La mia settimana con Marilyn
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La mia settimana con Marilyn

  1. 168 pagine
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La mia settimana con Marilyn

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Nel 1956 il ventitreenne Colin Clark, fresco di laurea oxfordiana, accettò di buon grado l'incarico di "trovarobe" sul set di Il principe e la ballerina, con Laurence Olivier e Marilyn Monroe. Si trovò così a essere testimone della confusione della bellissima diva, fresca di nozze con Arthur Miller, spesso sotto effetto di psicofarmaci, perennemente in ritardo, di contro all'ossessiva puntualità dell'iperprofessionale e molto britannico Olivier. Ma soprattutto si trovò a trascorrere un'inaspettata settimana "in fuga" con Marilyn, attraverso la campagna inglese: proprio lui, il più giovane e inesperto delle tante persone che la attorniavano sul set, si era infatti guadagnato la fiducia e l'affetto dell'attrice, diventando il suo confidente, il suo sostegno, il suo alleato. E, immancabilmente, innamorandosene un po'... Nelle pagine di questo diario, dal quale è stato tratto anche il film Marilyn interpretato da Michelle Williams, Clark ci offre un ritratto intimo ed emozionante di una delle donne più desiderate e affascinanti di sempre.

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Informazioni

1

11 settembre 1956, martedì
«Non può occuparsene Roger?» chiese Milton Greene.
Milton e io stavamo misurando su e giù con i nostri passi lo scampolo di prato davanti al camerino di Marilyn Monroe ai Pinewood Studios. Milton era indeciso, come al solito.
«Non so se sia giusto che qualcuno della troupe si avvicini a casa sua, Colin. Te compreso.»
«Ho affittato quella casa per Marilyn così come ho affittato la tua» dissi. «Ho ingaggiato Roger come sua guardia del corpo e ho assunto la sua cuoca, il suo maggiordomo e il suo chauffeur. Li conosco bene. E se non stiamo attenti, se ne andranno tutti quanti. Roger è un’ottima persona, però è un poliziotto. È abituato a trattare con i sottoposti, ma con i domestici non va bene: devi comportarti come se facessero parte della famiglia. Credimi, Milton, conosco bene questi problemi. Mia madre si preoccupa molto di più della sua cuoca che di me.»
Milton non era convinto. Aveva fatto il possibile – e, a quanto mi aveva detto, spendendo parecchio del suo – perché Marilyn fosse felice. Nel vecchio isolato del trucco di Pinewood era stato costruito un camerino sontuoso, una suite tutta bianca e crema, e io avevo preso in affitto per lei la più bella casa disponibile nel circondario, Parkside House a Englefield Green, di proprietà di Garrett e Joan Moore, vecchi amici dei miei genitori. Nonostante tutto questo, Marilyn non sembrava soddisfatta e Milton cercava di contenere il disagio camminando su e giù senza sosta.
«Okay, Colin, vai alla villa, se proprio devi. Non possiamo permettere che i domestici se ne vadano. Marilyn darebbe i numeri. Ma qualunque cosa tu faccia, lei non deve vederti. In fondo, sei l’assistente personale di Sir Laurence. E in questi giorni lei sembra tutt’altro che ben disposta nei confronti di Sir Laurence.»
Verissimo. Dopo sole tre settimane di riprese, si era già formato un baratro tra le due grandi star e tutti avevano cominciato a schierarsi. Olivier aveva scelto a uno a uno i membri della troupe inglese, perché lo spalleggiassero. Marilyn aveva portato con sé da Hollywood solo una piccola squadra, compresi visagista e parrucchiere, ma a quel punto erano già ripartiti tutti. L’unica rimasta al suo fianco era Paula Strasberg, la sua insegnante di recitazione. Naturalmente, c’era anche il suo nuovo marito, il drammaturgo Arthur Miller (il matrimonio, il terzo per lei e il secondo per lui, era stato celebrato due settimane prima della loro partenza per l’Inghilterra), ma aveva giurato di non interferire in alcun modo con le riprese.
