a quanto mi mancava, poi scacciavo quei pensieri. La nostra casa era grande, e io riuscivo a ritagliarmi lo spazio per rimanere solo. E poi c’era il mare, dove mi aspettava Giuseppe; avremmo montato le canne da pesca, sistemato le esche e provato a disturbare i pesci. Lui era bravissimo a pescare, io una schiappa completa.
Quando la nonna e zia Bibi andarono a depositare i libri contabili in tribunale, era già stato deciso in quale città ci saremmo trasferiti. Per ricominciare. Cercavo di immaginare come sarebbe stata la mia nuova vita, in una città vera, dove magari avrei potuto far parte di una squadra di basket, come avevo sempre sognato. Fremevo di eccitazione e di paura. Lo dissi a Giuseppe, fra un tentativo di pescata e una pescata vera, e restammo in silenzio. Nessuno dei due aveva il coraggio di esprimere la pena del distacco. Un’altra ferita per entrambi. Necessaria, ma non per questo meno dolorosa.
In quegli anni, a Bovalino il potere era nelle mani salde del capobastone Sebastiano Romeo, «Bastiano u Staccu». Un’autorità. Accanto a lui Antonio Pelle, «Gambazza». Entrambi esponenti della Società ’ndranghetista di San Luca, che aveva colonizzato la vicina costa, quella che un tempo era conosciuta come la Perla dello Ionio e ora era vittima delle peggiori angherie mafiose. Sequestri, morti ammazzati, incendi. Violenza causata dall’avidità di potere. Che non incontrò mai una particolare resistenza civile. Anzi, diventò facile e sbrigativo strumento per aprire le porte e fare spazio alla connivenza incivile. I diciotto sequestri di persona sono un tragico record che i bovalinesi hanno dovuto ingoiare come un boccone avvelenato di morfina. Ferocia usata per anestetizzare le coscienze.
Il «sacco di Bovalino» cominciò così, come se nulla fosse, come se i marciapiedi lastricati del sangue degli innocenti fossero incidenti non ripetibili, come se le fabbriche e i negozi dati alle fiamme fossero aspetti del folklore quotidiano. La notte del 9 settembre 1990, quando ammazzarono tra la folla il brigadiere Antonio Marino, ferendo la moglie e il figlio, mia mamma scoppiò in lacrime. Il 13 luglio era toccato a Raffaella Scordo, massacrata a colpi di martello perché aveva resistito a un tentativo di sequestro. Eravamo prigionieri in una stretta di orrore che paralizzava e costringeva paesi interi a convivere con la disumanità. Paura e rabbia. Rassegnazione e sguardo basso. Sentimenti che dividevano la comunità, soffocata da una cappa all’apparenza invisibile, ma che si manifestava devastando territori e futuro. Facce conosciute, riverite, ossequiate. Nulla di misterioso si muoveva attorno ai criminali che si vantavano di essere uomini d’onore e di rispetto. Note le loro identità, le loro famiglie, palesi i loro affari e i complici. Ma quei nomi non era permesso pronunciarli.
Alle spalle della casa in cui sono cresciuto, lungo la strada dove correvo dietro a un pallone quasi sempre sgonfio, assieme agli amici dopo i compiti, svetta, ancora oggi, un palazzotto grigio. Era la sede del governo ’ndranghetista. Residenza privata del signore delle ’ndrine. Sebastiano Romeo, Bastiano u Staccu. Da San Luca avanzò verso il mare, piegando la borghesia di Bovalino ai suoi voleri. Gli bastava «mezza parola» per districare questioni di paese, liti di quartiere, ribellioni indesiderate. Ha creato un impero, lasciato in eredità ai figli e alle figlie. Prima la cocaina per accumulare fondi e progettare investimenti. Poi, con la forza dirompente di una cascata fangosa, i capitali sono stati tramutati in cliniche private e immobili.
La prima clinica, la potevo osservare affacciandomi dal terrazzo di casa. Uno sguardo al nespolo, ai suoi colori, ai suoi frutti. E, oltre quell’albero così pieno di speranze, il marchio della famiglia Romeo, a pianterreno del palazzotto a cinque piani di via Calfapetra. Cure cardiovascolari convenzionate con l’Asl di Locri, il distretto sanitario spartito dalle ’ndrine. Medici, accreditamenti, infermieri, dirigenti. Su ogni aspetto i clan hanno potere di scelta. Una signoria occulta che, assieme alla massoneria locale, decide e governa ogni ingranaggio del sistema. È tutto scritto nella relazione che nel 2006 ha portato allo scioglimento per mafia della struttura sanitaria e al suo commissariamento. Una presenza invisibile solo per chi gira il capo dall’altra parte. Dall’edilizia alla sanità, che sia un badile o un bisturi, la ’ndrangheta si esprime con i propri uomini. Medici, muratori, imprenditori, infermieri, avvocati.
