A piccoli passi
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A piccoli passi

La psicologia dei bambini dall'attesa ai cinque anni

  1. 372 pagine
  2. Italian
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A piccoli passi

La psicologia dei bambini dall'attesa ai cinque anni

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Informazioni sul libro

«I primi anni di vita sono decisivi: le esperienze infantili condizionano il carattere e influenzano le scelte future.» Partendo da questa premessa il saggio prende in esame i comportamenti del bambino individuandone i messaggi, e intende offrire ai genitori una serie di consigli perché possano rispondere con sensibilità e competenza ai desideri del bimbo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852032844
Parte seconda

CRESCERE INSIEME

VI

Il significato del pianto

ninna-nanna del Re del Pianto
che beveva in un bicchiere
tutto pieno di lacrime nere
Appena nato il suo pianto è un grido alla vita, la conferma del suo essere al mondo. È vivo, respira, sta bene: e lo dice piangendo. Ma poi? Perché piange un neonato? Che cosa ci comunica con questo suo primo linguaggio, modulato sui toni di emozioni intense, a volte violente, ma ancora confuso, inarticolato? E soprattutto come rispondere quando strilla, non perché ha fame o soffre di qualche malessere, ma, almeno apparentemente, senza motivo? Molte mamme istintivamente sentono il pianto del loro bambino come un richiamo che risuona dentro di loro a volte disperato, a volte rabbioso, a volte triste, sconsolato: «Perché mi lasci solo? Ho bisogno di te, del tuo calore, della tua compagnia». E accorrono subito per consolarlo, calmarlo, coccolarlo. Per vederlo al più presto ritornare felice.
Ma c’è anche chi, rispondendo a ogni suo richiamo, teme di viziarlo sin da piccolo, di farne un prepotente, un tiranno. Come Marisa, che ha un bimbo di due mesi. E ricorda che, quando era ancora in gravidanza, sua suocera le raccomandava: «Ascolta me, lascialo piangere! Altrimenti se ne approfitta. Guarda i miei figli: io ho fatto così e sono cresciuti benissimo». Non mancano poi gli elogi del pianto: allarga i polmoni, rafforza il carattere, scarica le energie in eccesso.

Il primo dialogo

Si rischia davvero di viziare un bambino accorrendo sempre al suo pianto?
È assurdo pensare di viziare un bambino così piccolo, consolandolo quando esprime piangendo la sua inquietudine, il suo disagio. Nei primi mesi di vita non ha ancora una percezione di sé come persona distinta dagli altri: impossibile quindi che faccia i capricci o le bizze lamentandosi per niente, per farci dispetto. Se piange, c’è sempre una ragione.
Anche quando è sazio, pulito e al caldo nella culla, con le sue lacrime il neonato lancia un messaggio, formula una domanda. Spesso è infelice perché si sente solo. E questa sensazione corrisponde, sia pure in modo ancora fisico, a un sentimento di totale abbandono, come se sprofondasse in un vuoto opaco, privo di immagini, di riferimenti. Piangendo cerca allora un appiglio per uscire dalla sua improvvisa disperazione. La comparsa di una figura materna gli è necessaria per ricostituire la fiducia di base, per sentirsi capace di vivere. In un primo tempo sarà convinto che è stato il suo pianto a far materializzare la madre e si sentirà onnipotente. È una illusione, la sua, ma una illusione necessaria, almeno in questa prima fase della sua vita, quando non riesce ancora a distinguere se stesso dalla madre. E si confonde con lei, col suo seno, la sua voce, il suo sorriso.
Ci sono altri motivi che scatenano strilli e lacrime nel bambino, oltre al senso di abbandono?
Certamente. Un bambino può piangere anche per una causa opposta: per un sovraccarico di tensione, quando c’è troppa gente intorno a lui ed è frastornato da voci, rumori, luci, da un eccesso di stimoli. Nel suo grido affiora allora la nostalgia di quel paradiso perduto che è stato per lui, fino a poco prima, l’utero materno, di cui conserva ancora la memoria sensoriale di totale appagamento e quiete. Sensazioni che la madre può ricreare, almeno per un poco, isolandosi con lui, lontano da tutti, in un angolo tranquillo dove il piccolo può calmarsi tra le sue braccia.
A volte il neonato piange in modo così irrefrenabile che non si riesce a calmarlo: tutto intento a sfogare la sua rabbia, sembra quasi respingere ogni tentativo di consolarlo. «Che cosa si può fare per lui?», si chiedono allora i genitori che si sentono esclusi e incapaci.
Per un bambino piccolo il pianto non è solo un mezzo di comunicazione, un modo per dialogare con la madre. Talvolta è anche una necessità: gli serve per scaricare l’ansia e acquietarsi a poco a poco. Anche quando lo teniamo in braccio, gli parliamo, lo coccoliamo, spesso non smette di piangere, ma continua, fra sé e sé, in modo sempre meno disperato, più pacato. Perché fargli fretta? Lasciamogli tutto il tempo di cui ha bisogno per rassicurarsi. E sentirsi di nuovo felice.
Non è strano che ci siano momenti in cui il neonato preferisce isolarsi nella sua rabbia «inconsolabile», staccando i contatti con il mondo. Come non è strano che in altri momenti appaia lontano, enigmatico, quasi intento a riflettere fra sé e sé. E non gradisca che si faccia irruzione nel suo isolamento. Sono momenti preziosi, che è bene rispettare, senza interferire. È il modo in cui il neonato comincia a elaborare il suo «segreto», a costruire il suo nucleo interiore più profondo formando dentro di sé le sue prime immagini mentali. Inutile quindi sentirsi esclusi o incapaci: meglio tenersi in disparte, attenti al primo segnale di richiamo. E pronti a riprendere il dialogo.