Milton era il socio e coproduttore di Marilyn, tuttavia sembrava che lei non gli desse più retta come in passato – probabilmente perché Miller non sopportava l’idea che i due fossero stati amanti – quindi aveva bisogno di tutti gli alleati possibili. Io ero solo il terzo assistente alla regia, ossia la persona cui chiunque poteva dare ordini, e non costituivo una minaccia per nessuno, ma Marilyn era sempre stata abbastanza comprensiva con me quando qualcuno mi sollevava di peso, come se avesse notato la mia presenza. Allo stesso tempo, ero l’assistente personale di Olivier, che a volte riceveva me e snobbava lui. Quindi Milton aveva deciso che avremmo dovuto essere amici. In quella particolare situazione probabilmente pensava che cercassi solo una scusa per andare a casa di Marilyn; e avrebbe avuto ragione. Milton passava metà del suo tempo a impedire a chiunque di avvicinarsi a lei, perché sapeva che era una specie di calamita cui nessuno poteva resistere, nemmeno un piccolo assistente alla regia, più giovane di lei di sei anni. In realtà, avrei dovuto essere abituato alle “star”: dopotutto, Vivien Leigh e Margot Fonteyn erano amiche di famiglia. Ma quelle due signore, per quanto meravigliose, erano esseri umani, mentre Marilyn era una vera dea, e doveva essere trattata come tale.
«Sono tra l’incudine e il martello, Colin» disse Milton. Era una splendida mattina d’estate, Marilyn era in ritardo di un’ora e Milton era un po’ impaziente. «Perché Olivier non riesce ad accettare Marilyn per quello che è? Voi inglesi pensate che tutti debbano timbrare il cartellino, comprese le star. Olivier è deluso perché Marilyn non si comporta come una comparsa. Perché non si adatta? Oh, all’apparenza è molto educato, però Marilyn vede oltre la superficie, avverte che è sul punto di esplodere. Ogni tanto Josh Logan 1 si infuriava, ma la prendeva per quello che era e non per quello che voleva che fosse. Lei ha paura di Olivier. Sente che non sarà mai all’altezza.»
«Vivien dice che Olivier è stato colpito dal fascino di Marilyn, come chiunque altro, quando l’ha vista la prima volta» dissi. «Sostiene che abbia persino accarezzato l’idea di avere una storia con lei. E Vivien ha sempre ragione.»
«Oh, Marilyn sa affascinare qualunque uomo, se vuole, ma quando si infuria, le cose cambiano. Stai attento. A proposito, che cosa diavolo le è capitato questa mattina?»
«Pensavo che avessi detto che non è tenuta a timbrare il cartellino.»
«Sì, ma quando si tratta di buttare via i soldi... i suoi e i miei...»
«Se anche ci lasciasse qui ad aspettare tutto il giorno, non ci baderei. Dentro gli studi fa caldo e il lavoro è noioso, faticoso e claustrofobico. La capisco benissimo.»
«Sì, ma è il suo lavoro.»
In quel momento, la grossa auto nera di Marilyn svoltò rumorosamente l’angolo. Venne subito circondata da una folla di persone comparse dal nulla. Il nuovo visagista, la costumista, il parrucchiere, l’aiuto regista Tony Bushell, il responsabile della produzione, e tutti che smaniavano per attirare l’attenzione della povera donna prima ancora che mettesse piede nell’edificio. Aveva già accanto Paula Strasberg con il copione e Roger Smith, l’ex detective sovrintendente capo di Scotland Yard, protettivo come sempre, che le portava le borse. Era prevedibile che si precipitasse negli studi come un animale braccato, senza accorgersi di Milton né, ovviamente, di me.
Non appena Marilyn scomparve, con Milton alle calcagna, affrontai Roger. Sapevo di avere solo pochi secondi a disposizione: Roger tornava a Parkside House subito dopo aver accompagnato Marilyn, la mattina, e David Orton, il mio capo, avrebbe presto cominciato a chiedersi dove fossi finito.
«Questa sera verrò alla villa per parlare con Maria e José» dissi con fermezza. Maria e José erano la cuoca e il maggiordomo portoghesi che avevo assunto perché si occupassero di Marilyn a Parkside House. «Milton è d’accordo.»
