I figli di Marte
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I figli di Marte

L'arte della guerra nell'antica Roma

  1. 432 pagine
  2. Italian
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I figli di Marte

L'arte della guerra nell'antica Roma

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La celebre leggenda che lega la fondazione di Roma a Marte, padre di Romolo e Remo, rispecchia l'attitudine quasi istintiva dei Romani per l'arte bellica e il ruolo centrale dell'esercito nella loro società e nel loro sistema di valori: "I discendenti di Marte avevano la guerra nel sangue, e viverla era per loro un atto talmente naturale da non richiedere alcuna vera riflessione. Come altri popoli, anche i Romani fecero della virtù militare la base stessa della vita associata; ma compirono un passo ulteriore, e sottomettendo la virtus alla disciplina - il comportamento individuale al vantaggio collettivo - crearono i presupposti per le loro straordinarie vittorie".
Gastone Breccia, studioso di storia militare, ricostruisce la struttura, l'evoluzione e le gesta delle armate che, passo dopo passo, trasformarono un oscuro villaggio di pastori in un impero esteso su tre continenti. A partire dalle prime azioni militari in cui bande disorganizzate si sfidavano con tecniche primitive, ripercorre le tappe che portarono alla formazione di un esercito sempre più forte e professionale, reclutato in tutte le classi sociali e progressivamente arricchito dall'apporto delle varie etnie che entravano nell'orbita romana. Un esercito dotato, come diceva Cesare, di scientia e usus, conoscenza teorica ed esperienza pratica, qualità che rendevano le legioni romane quasi imbattibili in campo aperto.
In queste pagine, rigorosamente documentate, rivivono le tattiche, le strategie, gli armamenti, la personalità dei condottieri e il loro rapporto con le truppe, le grandi vittorie, come quella di Scipione l'Africano su Annibale a Zama, ma anche le sconfitte più amare, come quella di Canne a opera degli stessi Cartaginesi. E le drammatiche lotte interne, culminate nella battaglia di Farsalo del 48 a.C., in cui, nonostante la netta inferiorità numerica e le condizioni di gran lunga favorevoli a Pompeo, Cesare ottenne un'affermazione che sancì la fine dell'ordinamento repubblicano e indirizzò la storia su un percorso completamente diverso.
Un'avventura lunga un millennio, quella delle armi di Roma, in cui s'intrecciano interessi materiali e desiderio di gloria, momenti epici e altri decisamente meno edificanti. E dove Marte si presenta con il volto di un vincitore benevolo e portatore di civiltà, ma anche con quello di un vendicatore spietato e di un distruttore indiscriminato. Una concezione della guerra e delle relazioni tra i popoli che, con le sue contraddizioni, è sopravvissuta ben oltre la caduta dell'impero ed è ancora profondamente radicata nel DNA delle potenze occidentali.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852024542

