Milioni di farfalle
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Milioni di farfalle

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  1. 204 pagine
  2. Italian
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Milioni di farfalle

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Informazioni sul libro

"Mi ritrovai in un mondo completamente nuovo. Il mondo più bello e più strano che avessi mai visto... Luminoso, vibrante, estatico, stupefacente. C'era qualcuno vicino a me: una bella fanciulla dagli zigomi alti e dagli occhi intensi. Eravamo circondati da milioni di farfalle, ampi ventagli svolazzanti che si immergevano nel paesaggio verdeggiante per poi tornare a volteggiare intorno a noi. Non fu un'unica farfalla ad apparire, ma tutte insieme, come un fiume di vita e colori che si muoveva nell'aria." Queste sono alcune delle parole usate da Eben Alexander, neurochirurgo e professore alla Medical School dell'università di Harvard per descrivere il Paradiso.
Il dottor Alexander è uno scienziato che non ha mai creduto alla vita dopo la morte eppure è toccato a lui esserne testimone. Nel 2008 ha contratto una rara forma di meningite e per sette giorni è entrato in coma profondo che ha azzerato completamente l'attività della sua corteccia cerebrale. In pratica il suo cervello si è completamente spento, eppure una parte di lui era ancora vigile e ha intrapreso uno straordinario viaggio verso il Paradiso. Al suo risveglio il dottor Alexander era un uomo diverso, costretto a rivedere le sue posizioni profondamente razionali sulla vita e sulla morte: esiste una vita oltre la vita, esiste il Paradiso ed è un luogo d'amore e meraviglia.
Milioni di farfalle è la testimonianza di questa incredibile esperienza. È un libro rivoluzionario in grado di mettere in discussione anche il più scettico dei lettori.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035678

1
Il dolore

Lynchburg, Virginia. 10 novembre 2008
I miei occhi si spalancarono. Nell’oscurità della camera da letto mi concentrai sul bagliore rosso della sveglia: le 4.30, un’ora in anticipo sul trillo che mi svegliava ogni mattina prima di affrontare un viaggio di settanta minuti da casa nostra a Lynchburg, in Virginia, alla Focused Ultrasound Surgery Foundation di Charlottesville, dove lavoravo. Mia moglie, Holley, dormiva ancora profondamente accanto a me.
Dopo aver trascorso quasi vent’anni come neurochirurgo nella Greater Boston Area, mi ero trasferito con Holley e il resto della famiglia sulle colline della Virginia due anni prima, nel 2006. Io e Holley ci eravamo conosciuti nell’ottobre del 1977, due anni dopo aver terminato entrambi l’università. Holley era impegnata con il suo master in Belle Arti, e io frequentavo la scuola di specializzazione. Lei era uscita un paio di volte con il mio compagno di stanza, Vic. Un giorno lui l’aveva portata con sé per presentarmela, probabilmente per farsi bello. Mentre stavano per andarsene, dissi a Holley di tornare quando voleva, aggiungendo che non doveva sentirsi in obbligo di venire con Vic.
Per il nostro primo vero appuntamento andammo a una festa a Charlotte, nel North Carolina, due ore e mezzo di auto all’andata e altrettante al ritorno. Holley aveva la laringite, perciò avevo dovuto sostenere gran parte della conversazione per tutto il viaggio. Era stato facile. Ci sposammo nel giugno del 1980 nella chiesa episcopale di St Thomas a Windsor, nel North Carolina, e poco dopo ci trasferimmo nel quartiere residenziale di Royal Oaks a Durham, dove ero interno in chirurgia presso il Duke. Il nostro alloggio non era certo principesco e, nonostante il nome, ricordo di non avere mai nemmeno intravisto una quercia nei dintorni. Avevamo pochi soldi, ma eravamo entrambi talmente impegnati – e così felici di stare insieme – che non ci importava. Una delle nostre prime vacanze fu un tour in campeggio sulle spiagge del North Carolina. In quelle zone la primavera è la stagione dei cosiddetti no-see-um (fastidiosi moscerini che pungono), e la nostra tenda non era attrezzata per proteggerci. Ma ci divertimmo ugualmente. Un pomeriggio, mentre nuotavo tra le onde a Ocracoke, escogitai un sistema per pescare i granchi reali che fuggivano nascondendosi nella sabbia ai miei piedi. Ne raccogliemmo un bel po’ e li portammo al Pony Island Motel, dove alloggiavano alcuni amici. Li cucinammo alla griglia. Ce n’erano in abbondanza per tutti. Nonostante avessimo puntato al risparmio, di lì a poco ci trovammo spaventosamente a corto di liquidi. Condividevamo la vacanza con i nostri migliori amici Bill e Patty Wilson e d’improvviso ci venne voglia di accompagnarli a una serata di bingo. Bill ci andava tutti i giovedì, ogni estate, da dieci anni, e non aveva mai vinto. Per Holley era la prima volta. Chiamatela fortuna del principiante o intervento divino, fatto sta che vinse duecento dollari, che per noi era come se fossero cinquemila. I contanti ci permisero di prolungare il nostro soggiorno e di viverlo con maggiore tranquillità.