Un linguaggio da decifrare

Soprattutto all’inizio, il pianto del bambino ha il suono di una lingua straniera, difficile da decifrare. Come coglierne il vero significato per poter rispondere nel modo più adatto, più giusto?
Per quanto possa, a volte, apparire indecifrabile, siamo di fronte a un linguaggio universale, che non conosce confini. Tutti i neonati strillano allo stesso modo, forse perché hanno tutti gli stessi bisogni, e, probabilmente, gli stessi desideri: cibo, calore, pulizia, le cure necessarie alla loro sopravvivenza. Ma anche desiderio di contatto fisico, di gioco, di dialogo, di tenerezza, altrettanto importanti per imparare a vivere.
Quando i bambini piangono, la loro domanda non è mai precisa e circostanziata. Sentono un disagio vago, oscuro, una tensione senza immagini che proviene dall’interno del corpo e perciò si contorcono, lanciando una serie di strilli privi di contenuto. La loro voce esprime qualcosa di confuso, una inquietudine diffusa, che prende forma, almeno inizialmente, dalla risposta che ricevono.
A vagiti più o meno simili ogni mamma risponde a modo suo e, straordinariamente, il più delle volte è il modo giusto. Perché? Loro stesse non saprebbero darne una ragione convincente. «È la reazione che mi viene più immediata, spontanea», si limitano a dire. E spesso è proprio la spontaneità che guida verso la risposta più adatta al bambino, in quel momento.
Perché la madre è capace più di chiunque altro di tranquillizzare il suo bambino?
Esiste tra madre e figlio una segreta sintonia che si è costituita a poco a poco nel corso della gravidanza. Hanno vissuto insieme nove mesi. E in questo periodo si è formata tra loro una relazione esclusiva e profonda, che non si interrompe con la nascita. Ma continua attraverso modi ed espressioni diversi: dopo il dialogo viscerale e ininterrotto della vita prenatale, quando ancora l’uno si fondeva interamente nell’altro, inizia ora una comunicazione nuova, a due, seguendo il leitmotiv della domanda infantile e della risposta materna. Col suo pianto, il bambino cerca soprattutto di ristabilire un contatto con la madre, riallacciando il filo di un dialogo che sembrava spezzato.