«Davvero? C’è qualche problema?» chiese Roger, scettico.
«Non ci vorrà molto, ma dobbiamo evitare che si offendano. Sarebbe estremamente difficile sostituirli. Poi possiamo bere qualcosa insieme e magari mangiare un boccone. Chieda a Maria di prepararci dei sandwich.»
Roger era sinceramente devoto a Marilyn. Era il suo momento, dopo trent’anni in polizia. La seguiva ovunque, fedele come un labrador. Non so quanto sarebbe stato utile in caso di crisi, ma era senza dubbio molto perspicace e, con un po’ di fortuna, sarebbe stato in grado di evitare una catastrofe. Pensavo che avrebbe capito cosa mi passava per la testa, come l’aveva capito Milton, ma Roger non aveva nessuno con cui parlare, la sera, e si sentiva solo. Mi ricordava i sergenti addestratori che avevo conosciuto quando ero stato ufficiale pilota della Raf, quindi andavamo d’accordo. Tutte le altre persone dell’entourage di Marilyn parlavano il gergo del cinema, cosa che Roger detestava. Avremmo potuto fare due chiacchiere in libertà.
«Quindi non è necessario che lei venga a prendere Marilyn, questa sera» continuai. (In tal caso, non ci sarebbe stato spazio in macchina.) «Mi siederò davanti, accanto a Evans, che poi mi riaccompagnerà a casa.»
Evans era l’autista di Marilyn. Come Roger, era stato assunto da me ed era uno degli uomini più stupidi che avessi mai conosciuto. Probabilmente non sapeva neppure chi fosse Marilyn Monroe, ma ciò che contava era che eseguisse gli ordini.
«Mmm» disse Roger dubbioso, ma in quello stesso istante si sentì qualcuno gridare «Colin!» e corsi via senza dargli il tempo di replicare.
Conosco gli Olivier da quando sono bambino e con i miei genitori ho incontrato persone famose di ogni tipo. Ma Marilyn è un’altra cosa. È avvolta in una specie di coltre di notorietà che protegge e attrae al tempo stesso. La sua aura è incredibilmente forte, tanto forte da essere diluita da migliaia di schermi cinematografici in tutto il mondo e sopravvivere intatta. Dal vivo, la sua natura di star è quasi insopportabile. Quando sono con lei, non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Mi sembra di non guardarla mai abbastanza e forse è per questo che non riesco a vederla affatto. È un sentimento che si può scambiare facilmente con l’amore. Non c’è da stupirsi che abbia così tanti fan e debba fare molta attenzione a chi incontra. Suppongo sia questo il motivo per cui passa la maggior parte del suo tempo chiusa in casa e perché trovi così difficile farsi vedere negli studi, e men che meno arrivare in orario. Quando arriva, corre dall’auto al camerino come un fulmine. Sembra spaventata e forse ne ha motivo. Non è giusto che rientri anch’io nel novero dei suoi persecutori, lo so, ma non resisto al desiderio di trovarmi nella sua orbita. E mi giustifico pensando che sono pagato da Olivier per facilitarle l’esistenza, quindi devo essere presente nella sua vita, quanto meno sullo sfondo.
Come misi piede negli studi, mi ritrovai nei guai.
«Colin! Dove diavolo sei stato?» David me lo ripeteva ogni volta che mi vedeva, anche se mi ero allontanato solo per dieci secondi. «Olivier vuole vederti immediatamente. Sono le dieci. Marilyn è arrivata soltanto adesso. Saremo fortunati se riusciremo a girare una scena prima di pranzo» eccetera, eccetera.