Terminai la specializzazione proprio quando Holley si laureò e iniziò la sua carriera di artista e insegnante. Praticai la mia prima operazione come neurochirurgo al Duke nel 1981. Il nostro primogenito, Eben IV, nacque nel 1987 al Princess Mary Maternity Hospital di Newcastle-Upon-Tyne, nel Nord dell’Inghilterra, durante il mio corso di formazione in chirurgia cerebrovascolare, e il nostro secondogenito, Bond, nacque al Brigham & Women’s Hospital di Boston nel 1998.
Ricordo con piacere i miei primi quindici anni di lavoro all’Harvard Medical School e al Brigham & Women’s Hospital. La nostra famiglia trascorse un periodo felice nella Greater Boston Area. Ma nel 2005 io e Holley decidemmo che era ora di tornare al Sud. Volevamo avvicinarci alle nostre famiglie, e io la vedevo come un’opportunità per avere maggiore autonomia rispetto a quanta ne avevo avuto a Harvard. Così, nella primavera del 2006, ricominciammo daccapo a Lynchburg, sulle colline della Virginia. Non ci volle molto per riabituarci al ritmo di vita più rilassato che entrambi avevamo apprezzato crescendo nel Sud.
Per un istante rimasi disteso là, confuso, cercando di concentrarmi su ciò che mi aveva svegliato. Il giorno prima era stata una domenica piena di sole, limpida e fresca, il classico clima di fine autunno in Virginia. Io, Holley e Bond (che all’epoca aveva 10 anni) eravamo andati a un barbecue da un vicino di casa. In serata avevamo parlato al telefono con nostro figlio Eben IV, allora ventenne e matricola all’Università del Delaware. L’unico neo della giornata era stato il leggero fastidio provocato da un virus respiratorio che Holley, Bond e io ci trascinavamo da una settimana. La schiena aveva cominciato a farmi male appena prima di andare a letto, così avevo fatto un bagno veloce che mi era parso aver attenuato un po’ il dolore. Mi domandai se quella mattina non mi fossi svegliato così presto perché il virus si stava ancora aggirando subdolamente nel mio corpo.
Mi mossi leggermente nel letto e un’ondata di dolore – molto più intensa di quella della sera precedente – mi sferzò la spina dorsale. Evidentemente il virus influenzale non voleva saperne di mollare la presa. Più mi svegliavo, più il dolore aumentava. Non riuscendo a prendere sonno e avendo ancora a disposizione un’ora prima che la mia giornata lavorativa iniziasse, decisi di fare un altro bagno caldo. Mi misi seduto sul letto, buttai giù le gambe e mi alzai in piedi.
Immediatamente il dolore mi strinse in una morsa, una sorda fitta lancinante che mi attraversò penetrando profondamente alla base della spina dorsale. Lasciai dormire Holley e percorsi il corridoio con passi leggeri e incerti fino al bagno del piano di sopra.
Feci scorrere l’acqua ed entrai nella vasca, sicuro che il caldo mi avrebbe subito dato sollievo. Sbagliato. La vasca era piena soltanto a metà e già avevo capito di aver fatto un errore. Non soltanto il dolore aumentò, ma divenne così intenso che temetti di dover chiamare Holley perché mi aiutasse a uscire dalla vasca.