E i Romeo, della sanità rappresentano la trasversalità di quella che un tempo i mammasantissima chiamavano Onorata società. Un figlio avvocato, l’altro medico, il cugino «avvocaticchio». Professionisti dell’Organizzazione. Non esterni, ma espressione massima del secondo livello della cosca. Quello che gli esperti definiscono la Santa. Il piano superiore della mafia calabrese, nata negli anni Settanta in seno all’Organizzazione con la finalità di tenere i contatti con le persone «istituzionali» (poliziotti, giudici, massoni) non affiliate, teoricamente non frequentabili da uno ’ndranghetista tradizionale, ma indispensabili a una mafia moderna per fare affari e risolvere problemi. La Santa sta alla base della ’ndrangheta che si fa impresa e si globalizza. Solo chi è marchiato con il grado di santista può dialogare con gli «sbirri», con la massoneria, con i servizi infedeli, ma anche avere accesso alle riunioni con il gotha della ’ndrangheta. Mentre i picciotti semplici, i soldati, non sono tenuti a conoscere i volti e i nomi dei grandi capi del Crimine, la struttura a compartimenti stagni, segreti, inaccessibili ai più, che è tra gli elementi di forza della mafia calabrese ed è stata creata per coordinare e mediare i conflitti fra le diverse ’ndrine.
Il sangue è la base di tutto. L’affiliazione alla famiglia sacra della ’ndrangheta comincia con la «pungiuta» del polpastrello da cui sgorgano poche gocce fatte cadere sul santino di San Michele Arcangelo, riferimento religioso dei padrini calabresi. Come in un sacrificio atavico si offre un pezzo di se stessi per entrare nella «società dell’onore». Con torrenti di sangue si lavano le onte del disonore. Dal sangue nascono regni e nuovi sovrani. Con il sangue si saldano alleanze. E con i matrimoni, le cresime, i battesimi, se ne formano di nuove.
È nato in questo modo uno dei cartelli più potenti della ’ndrangheta. Una figlia di Sebastiano Romeo ha sposato Venanzio Tripodo, erede di un cognome ingombrante. Suo padre era don Mico, il patriarca della ’ndrangheta premoderna che rifiutava il business della droga, come ’Ntoni Macrì, il padrino dei due mondi. Ammazzati entrambi negli anni Settanta dalle nuove leve. Numerosi collaboratori di giustizia indicano nell’unione fra Tripodo e Romeo l’atto che ha sancito la fine della prima guerra di ’ndrangheta, in cui sono periti, sotto l’avanzata dei nuovi rampolli della Piana e della città di Reggio Calabria, i vecchi rappresentanti dell’Onorata società calabrese, che aveva nel contrabbando e nel furto di bestiame i suoi affari più lucrosi. Anziani capibastone stritolati dall’esercito di boss che, assetati di profitto, da Reggio Calabria a Gioiosa Jonica scalpitavano per un posto sotto il sole del potere.
La ’ndrangheta, oggi, ha solo cambiato registro e look e, da rozzi pastori che erano, i boss, ingrassati con i sequestri, gli affari disonesti e gli omicidi, vestono abiti impeccabili, guidano bolidi di lusso e conoscono il mondo. Frequentano o posseggono i locali più in vista del Paese. E capita che il loro passato non interessi più a nessuno. Il denaro lava vecchi rancori e favorisce nuove collaborazioni, al passo con il Terzo Millennio.
Venanzio cresce in fretta, senza padre. Non cambia strada. Segue le sue orme insanguinate. Passata la bufera della prima guerra di ’ndrangheta, spazzato via il vecchio per far posto al nuovo che avanzava come un carro armato, la famiglia Tripodo accetta le nuove regole sugli affari. Venanzio entra nell’Organizzazione dalla porta principale sposando la figlia prediletta del mammasantissima Romeo, e accede alla residenza del casato più in vista del paese. La coppia si stabilisce in un appartamento del palazzotto di via Calfapetra. Lo ricordo, Venanzio, nei suoi primi tempi a Bovalino, camminare spavaldo, raggiungere la piazza del paese, dove si trovava il suo negozio di gioielleria, e starsene in piedi con aria strafottente davanti al bar dove offriva il caffè a chi gli si mostrava amico.