Anche il papà può consolarlo

Questo significa che solo la mamma può occuparsi nel modo migliore del neonato che piange?
No di certo: può occuparsi del neonato il padre, con altrettanta sensibilità e attenzione. Ma anche chiunque non sia estraneo al piccolo e abbia verso di lui un atteggiamento tenero, affettuoso, disponibile. Naturalmente la figura più importante per il bambino, soprattutto nei primissimi anni di vita, resta la madre. Tuttavia può essere sostituita, quando è necessario, da un’altra figura materna.
Non bisogna poi dimenticare che il rapporto madre-figlio non è statico, sempre uguale a se stesso, immutabile. Inizialmente la madre deve essere aiutata a mantenere e consolidare il suo attaccamento al piccolo standogli vicino un tempo sufficiente perché si stabilisca tra loro un legame privilegiato, un canale di comunicazione così intenso e sicuro da reggere tutte le successive separazioni.
Vi è però il rischio che la donna si senta sola e, soprattutto se è molto giovane, imprigionata nella funzione materna. Per evitarlo bisogna sostenerla affettivamente e aiutarla materialmente: anche dandole il cambio nelle cure del bambino, quando si sente troppo stanca. O ha bisogno di distrarsi.
Vi sono poi alcune mamme talmente possessive che non tollerano di essere sostituite neppure per un attimo. Preferiscono crollare piuttosto che chiedere aiuto. Come ho già detto, la capacità di ammettere la propria insufficienza aiuta invece il padre a inserirsi nella coppia madre-figlio, a responsabilizzarsi, a sentirsi anche lui indispensabile.
Per alternarsi nella cura del bambino è bene stabilire dei «turni» fra moglie e marito? E decidere, ad esempio, «a chi tocca» alzarsi di notte, preparare il biberon, portare il piccolo a passeggio?
È inutile decidere a tavolino se, di notte, debba alzarsi il padre o la madre e così via. Meglio trovare un ritmo spontaneo, un’intesa profonda piuttosto che affidarsi a una contrattazione di tipo aziendale, sempre inadeguata ai rapporti nella famiglia.
E se la madre si sente stanca, depressa, nervosa, come potrà affrontare questo compito così coinvolgente?
Innanzitutto cercando di non colpevolizzarsi per questi sentimenti negativi. La madre perfetta non esiste e, potremmo dire, «per fortuna!». Sappiamo che elementi di aggressività, corretti dalla tenerezza, servono per mettere in moto un progressivo allontanamento dal bambino, per ritornare a rivolgere i propri interessi al marito, agli altri figli, alla casa, al mondo esterno. Tuttavia le mamme fanno fatica ad accettare i propri limiti. Molto più dei padri.
È una nottataccia quella che sta vivendo la famiglia di Fabio, un neonato in preda al suo primo raffreddore! Entrambi i genitori sono accorsi più volte al suo pianto. All’ennesima chiamata, il padre mormora, cercando al buio le ciabatte: «Stavolta lo strozzo!». Poi, dopo averlo calmato, ritorna a letto e riprende subito sonno. Quando è la volta di Patrizia, la sua giovane mamma, anche lei pensa stizzita: «Che rompi…!». Ma subito si sente in colpa per questa ostilità: teme di far male al bambino e di essere oscuramente punita per la sua inadeguatezza. L’ideale della mamma perfetta la opprime con le sue eccessive pretese, impedendole di prender sonno e… di essere, il giorno dopo, una mamma «abbastanza» buona.

La risposta «giusta»