Pensando a quant’era diventata ridicola la situazione, allungai un braccio e afferrai un telo di spugna appeso a un portasciugamani proprio sopra di me. Lo feci scorrere da una parte per non rischiare di staccarlo dalla parete e mi tirai su lentamente.
Un’altra fitta mi trapassò la schiena, così intensa che boccheggiai. Questa non era decisamente influenza. Ma cos’altro poteva essere? Dopo essere uscito a fatica dalla vasca scivolosa e avere infilato l’accappatoio di spugna rosso, tornai lentamente in camera e mi lasciai cadere sul letto. Il mio corpo era già madido di sudore freddo.
Holley si mosse e si voltò verso di me.
«Che succede? Che ora è?»
«Non so» dissi. «La schiena. Mi fa un male cane.»
Holley cominciò a farmi un massaggio. Con mia sorpresa, mi fece sentire un po’ meglio. I medici, nella stragrande maggioranza, non accettano volentieri l’eventualità di essere malati. Io non faccio eccezione. Per un istante mi convinsi che il dolore – qualunque ne fosse la causa – avrebbe finalmente cominciato a recedere. Ma alle 6.30, l’ora in cui di solito uscivo di casa per andare al lavoro, ero ancora molto sofferente e praticamente paralizzato.
Bond entrò nella nostra stanza alle 7.30, curioso di sapere perché fossi ancora a casa.
«Che succede?»
«Tuo padre non si sente bene, tesoro» disse Holley.
Stavo ancora disteso sul letto con la testa sollevata da un guanciale. Bond si avvicinò, allungò una mano e cominciò a massaggiarmi delicatamente le tempie.
Il suo tocco mi trasmise una specie di scarica elettrica che mi attraversò la testa: un dolore terribile, il peggiore fino a quel momento. Lanciai un urlo. Sorpreso dalla mia reazione, Bond sobbalzò ritraendosi.
«È tutto a posto» lo rassicurò Holley, chiaramente pensando altrimenti. «Non è colpa tua. Papà ha soltanto un feroce mal di testa.» Poi la sentii dire, più a se stessa che a me: «Forse è il caso di chiamare un’ambulanza».
Se c’è una cosa che i dottori odiano ancor di più dell’essere malati è trovarsi in un pronto soccorso come pazienti. Mi immaginai la casa che si riempiva di soccorritori, la sfilza delle domande di routine, la corsa in ospedale, gli adempimenti burocratici... Pensai che a un certo punto avrei cominciato a sentirmi meglio e mi sarei addirittura pentito di avere messo tutti in allarme.
«No, non serve» dissi. «Ora sto male, ma vedrai che presto andrà meglio. Forse dovresti aiutare Bond a prepararsi per andare a scuola.»
«Eben, penso davvero che...»
«Va tutto bene» la interruppi, il viso sempre affondato nel cuscino. Ero ancora paralizzato dal dolore. «Dico sul serio, non chiamare il 911. Non sto così male. È un semplice spasmo muscolare nella zona lombare, e un gran mal di testa.»
Controvoglia, Holley accompagnò nostro figlio al piano di sotto e gli preparò una colazione improvvisata prima di spedirlo da un amico che abitava nella stessa strada per farsi dare un passaggio a scuola. Mentre Bond usciva di casa, d’un tratto pensai che, se si fosse trattato di qualcosa di grave e io fossi finito davvero in ospedale, probabilmente non l’avrei rivisto quel pomeriggio. Così raccolsi tutte le mie forze e dissi con voce roca: «Buona scuola, Bond».
Quando Holley tornò di sopra per vedere come stavo, ero sul punto di scivolare in uno stato di incoscienza. Pensando che mi fossi appisolato, mi lasciò riposare e scese per telefonare ad alcuni miei colleghi nella speranza di sentire la loro opinione su ciò che mi stava capitando.
Due ore dopo, ritenendo di avermi lasciato riposare abbastanza, tornò a controllarmi. Quando aprì la porta della camera da letto, mi vide disteso nella stessa posizione. Ma avvicinandosi notò che il mio corpo non appariva rilassato come prima, ma rigido come un pezzo di legno. Accese la luce e vide che stavo sussultando violentemente. La mascella inferiore era protesa in modo innaturale e gli occhi erano aperti, riversi all’indietro.