Ma Tripodo e i Romeo hanno altre mire, ben più alte che comandare sul mio paese. A Fondi, provincia di Latina, il nuovo membro della famiglia potrebbe avviare grandi progetti, ambiziosi investimenti. C’è il Mof, per esempio, uno dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Europa. Ben presto, il rampollo di don Mico diventa la punta di diamante dei Romeo di Bovalino. Tesse trame invisibili, piazza i suoi uomini tra i meloni e i pomodorini che dalla Sicilia raggiungono l’ortomercato dentro camion di ditte «amiche». A Fondi apre cooperative, gestisce manodopera e pacchetti di voti da girare alla coalizione politica che di volta in volta garantisce favori e cortesie. Lui e il fratello Carmelo dimenticano in fretta il palazzotto di via Calfapetra a Bovalino. I Tripodo marchiano a fuoco l’agro pontino, che diventa un loro feudo. Da spartire con il clan dei Casalesi, certo. Quelli non scherzano. Ma i Tripodo sono uomini di pace e un accordo lo trovano senza troppe parole. Uno sguardo, una stretta di mano e con gli emissari del boss Francesco Schiavone detto «Sandokan» il patto è suggellato per amore degli affari.
Nella Locride, però, c’è la Mamma, il cuore della ’ndrangheta. Ci sono i capi del clan Romeo. E i loro compari. Camuffati da imprenditori rampanti, in realtà sono spietati criminali. Soprattutto i Pelle di San Luca. Fino al 2009 il capostipite, Antonio Pelle Gambazza, sedeva sul gradino più alto della gerarchia ’ndranghetista. Era capo Crimine, la massima autorità dell’Organizzazione nella sua versione unitaria. Il Crimine, o Provincia, è una sorta di Consiglio di amministrazione. Attorno al custode delle vecchie regole della Società mafiosa siedono i rappresentanti dei diversi «Locali» (le unità territoriali di base) presenti nel Reggino, diviso in tre mandamenti: ionico, tirrenico, centro. Bovalino si trova nel primo. E l’influenza di ’Ntoni Pelle Gambazza è sempre stata asfissiante. È lui la storia della ’ndrangheta. Custode di segreti antichi e di alleanze recenti. Da lui si recavano i capicosca di ogni parte d’Italia per chiedere consiglio e assistenza, per risolvere liti tra clan e sistemare invasioni di territorio.
Il patriarca muore d’infarto il 4 novembre 2009, in un letto d’ospedale dell’Asl di Locri. Dalla struttura sanitaria che negli anni ha dominato insieme ai Romeo, saluta questo mondo, riverito da parenti e picciotti. Lo scettro del potere è già passato al figlio Peppe. Cresciuto all’ombra del padrino, da giovane d’onore a uomo vero, e con la strada spianata verso il potere. Scaltro e corroso da uno smisurato senso dell’impunità. Per evitare il carcere preventivo ha escogitato piani demoniaci. Si è finto depresso: «Depressione minore e maggiore», per l’esattezza. Un gioco da bambini, viste le conoscenze su cui può contare. Medici che lavorano per lui, ma anche agenti dei servizi deviati che gli portano gli ossequi di uomini delle istituzioni. Quando gira per le vie di Bovalino è temuto e rispettato, Peppe il figlio di Gambazza. Da tutti: politicanti locali, commercianti che gli pagano la tassa mensile, ’ndranghetisti di prima e seconda classe. Con il casato dei Romeo sono una cosa sola. «Famiglia» allargata. Qui i matrimoni valgono più di ogni contratto. Sono la sostanza del potere. Assicurazioni per raggiungerlo.