Quasi ogni mamma oggi ha qualche nozione di puericultura e di psicologia infantile: che uso può farne?
Questa cultura diffusa ha cambiato profondamente il modo di allevare i bambini. Rispetto al passato, vi è maggior conoscenza dello sviluppo infantile, più attenzione per le esigenze dei piccoli, più consapevolezza dei nostri errori ma anche delle possibilità che ci sono date di aiutarli a crescere nel modo migliore. Tuttavia le norme astratte e generiche, per quanto convincenti, vanno sempre ritagliate a misura di quel particolare bambino. Sta alla madre trasformare le informazioni che ha ricevuto dagli esperti nei gesti più adatti al piccolo, e più adeguati a quel momento, quel luogo, quella determinata circostanza. E questo avviene di solito in modo quasi spontaneo.
Vi è infatti una capacità materna, chiamata empatia, che consiste nel mettersi nei panni del piccolo, nel sentire il suo disagio come se fosse il proprio, nell’accogliere dentro di sé il suo malessere. Sappiamo che, quando il neonato strilla rattrappendo le gambe, probabilmente è in preda a dolori viscerali. Ma è ben diverso applicare la nozione appresa da un libro, in modo asettico, astratto, e cercare invece di comprendere la sofferenza che il bambino ci comunica in modo così diretto, immediato.
La mamma non è solo corpo accogliente, ma anche mente capace di ricevere il dolore, la rabbia, l’angoscia senza nome e di restituirle al piccolo «metabolizzate», cioè rese tollerabili, accettabili. È lei che pensa al posto del bambino, o meglio, insieme a lui, filtrando le sue emozioni, almeno fino a quando non sarà in grado di farlo da solo.
Tutto quello che sa può esserle di aiuto soltanto se non diviene un ricettario, se non la induce a cercare la reazione giusta, la risposta esatta, al di fuori del dialogo con il suo bambino.
Se non esiste la risposta esatta, esistono però infiniti modi per rispondere al pianto di un bambino… E non tutti lo consolano, lo rassicurano, lo acquietano. Anzi, a volte sembrano ottenere l’effetto contrario.
È vero. Può succedere, quando la mamma si sente inghiottita nella spirale di angoscia che il bambino comunica con il suo pianto. L’ansia, l’inquietudine che le si leggono in viso, che traspaiono dalla sua voce e dai suoi gesti, vengono così trasmessi al piccolo, che assorbe ogni sua emozione come una spugna. E questo, invece di rassicurarlo, non fa che accrescere il suo disagio.
Non dimentichiamo che il bambino «valuta» ogni esperienza anche attraverso le reazioni della madre. Reazioni che possono essere incontrollate, soprattutto quando viene svegliata di soprassalto nel cuore della notte, oppure quando il bambino è malato. È opportuno in ogni caso fermarsi un attimo, ricomporsi, respirare a fondo, uscire dal sonno, dal sogno o dal panico prima di entrare nella stanza del bambino e di chinarsi sulla sua culla. Il piccolo, così vulnerabile, ha bisogno di trovare nell’adulto tranquillità, sicurezza, fiducia in se stesso… speranza.

Le reazioni del bambino

Quali sono i comportamenti più adatti per restituire al bambino tranquillità e sicurezza?
Per consolare il figlio ogni mamma trova il modo per lei più spontaneo e naturale. Quello che ha sperimentato con piacere nella sua infanzia, ma anche quello che avrebbe desiderato e che invece le è stato negato. Molte volte, il gesto più immediato consiste nel prenderlo in braccio, stringerlo al seno, accarezzarlo, baciarlo sulle guance, come per contenere le sue ansie attraverso il contatto fisico e la tenerezza che esprime.
Ciascuna ha poi un suo particolare linguaggio affettivo. C’è la mamma «nutritiva» che tende a calmare il disagio del bambino con qualcosa di dolce e di caldo, la mamma «termica» che lo copre sino al mento e quella «motoria» che lo culla al ritmo del suo passo, portandolo avanti e indietro per la stanza e così via. In ogni caso, il bambino si acquieta più facilmente se la mamma accompagna i suoi atti con parole dolci, vezzeggiativi, interiezioni pacate, espressioni ripetute. La parola, carica d’affetto, può essere un farmaco portentoso. Da piccoli come da grandi.
E i bambini, come reagiscono ai differenti comportamenti materni?
Molto dipende dal loro temperamento: non sempre ciò che va bene per l’uno soddisfa anche l’altro. Continuando a lamentarsi, il piccolo comunica alla mamma la sua «disapprovazione». E lei reagisce di conseguenza, modificando il suo atteggiamento. Ma, nella maggior parte dei casi, i bambini si adeguano ai comportamenti materni, li interiorizzano, li fanno propri.
È curioso notare come le prime risposte materne tendano a conformare i modi con i quali il bambino, più tardi, cercherà di consolarsi dalle frustrazioni. L’ipernutrito chiederà qualche cosa di buono da mangiare: «Mi dai una caramella?». E, molti anni dopo, una sigaretta, un bicchiere di whisky… Qualcuno indosserà due golf o si avvolgerà in una coperta, perché ogni delusione gli suscita un terribile senso di freddo. Un altro ancora si attaccherà al telefono alla ricerca di una voce amica. L’abbraccio, poi, è la forma più immediata e diffusa di consolazione.
È strano, ma in un modo o nell’altro le prime risposte che riceviamo influenzano le domande che poi formuliamo. Il passato non ci determina ma ci condiziona.
Come evitare di condizionare troppo il bambino con i nostri comportamenti?
Sarebbe meglio dare risposte variate, non stereotipate, ai bisogni e ai desideri che il bambino esprime piangendo. Il segreto di una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A piccoli passi
  4. Introduzione
  5. Parte prima. GENITORI SI DIVENTA
  6. Parte seconda. CRESCERE INSIEME
  7. Copyright