«Eben, di’ qualcosa!» mi urlò Holley. Visto che non rispondevo, chiamò il 911. I soccorritori arrivarono in meno di dieci minuti e mi caricarono su un’ambulanza diretta al pronto soccorso del Lynchburg General Hospital.
Se fossi stato cosciente, avrei potuto dire a Holley esattamente cosa stavo provando là, sul letto, durante quei terribili momenti trascorsi in attesa dell’autolettiga: una vera e propria crisi epilettica causata, senza dubbio, da uno shock cerebrale estremamente grave.
Ma, naturalmente, non ero in grado di farlo.
Per i sette giorni successivi, per Holley e il resto della mia famiglia sarei stato presente soltanto con il corpo. Non ho ricordi del nostro mondo durante quella settimana, e ho dovuto carpire dagli altri i particolari di ciò che accadde nel periodo in cui rimasi incosciente. La mia mente, la mia anima – comunque vogliate chiamare quella parte centrale che fa di me un essere umano – si era spenta.

2
L’ospedale

Il pronto soccorso del Lynchburg General Hospital è il secondo più affollato della Virginia e di solito è in piena attività alle nove e mezzo di mattina di un giorno feriale. Quel lunedì non faceva eccezione. Anche se trascorrevo la maggior parte dei miei giorni lavorativi a Charlottesville, avevo passato molto tempo al Lynchburg General e conoscevo quasi tutti.
Laura Potter, un medico del pronto soccorso con cui lavoravo fianco a fianco da quasi due anni, ricevette la chiamata che annunciava l’imminente arrivo nel suo reparto di un maschio caucasico di 54 anni, in status epilecticus. Dirigendosi verso l’ingresso delle ambulanze, passò in rassegna l’elenco delle possibili cause dello stato del paziente che stava per arrivare. Era lo stesso elenco che avrei fatto anch’io se mi fossi trovato nei suoi panni: crisi di astinenza da alcol, overdose, iponatriemia (livello di sodio nel sangue eccessivamente basso), colpo apoplettico, tumore primario o metastatico al cervello, emorragia intraparenchimale (sanguinamento nella sostanza cerebrale), ascesso cerebrale... e meningite.
Quando i soccorritori mi dirottarono nell’Area Emergenza 1 del pronto soccorso, ero ancora in preda a violente convulsioni e alternavo ai lamenti un disordinato agitarsi di braccia e gambe.
La dottoressa Potter capì subito dal modo in cui vaneggiavo e mi contorcevo che il mio cervello era vittima di un pesante attacco. Un’infermiera portò un carrello di emergenza, un’altra fece un prelievo e una terza sostituì la prima flebo, ora vuota, che i soccorritori avevano predisposto a casa mia prima di caricarmi sull’ambulanza. Mentre si occupavano di me, mi dibattevo come un pesce di un metro e ottanta tirato fuori dall’acqua. Scaricavo inarrestabili raffiche di suoni confusi e inarticolati e grida animalesche. A preoccupare Laura, oltre alle convulsioni, era il fatto che manifestavo un’asimmetria nel controllo motorio del corpo. Questo poteva significare non soltanto che il mio cervello era sotto attacco, ma che si era già verificato un grave, e forse irreversibile, danno cerebrale.
La vista di un paziente in uno stato del genere richiede esperienza, e Laura aveva visto di tutto nei molti anni di lavoro al pronto soccorso. Ma non si era mai imbattuta in uno dei suoi colleghi in quelle condizioni e, osservando più da vicino il paziente che si contorceva e urlava sulla lettiga, mormorò, quasi tra sé: «Eben».
Poi, a voce più alta, richiamando l’attenzione del personale del reparto, aggiunse: «Questo è Eben Alexander».
I medici e gli infermieri che l’avevano sentita si raccolsero tutti intorno alla mia lettiga. Anche Holley, che aveva seguito l’ambulanza, si unì al gruppo, mentre Laura snocciolava le domande di rito sulle cause più ovvie in un caso come il mio. Ero in astinenza da alcol? Avevo assunto recentemente qualche pesante droga allucinogena? Poi si mise al lavoro nel tentativo di bloccare le mie convulsioni.