Parte seconda

LE GESTA

V

LA BATTAGLIA

In battaglia [i Romani] non agiscono senza riflettere, e non lasciano nulla al caso. Al contrario: un piano precede ogni azione, e l’azione si conforma a ciò che è stato deciso. Per questo sbagliano assai di rado, e se lo fanno possono facilmente correggere i loro errori.1
La battaglia ellenistica è una partita a scacchi, fatta di mosse e contromosse ben ponderate; almeno vorrebbe esserlo, limitando il più possibile l’inevitabile e invadente presenza del caso, e quindi l’incombere del caos, che in guerra minaccia sempre di prendere il sopravvento e vanificare anche i piani meglio concepiti. Giuseppe Flavio è convinto che i Romani siano i migliori interpreti di questa tradizione; che le loro coorti disposte a scacchiera sul terreno – pronte a fornirsi reciproco appoggio, a «correggere gli errori» con la semplice esecuzione di manovre provate cento volte in addestramento – siano la compiuta realizzazione dei più validi principi dell’arte militare. Il grande storico del durissimo bellum judaicum (66-70 d.C.), cui aveva preso parte come comandante delle forze ribelli, piega il capo con la consapevolezza di essere stato sconfitto da una macchina da guerra perfetta, di cui il mondo non aveva mai visto l’eguale: si lascia però trasportare troppo oltre dal proprio entusiasmo di intellettuale e uomo di cultura, abbagliato dalla forma razionale della tattica romana.
La battaglia è infatti molto di più, e molto d’altro. Certamente è la scelta dei forti: conviene solo a chi si trova, per qualsiasi motivo – numero, morale, qualità delle truppe – in una situazione di chiaro vantaggio; altrimenti è un azzardo. Come metteva in guardia Vegezio, raccogliendo una saggezza antica e ormai cristallizzata in una sorta di proverbio,
è meglio vincere il nemico con la fame, gli attacchi di sorpresa o la paura piuttosto che in battaglia, dove solitamente la fortuna conta più del valore.2
Il buon comandante deve quindi rassegnarsi a tentare la sorte solo quando ha ben valutato le proprie possibilità di successo. Le guerre dei Romani sono piene di battaglie perché le legioni erano di regola meglio armate, organizzate e addestrate degli eserciti nemici; consapevoli della propria forza, ritenevano di non aver molto da temere da un combattimento in campo aperto. È un’abitudine alla vittoria che cominciò ben presto a nutrirsi di se stessa, vacillando soltanto di fronte ai colpi ripetuti e ravvicinatissimi della guerra annibalica, tra il 218 e il 216 a.C.; un’abitudine che indusse talvolta i comandanti romani all’imprudenza, ma più spesso suscitò timore, stupore e rassegnazione nei loro avversari, dando alle armi repubblicane e imperiali un vantaggio morale decisivo, contando sul quale – senza nemmeno tradire troppo le raccomandazioni riprese da Vegezio – molti imperatores finirono per guardare alla battaglia come all’esito più naturale e vantaggioso di qualsiasi campagna militare, trasformandola così nell’elemento dominante dell’arte romana della guerra.
Noi occidentali siamo i discendenti e i fedeli custodi di questa tradizione. Ancora oggi, di fronte a nemici che rifiutano lo scontro in campo aperto facendo ricorso a strategie meno dirette e distruttive, più adatte a chi non sia dotato di un’evidente superiorità in uomini e mezzi, ci mostriamo sorpresi, smarriti o addirittura sdegnati, come se la dittatura della battaglia dovesse essere per forza condivisa da chiunque si risolva a imbracciare un’arma.
Ne riparleremo a suo luogo, trattando delle conquiste di Roma; per adesso restiamo nei ranghi, come i nostri lontani progenitori di una legione imperiale, rassicurati dalla memoria di cento vittorie. Crediamo di sapere cosa fosse una battaglia antica: due eserciti che lasciano i propri accampamenti e si schierano a poche centinaia di passi, pronti a recitare la loro parte, quasi di comune accordo, in un dramma di tremenda violenza, aristotelicamente concentrato nel tempo e nello spazio. Non siamo lontani dal vero, per quanto strana possa sembrare una simile rinuncia al più elementare istinto di autoconservazione:3 che si spiega da un lato con la volontà dei più forti – Greci, Macedoni o Romani che fossero – di giungere allo scontro, sicuri di imboccare così la via più breve per la vittoria; dall’altro con la debolezza strutturale di molte società tribali, i cui eserciti minacciavano di dissolversi se non venivano trascinati in combattimento dai loro capi. Anche l’orizzonte limitato della battaglia ha le sue ragioni, ovviamente, legate al rapporto tra il numero degli uomini, la densità delle formazioni e la possibilità di controllare i loro movimenti, che dava come risultato un’estensione di terreno non più vasta di qualche migliaio di passi, mentre la virtuale impossibilità di proseguire il combattimento dopo il calar del buio condizionava in partenza la durata dello scontro. Possiamo dunque accettare l’immagine tradizionale: migliaia di guerrieri in uno spazio ristretto, in schiere compatte, sicuri che prima della fine del giorno saranno vinti o vincitori; ma questa è solo la cornice, la scena prima dell’azione. Siamo molto meno informati sull’esperienza degli uomini coinvolti nello scontro, anche se era proprio il loro comportamento, il difficile equilibrio tra virtus e disciplina, che decideva le sorti della battaglia.