I Pelle vogliono la pace. La guerra è cosa da tempi che furono. Per questo fanno sposare figli e figlie con i rampolli dei casati criminali più in vista della Locride. Per gli affari e la tranquillità, si imparentano con la cosca Barbaro di Platì. Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro sposi e simboli di un’unione che va oltre il semplice vincolo d’amore tra due persone. È la saldatura tra due poteri secolari. Il numero degli invitati alle nozze è così elevato che i festeggiamenti si tengono in due ristoranti. All’Euro Hotel di Bovalino e al Parco d’Aspromonte di Platì, dove i Barbaro sono di casa. E mentre il vino nostrano scorre a fiumi, alternato a qualche bottiglia di champagne, e l’immancabile sugo di capra sancisce l’importanza dell’evento, ha luogo una riunione tra i capi ’ndrangheta invitati alla festa. Ero a Bovalino quando è stato celebrato il matrimonio Pelle-Barbaro. Erano gli ultimi giorni dell’agosto 2008. L’Euro Hotel si trova sul tratto di superstrada che lambisce il paese dalla parte delle colline. Il parcheggio dell’albergo non era in grado di ospitare le auto di tutti gli invitati, così si formarono lunghe file ai bordi della strada. Quel giorno le autovetture, una dietro l’altra, si snodavano per chilometri. Anche da questo si misura la potenza. Nessun vigile urbano e nessuna volante hanno disturbato il banchetto. I magistrati lo definiranno «summit matrimonio», perché i padrini c’erano tutti. Quando si sposa una figlia o un figlio, l’invito è una forma di rispetto, un riconoscimento d’amicizia, un obbligo. Il mancato invito è un segnale ben preciso.
Percorrendo le curve sinuose della costa ionica, ogni paese che si attraversa corrisponde a una signoria mafiosa. Una forma di feudalesimo moderno in cui il signore, il barone, il re del crimine ha sempre l’ultima parola. A una manciata di chilometri dal regno dei Romeo e dei Pelle, un altro sovrano esercita incontrastato il suo potere.
A casa Commisso il telefono squilla senza sosta. Un rumore insopportabile. «Ancora loro saranno.» Peppe Commisso, in arte «u Mastru», non ha alcun dubbio su chi disturba la sua quiete. «Candidati d’ogni dove che cercano voti.» Rivolto alla moglie fasciata in un abito nero firmato Prada, impreca contro i politici locali smaniosi di facili successi elettorali. Ogni volta è la stessa scena, lo stesso teatrino. Capibastone sul trono e politici senza dignità in fila indiana a chiedere un aiuto per avere la certezza di essere eletti. Squallidi giochi che inchiodano la democrazia sulla croce degli interessi personali. Un patto suggellato in nome dell’armonia e della pace. Tu mi voti, e usi il tuo potere per farmi votare, e io ti lascio costruire. Tu mi lasci costruire, e io ti chiamo a vita sindaco, senatore, onorevole. Sono gli algoritmi che perpetuano il sistema elitario calabrese. Ne fa parte solo chi si affilia alla clientela di turno, ’ndrangheta, massoneria, comitati d’affari d’ogni specie e razza.
Peppe Commisso è stanco di promesse e baciamano, vuole concretezza. È il punto di riferimento della Locride e da lui, nella sua Siderno, arrivano emissari da ogni parte d’Italia e del mondo: Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Lazio, Canada, Australia. Con lui si confida anche Tony Vallelonga, un calabrese trapiantato da decenni nell’altro emisfero e che in Australia è stato pure eletto sindaco per due mandati. Con la politica u Mastru, più che saperci fare, ci gioca. Conosce i suoi polli. Ex senatori, consiglieri regionali, sindaci, assessori. Un esercito di disperati che lo cercano per un aiuto, un voto, un affare.
Siderno è la città più turistica della Locride, e agosto è il mese d’oro. Nelle sere prima della notte di San Lorenzo, quando il cielo sopra lo Ionio sembra uno di quei fogli tempestati di stelle che si comprano per abbellire il presepe, lo «struscio» sul lungomare è d’obbligo. Dai paesi vicini – Locri, Bovalino, Ardore, Bianco – i giovani si spostano lì, a volte si spingono oltre, fino a Gioiosa, Caulonia. Insomma, sulla costa ci si diverte, si balla, si festeggia, si conoscono belle turiste. I locali non mancano. Certo, molti appartengono a note famiglie mafiose, ma che importa, non ci si può deprimere con questi pensieri. Forse che a Milano o a Bologna i ragazzi evitano di andare in discoteche gestite dalla camorra o dalla ’ndrangheta? U Mastru, tutto questo lo sa. Perché la gestione del turismo è fondamentale: dall’affitto degli appartamenti ai locali notturni. E poi, più sballati arrivano a Siderno, più sale la domanda di polvere bianca. La cocaina è la parola chiave degli imperi creati lungo la Costa dei Gelsomini.