Perché non si rendono conto che, piaccia o non piaccia, Marilyn si comporta così? Perché non possiamo farcene una ragione? Olivier sostiene che se non alzassimo un po’ la voce, non si presenterebbe affatto, ma non ne sono tanto sicuro. Marilyn vuole recitare. Vuole persino recitare con Olivier. Ha bisogno che questo film sia un successo per dimostrare al mondo che è una vera attrice. Io penso che si presenterebbe comunque, anche se non avesse tutta questa pressione addosso. Potrebbe addirittura essere puntuale, ma suppongo che sia un rischio che nessuna casa di produzione vorrebbe correre. Olivier parla di lei come se fosse solo una pin-up senza cervello. Sembra che provi solo disprezzo nei suoi confronti. È convinto che non sappia recitare, solo perché non riesce a entrare nel personaggio con la sua disinvoltura e la disprezza perché si fa accompagnare da un’insegnante di recitazione. Non capisce che Paula si limita a rassicurarla e non ha alcun bisogno di spiegare a Marilyn come interpretare la parte. Basta guardare i girati giornalieri per capire che Marilyn sta facendo un ottimo lavoro. Il problema è che si irrita all’inverosimile per tutte le esitazioni, gli agganci mancati e le battute sbagliate e non vede i lampi di luce, quando ce ne sono. Ogni sera, la visione del girato del giorno prima gli ricorda solo quanto ha sofferto, davanti e dietro la cinepresa, e sembra provarne un perverso godimento. Perché non chiedere al montatore di tagliare tutti gli errori e mostrargli solo i momenti in cui tutto è andato bene, per quanto pochi? Pensate quanto sarebbe esaltante. Faremmo tutti la fila per entrare nella saletta di proiezione: le luci si abbassano ed ecco trenta secondi di Marilyn in tutta la sua bellezza, che si ricorda tutte le battute; le luci si riaccendono e scrosciano gli applausi; Marilyn torna a casa confortata invece che depressa; il montatore è felice; Olivier è felice.
Scordatelo, Colin! Per qualche ignoto motivo, imputato ovviamente a esigenze tecniche, dobbiamo vedere e rivedere ogni singolo inciampo, ogni esitazione, a pieno schermo, in primo piano, un fallimento dietro l’altro, finché non siamo tutti esasperati e Marilyn, ammesso che si sia presentata, torna a casa di corsa coperta di vergogna. Vorrei tanto poter fare due chiacchiere con lei per rassicurarla. Ma sono già in troppi a farlo – e chiaramente senza successo.
Ero stato a casa di Marilyn solo una volta da quando era arrivata, cinque settimane prima, e non osavo neppure immaginare di parlarle, e men che meno di vederla, se ci fossi tornato. In quel momento ero già elettrizzato all’idea di sedermi sul sedile del passeggero, con quella creatura celestiale alle mie spalle. Volevo fingere di essere la sua guardia del corpo. Volevo fingere che la sua sicurezza dipendesse da me. Per fortuna, Evans non badava a me, né tanto meno Paula Strasberg.
Ha “incoraggiato” Marilyn per tutto il giorno, circondata da una sessantina di tecnici, per non parlare degli altri venti attori e dello stesso Olivier. In auto, Paula si concentra su una cosa sola: deve “trattenere” Marilyn ancora per qualche minuto. Le stringe forte il braccio e non smette di parlare, senza mai tirare il fiato, per tutto il viaggio. Continua a ripeterle instancabilmente all’orecchio: «Marilyn, sei stata magnifica. Sei una grandissima attrice. Sei splendida, sei divina...» e così via.
Le sue lodi sulla performance di Marilyn e le sue capacità di attrice sono talmente esagerate da mettere a disagio l’allieva, ma è come se Paula sapesse di avere solo quei pochi istanti la sera per insinuarsi nella mente di Marilyn e rendersi indispensabile il giorno seguente.
Olivier, in qualità di regista del film, è ovviamente molto contrariato dalla presenza di Paula. Paula non conosce le difficoltà tecniche legate alla realizzazione di un film e spesso richiama Marilyn per darle istruzioni proprio quando Olivier le sta spiegando che cosa si aspetta da lei. In questi casi, Olivier dimostra una pazienza davvero incredibile. Ciò nonostante, apprezzo Paula e mi dispiace per lei. Questa donna rotondetta, sempre fasciata in diverse sfumature di marrone, con gli occhiali da sole tra i capelli e il copione tra le mani, cerca solo di sopravvivere nel bel mezzo della tempesta.