L’esperienza del combattimento
Crediamo di sapere; ma due scene sono sufficienti a disorientarci. Racconta Cesare che all’inizio di uno scontro i Germani di Ariovisto,
formata rapidamente la falange, com’è loro abitudine, riuscirono a resistere all’attacco condotto con i gladii. Si videro allora molti dei nostri soldati arrampicarsi sopra le loro schiere serrate, strappar via gli scudi a mani nude e colpire i nemici dall’alto.4
Nessuno lo aveva ordinato: non si può dare un comando del genere, neppure a dei veterani di provato valore. I legionari sembrano trascinati piuttosto da una sorta di furor bellico; vogliono uccidere, e presto, il maggior numero possibile di nemici, con un vero e proprio entusiasmo che fa loro dimenticare il pericolo. Non è un caso isolato, e bisogna sempre tener conto di questa ricorrente ferocia quando si cerca di distinguere il «volto della battaglia» antica.5
Che poteva trasformarsi in un’esperienza da incubo. Descrivendo il campo di Canne all’indomani della strage, Tito Livio riporta un particolare terribile, che dà la misura di quanto potesse essere insopportabile la prospettiva di una morte certa per mano di un nemico scatenato, ormai in preda a una selvaggia sete di sangue:
alcuni [cadaveri romani] furono ritrovati col capo sprofondato in una buca: ed era chiaro che se l’erano scavata da soli, e avevano reso l’anima soffocati dalla terra con cui si erano ricoperti,6
evidentemente per cancellare il puro e semplice orrore della carneficina; per non vedere cosa li aspettava, per non sentire le grida di angoscia, i lamenti, il rumore del ferro che squarciava la carne e frantumava le ossa…
Tra questi due estremi di coraggio e disperazione si distende l’orizzonte della battaglia antica. Non solo il geometrico ordine delle confertae legiones, ferree e implacabili macchine da guerra, capaci di gettare nel panico il nemico con la loro semplice comparsa sulla scena;7 ma uomini addestrati al combattimento che pure potevano perdere il senno, letteralmente, per compiere gesta eroiche o per fuggire una realtà troppo tremenda da affrontare.
Cerchiamo di capire, osservando più da vicino. Immaginiamo di essere nei ranghi di una legione, un qualsiasi giorno di un qualsiasi anno compreso tra il proconsolato di Cesare e il regno di Marco Aurelio, in un qualsiasi selvaggio angolo d’Europa. Non in primissima fila, e non esattamente al centro; diciamo in seconda, verso l’estremità destra della centuria che è già dispiegata in ordine di battaglia, oggi – eccezionalmente –- su una fronte doppia di venti uomini per una profondità di quattro.8 Aspettiamo. Uscendo dall’accampamento il comandante ci ha salutato e incoraggiato; la colonna si fermava ogni quattro o cinquecento passi, lui ripeteva il suo breve discorso, ma ogni volta soltanto i soldati più vicini potevano coglierne le parole. Poi ci si rimetteva in marcia, e cominciavano a circolare le voci tra i ranghi: hai sentito? No. Ha detto che oggi vinciamo. Per forza. Che sono gli stessi dell’anno scorso. Quali stessi? Non ho capito bene, Brigoni, Briganti, Briburni, vai a sapere. E poi ha ripetuto anche che è l’ultima battaglia, dopo si va a casa. A casa? Be’, per dire. Ha spiegato che ci stanno aspettando qui perché sono disperati, non sanno più che fare…9
Qualcuno, durante il dispiegamento, ha fatto dell’ironia, ma in realtà siamo tutti convinti che il legatus ci stia portando in battaglia nelle condizioni migliori. Ora siamo fermi e schierati; oltre la nuca e le spalle del compagno della prima fila si distingue un prato in salita che va a lambire il margine di un bosco; e dal bosco, forse duecento passi lontano, cominciano a uscire gruppi sempre più fitti di guerrieri seminudi, che portano grandi scudi e scuotono minacciosamente spade lunghe e aste dalla punta a foglia, incoraggiandosi a vicenda con grida rauche, incomprensibili, presto confuse in un unico inquietante rumore di fondo.10
Restiamo immobili, le armi ancora al piede. È il segno della nostra forza, ci si sente ripetere spesso: quelli che corrono troppo in fretta incontro al nemico lo fanno perché hanno paura. Restare calmi. Il centurione passeggia davanti alle file, voltando ostentatamente le spalle al bosco, come se stesse passandoci in rassegna all’adunata mattutina. Intanto i guerrieri nemici si ammassano. Si può evitare di guardarli, ma non di sentire le loro grida, né di respirare l’odore aspro della paura che comincia a ristagnare nell’aria. Per un tempo che sembra lunghissimo tutto accade lentamente: i barbari aumentano di numero a poco a poco, sgocciolano fuori dalla foresta come acqua da un otre bucato; i compagni attorno aspettano in silenzio, spostando inquieti il peso da una gamba all’altra, creando uno strano effetto di lieve movimento continuo, come se i ranghi della centuria fossero percorsi da refoli di vento. Poi il ritmo cambia all’improvviso: le grida salgono di tono, la massa viva dei nemici si muove, gli uomini ingrandiscono a vista d’occhio, il cuore accelera con loro, le orecchie rombano, la mente riesce appena a percepire il suono cristallino del corno, la voce del centurione che ripete un ordine e il signum che si muove; si avanza al passo, meccanicamente attenti a mantenere la distanza dal compagno che ci precede e da quelli che ci affiancano, impacciati dai due giavellotti e dallo scudo, con l’elmo che pesa sulla fronte e il fodero del gladio che batte sulla coscia destra.