Nei paesi della mia infanzia la vita quotidiana segue i ritmi delle stagioni. Autunno e inverno, studenti e giovanotti più grandicelli si ritrovano nella piazza centrale, di fronte alla chiesa, la sera possono fare una capatina in birreria, là dove ce n’è una, o andarsene a spasso con i motorini o con le macchine e, a forza di girare intorno alla piazza, consumare quello schifo di asfalto. Fino a tutto febbraio il divertimento ha poche opportunità, non ci sono neppure le tedesche o le svizzere da rimorchiare. Gli inverni della Locride li ho sempre vissuti come un’inquieta attesa dei cieli limpidi che, da aprile a ottobre, si confondono con il blu intenso del mare e fanno della Calabria un luogo quasi mitico.
A marzo si ricomincia a frequentare il lungomare, una lingua d’asfalto che costeggia il lido fino alla fiumara del paese successivo. Le fiumare della Locride sono figlie dell’Aspromonte, delimitano i vari comuni e portano in grembo di tutto. Frigoriferi, lavatrici, amianto, carcasse d’auto o d’animali, liquame. Come se qualcuno le avesse scambiate per gigantesche discariche, create per evitargli la fatica quotidiana di buttare la spazzatura nei cassonetti. Nell’ultimo anno, mio padre mi portava spesso con sé sulla sua moto da cross e a volte risalivamo lentamente quei corsi d’acqua, spesso asciutti. Lo stringevo forte, senza temere i sobbalzi, godendomi la sensazione di libertà di una corsa in moto. Poi ci fermavamo a chiacchierare all’ombra. Amava la natura, il mare, la campagna ed era molto critico verso chi non se ne curava. Oggi mi ritrovo spesso a chiedermi che cosa avrebbe detto se avesse saputo di tutte le porcherie gettate in fondo a quel mare che adorava.
A maggio, finalmente, i primi bagni, l’attesa dei turisti, l’imminente apertura dei lidi. Siderno, Gioiosa, Roccella e Caulonia sono le prime località a riempirsi e le ultime a svuotarsi. Ma chi villeggia nella bella Siderno non sa che nelle giornate di mare magari ha riposato sui comodi lettini del bagno di Peppe u Mastru, ha sorseggiato l’aperitivo nel bar della cosca, e ha fatto la spesa nel supermercato o nel centro commerciale di proprietà dei Commisso, quello nella via parallela al corso, oppure nell’altro, quello alla fine del paese, che i Commisso riforniscono di prodotti di macelleria, dove alcuni loro cugini hanno dei bei negozietti e al cui proprietario hanno assicurato voti per le regionali. E siccome non tutti gli appartamenti affittati dai turisti sono dotati di lavatrice, a lavare magliette, costumi, pantaloni, teli mare ci pensa u Mastru in persona, nella lavanderia del clan all’interno del suo centro commerciale: l’Ape Green, sequestrata dalla magistratura e luogo di incontro dei padrini della ’ndrangheta mondiale. Le microspie e le telecamere degli investigatori vi hanno registrato summit d’ogni tipo. Rapidi, lunghi, di forma e di sostanza. Lì, come a casa di Gambazza a Bovalino, hanno preso vita accordi locali, nazionali e di respiro internazionale.
Dopo il maxiblitz del luglio 2010, che ha portato a 300 arresti in Lombardia, in Calabria e all’estero, alla ’ndrina dei Commisso la magistratura ha sequestrato beni per oltre 250 milioni di euro. Case, palazzi, auto, ma soprattutto aziende, quote societarie e compartecipazioni in importanti centri commerciali della zona. Di cui uno proprio a Bovalino, I Gelsomini.
Mi interessai al centro commerciale I Gelsomini l’estate successiva alla sua apertura. Ero lì per la marcia del 22 luglio sull’Aspromonte dedicata a Lollò e quella costruzione sgraziata, tutta cemento e saracinesche, non lasciava dub...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La nostra guerra non è mai finita
  3. I. Il buon odore della libertà
  4. II. Strade di Calabria
  5. III. Il sentiero della memoria
  6. IV. L’occupazione
  7. V. I nuovi sovrani
  8. VI. Addio Calabria
  9. VIII. l mercato chiama, la ’ndrangheta risponde
  10. VIII. Democrack
  11. IX. Per un pugno di voti
  12. X. Masso-’ndrangheta
  13. XI. Giochi criminali
  14. XII. Giorni maledetti
  15. Ringraziamenti
  16. Copyright