L’unica persona che sembra indifferente a tutto quel clamore è Arthur Miller, e forse è per questo che non mi piace affatto. Devo ammettere che non mi ha mai trattato male. Nelle quattro occasioni in cui le nostre strade si sono incrociate – all’aeroporto, quando è sbarcato in Gran Bretagna con Marilyn, all’arrivo alla villa che avevo affittato per loro, una volta negli studi e una volta in compagnia degli Olivier – mi ha ignorato completamente. E così doveva essere. Io sono il più giovane componente della troupe, e il mio unico compito è quello di rendere la vita di Marilyn, e di conseguenza la sua, più facile.
Eppure non mi considero affatto un domestico. Sono un organizzatore, una persona che sistema le cose. Laurence Olivier si confida con me. E così Milton Greene. Ma Arthur Miller dà tutto questo per scontato: la sua casa, i suoi domestici, il suo autista, la guardia del corpo di sua moglie e persino, o almeno questa è la mia impressione, sua moglie. È questo che mi fa arrabbiare: come si fa a dare per scontata Marilyn Monroe? Lei lo guarda come se lo adorasse, ma è pur sempre un’attrice. Vivien Leigh guarda spesso Olivier nello stesso modo e non mi pare che la cosa gli faccia molto bene. Miller sembra sempre così maledettamente pieno di sé: sono certo che sia un grande scrittore, ma questo non giustifica la sua aria di superiorità. Forse è l’insieme degli occhiali con la montatura di corno, della fronte alta e della pipa. E a questo aggiungiamo anche uno sguardo che sembra dire “Io vado a letto con Marilyn Monroe e voi no. Creature insignificanti”.
Tutto questo mi ronzava in testa mentre prendevo posto sul sedile anteriore dell’auto, quella sera. Avevo rifornito il camerino di Olivier di whisky e sigarette e avevo detto a David che dovevo andare alla villa di Marilyn per una questione urgente, lasciando intendere che l’avrei spiata per conto di Olivier. David cercava sempre di conoscere i movimenti di Marilyn per poter pianificare un po’ meglio le riprese, quindi gli sembrò un’ottima idea.
Mentre attraversavo a gran velocità la campagna inglese, seduto al posto del passeggero nell’auto di Marilyn Monroe, mi sentivo terribilmente importante, ma non appena arrivammo a Parkside House, Marilyn scomparve dentro casa e tutto finì lì. Neppure Paula riuscì a starle dietro. Sapeva che da quel momento in poi doveva cedere il passo ad Arthur e la seguì lentamente, molto avvilita, come se avesse perso la sua bambina.
Roger mi venne incontro borbottando e ridacchiando, le guance gonfie come un Babbo Natale senza barba e insieme girammo attorno alla casa, diretti alla porta sul retro. A quel punto, proprio come mi aspettavo, Evans si allontanò con l’auto. Era seduto al volante dalle 6.30 e l’ultima cosa che voleva era di ricevere un altro incarico o sbrigare un’altra commissione.
«Doveva aspettarmi e riportarmi a Pinewood!» gridai. «Adesso sono bloccato qui senza macchina. Dovrò raggiungere il villaggio a piedi e prendere un autobus!»
«Non si preoccupi» disse Roger. «Come si saranno sistemati per la notte» e fece un cenno con il capo verso le finestre della stanza da letto al primo piano «le darò un passaggio. Entri ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La mia settimana con Marilyn
  3. Introduzione
  4. 1. 11 settembre 1956, martedì
  5. 2. 12 settembre, mercoledì
  6. 3. 13 settembre, giovedì
  7. 4. 14 settembre, venerdì
  8. 5. 15 settembre, sabato
  9. 6. 16 settembre, domenica
  10. 7. 17 settembre, lunedì
  11. 8. 18 settembre, martedì
  12. 9. 19 settembre, mercoledì
  13. Poscritto
  14. Appendice - Lettera di Colin Clark a Peter Pitt-Millward
  15. Inserto fotografico
  16. Copyright