La distanza si riduce rapidamente; l’addestramento aiuta a non pensare, ma lo spazio si consuma in un momento. Ci fermiamo. Il centurione allarga le braccia e con la sua verga riallinea gli uomini a lui più vicini. Oltre la grande cresta orizzontale del suo elmo la massa disordinata dei guerrieri che corrono verso di noi sembra al tempo stesso troppo nitida e distante, come capita in sogno. Ora bisognerebbe distanziarsi, impugnare uno dei due pila e scagliarlo rango per rango, in successione, facendo solo un paio di passi verso il nemico; quindi ripetere l’operazione, e poi… Ma non c’è tempo. Non sentiamo nessun nuovo ordine, ma è come se fosse stato dato: si abbandonano a terra i giavellotti e ci si lancia in avanti a passo sostenuto, impugnando il gladio. Il rumore di decine e centinaia di lame estratte dai foderi è un prolungato respiro metallico: di sollievo, di furia, subito sommerso dal grido di guerra delle centurie che si preparano all’urto… Con gli occhi sbarrati un guerriero dai lunghi baffi spioventi va a cozzare frontalmente contro il compagno della prima fila, che all’ultimo istante si è gettato con tutta la sua mole sullo scudo, puntellando la spalla sinistra sotto il bordo superiore e inclinandolo leggermente in avanti.11 Bisogna far forza con tutto il peso sulla sua schiena, mentre un altro compagno si appoggia sulla nostra; per istinto il viso si nasconde sotto il bordo dello scudo, i muscoli tesi nello sforzo, e la mente percepisce un improvviso calare di tono delle voci. Nessuno sta più gridando, ora si sente solo il rumore del metallo sul metallo, del legno scheggiato, dei colpi inferti, parati e a segno, l’ansimare dello sforzo, l’acuto lamento di chi è colpito, il rantolo di chi cade.
Sono passati pochi attimi, ma sembra che il compagno stia combattendo da un tempo indefinito, mentre ripete gli stessi gesti rannicchiato dietro il grande scudo, la gamba sinistra proiettata in avanti, il braccio destro che cerca di continuo un varco per la punta del gladio. Ora dovremmo lasciargli spazio, passato l’urto iniziale, ma non è facile. Poi, d’improvviso, lo spazio si crea: ha abbattuto il suo avversario e può fare un paio di passi avanti, andando a impegnare un altro guerriero: non può aiutare i compagni a destra o a sinistra, perché vorrebbe dire esporre un fianco al nemico. Deve andare avanti, se ne ha la forza; ma noi, adesso, possiamo occupare il suo posto, e colpire. Viene naturale farlo sulla destra, ovviamente: dove un gigante con le braccia nude già coperte di sangue sta sollevando una spada sopra la testa per menare un fendente sull’elmo di un nostro compagno. È un attimo, la carne bianca sotto la sua ascella è un bersaglio perfetto, la punta del gladio affonda tra le costole…
Il legionario della terza fila, rapidissimo, si è fatto largo e ha già colpito a morte il guerriero a sinistra. Il varco si sta allargando di momento in momento, con effetti spaventosi sulla schiera nemica: i pochi che ancora combattono sulla fronte vengono aggrediti da due, poi da tre dei nostri, mentre quelli che cercano di portare loro aiuto sono contenuti dal muro di scudi che si riforma continuamente. Spalla contro il bordo, parare, parare, colpire. I compagni della prima fila, ormai esausti, si lasciano superare e riprendono fiato. C’è appena il tempo di riconoscersi, e scambiare qualche parola d’incoraggiamento smozzicata dalla fatica.
Il fiato corto, il braccio che pesa come pietra, il sudore che scorre a rivoli e fa bruciare gli occhi. Finirà, lo sappiamo. Ce lo hanno detto cento volte: sembra durare e durare, sembrano esserci sempre nuovi guerrieri pronti a uccidere, poi all’improvviso tutto cede di schianto. Accade anche oggi: un ultimo fendente si abbatte sul bordo superiore dello scudo, riverberando dolorosamente per tutto il corpo; un ultimo affondo portato fiaccamente col gladio incontra non una difesa ma il vuoto; hanno voltato la schiena, ora stanno correndo verso il rifugio offerto dai primi alberi della foresta, ma dalle ali si stanno già avvicinando le turmae dei nostri cavalieri ausiliari per tagliare loro la ritirata. Il corno suona ancora, si cerca con lo sguardo il signum della centuria, si riformano i ranghi inciampando sui corpi dei caduti; qualcuno si china a sgozzare un ferito, qualcun altro strappa un bracciale, un collare, un anello a un morto. Il sole è ancora alto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I figli di Marte
  3. Introduzione La fine e il principio
  4. Parte prima - Le Strutture
  5. Parte seconda - Le Gesta
  6. Conclusione La gloria
  7. Note
  8. Fonti e bibliografia
  9. Indice dei nomi e dei luoghi
  10. Copyright