Nei mesi precedenti Eben IV mi aveva sottoposto a un intenso programma di allenamento per un’arrampicata padre-figlio sul monte Cotopaxi (5800 metri) in Ecuador, che lui stesso aveva già scalato in febbraio. Quella preparazione aveva notevolmente aumentato la mia forza, così fu molto più difficile per gli inservienti cercare di bloccarmi. Dopo cinque minuti e quindici milligrammi di diazepam per via endovenosa ero ancora delirante e tentavo di respingere tutti, ma, con grande sollievo della dottoressa Potter, perlomeno ora mi dibattevo con entrambi i lati del corpo. Holley riferì a Laura del forte mal di testa che avevo avvertito prima della crisi convulsiva, il che indusse la dottoressa a praticare una puntura lombare, una procedura con la quale si estrae una piccola quantità di liquido cerebrospinale dalla base della spina dorsale.
Il liquido cerebrospinale è una sostanza limpida e acquosa che scorre lungo la superficie del midollo spinale e riveste il cervello proteggendolo dagli impatti. Un corpo umano in buona salute ne produce circa mezzo litro al giorno, e ogni minima alterazione della sua limpidezza indica la presenza di un’infezione o di un’emorragia.
Un’infezione di questo tipo prende il nome di meningite, e consiste nel rigonfiamento delle meningi, le membrane che rivestono l’interno della spina dorsale e del cranio e che sono a diretto contatto con il liquido cerebrospinale. In quattro casi su cinque a causare la malattia è un virus. La meningite virale può rappresentare un grave rischio per il paziente, ma risulta fatale solo nell’1% dei casi circa. In un caso su cinque, tuttavia, i responsabili della meningite sono i batteri. Essendo più primitivi dei virus, essi possono rivelarsi un nemico più pericoloso. I casi di meningite batterica sono tutti fatali se non vengono curati. Anche quando si interviene tempestivamente con gli antibiotici appropriati, il tasso di mortalità oscilla dal 15 al 40%.
Una delle cause meno probabili della meningite batterica negli adulti è un antichissimo batterio molto tenace chiamato Escherichia coli, meglio conosciuto semplicemente come E. coli. Nessuno sa a quando risalga esattamente, ma si suppone che questo microorganismo abbia fra i tre e i quattro miliardi di anni. Si tratta di un anucleato che si riproduce tramite un processo primitivo ma estremamente efficiente noto come “scissione binaria asessuata” (in altre parole, scindendosi in due). Immaginate una cellula piena essenzialmente di DNA che può assimilare sostanze nutritive (di solito da altre cellule che attacca e assorbe) direttamente attraverso la parete cellulare. Poi immaginate che possa copiare diversi filamenti di DNA contemporaneam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Milioni di farfalle
  3. Prologo
  4. 1. Il dolore
  5. 2. L’ospedale
  6. 3. D’un tratto, dal nulla
  7. 4. Eben IV
  8. 5. Il regno delle ombre
  9. 6. Ancorato alla vita
  10. 7. La Melodia Avvolgente e la Via Maestra
  11. 8. Israele
  12. 9. L’Utero Cosmico
  13. 10. Ciò che conta
  14. 11. La fine di una spirale negativa
  15. 12. L’Utero Cosmico
  16. 13. Mercoledì
  17. 14. Un particolare tipo di NDE
  18. 15. Il dono dell’oblio
  19. 16. Il pozzo
  20. 17. N di 1
  21. 18. Dimenticare e ricordare
  22. 19. Nessun posto dove nascondersi
  23. 20. L’epilogo
  24. 21. L’arcobaleno
  25. 22. Sei volti
  26. 23. Ultima notte, prima mattina
  27. 24. Il ritorno
  28. 25. Ancora tanta strada da fare
  29. 26. Si sparge la voce
  30. 27. Ritorno a casa
  31. 28. L’ultrareale
  32. 29. Un’esperienza comune
  33. 30. Di ritorno dal regno dei morti
  34. 31. Tre schieramenti
  35. 32. Una visita in chiesa
  36. 33. L’enigma della coscienza
  37. 34. Dilemma finale
  38. 35. La fotografia
  39. Eternea
  40. Appendice A
  41. Appendice B
  42. Letture consigliate
  43. Ringraziamenti
  44. Copyright