G.
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Vi racconto Gaber

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  1. 312 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Questo libro è un evento. Una storia che aspettavamo ci venisse raccontata. Un tuffo in un mondo che suscita nostalgia anche in chi non l'ha vissuto.
A dieci anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber, il suo storico coautore e amico Sandro Luporini rompe l'ormai leggendario riserbo, e dal suo inviolabile rifugio viareggino apre le porte su uno dei più straordinari sodalizi artistici degli ultimi decenni. Svelando un tesoro di cui è il più autorevole custode. Racconta le discussioni, le idee, i dubbi, le storie, qualche volta le coincidenze che hanno dato origine ai loro capolavori: cosa intendevano veramente in certe canzoni troppo spesso fraintese, da dove è nata la battuta "quasi quasi mi faccio uno shampoo", o che "...volevamo dire 'libertà è spazio di incidenza', ma anche senza essere musicisti si capisce bene che una roba così non si poteva proprio cantare". Ma anche i particolari di un uomo fuori dall'ordinario, ironico e curioso di tutto, che lavorava anche quando sembrava fare altro e andava al mare con le Clark. Il bel pretesto narrativo è l'incontro tra Luporini e un ragazzo giovane, attento e appassionato che non ha avuto la fortuna di conoscere il Signor G e la sua epoca. Il risultato è puro Gaber: intelligenza, ironia, e una profondità che appena rischia di diventare pesantezza ha uno scarto, un guizzo, e ritorna meravigliosamente leggera.
G. è quanto di più vero e definitivo si potesse scrivere su Giorgio Gaber. Sandro Luporini riesce nel miracolo di restituirci quello stile, quel gusto, quel modo di vedere le cose che ci ha tanto affascinato, e di cui tanto sentivamo la mancanza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852033216

Anni affollati

“Racconta, Sandro, racconta.”
Quel giorno Lorenzo aveva detto proprio così.
Da un po’ di tempo tra noi c’era una certa confidenza ed eravamo passati al tu. Ci vedevamo quasi sempre a casa mia, dove lui scrutava con cupidigia quella catasta di libri, i miei, che ci sommergeva. Avevo paura che prima o poi me ne rubasse qualcuno, tanto gli piaceva guardarli e toccarli, ma non era nel suo stile. “Alla fine di questa storia” pensai “gliene regalerò uno.” Non era mica generosità la mia. È che per combinazione ce l’avevo doppio.
In quei giorni Lorenzo decise di prendere una stanza all’hotel Plaza: una scelta simbolica, piuttosto gaberiana. Una volta gli ho domandato se lì avesse per caso conosciuto il signor Quindi. Macché, i rompicoglioni capitano solo a me e a Giorgio.
Facevamo ancora lunghe passeggiate sul mare, ma non erano più peripatetiche, erano paritarie. Voglio dire, io non ero più il maestro che lui seguiva e interrogava con la riverenza dell’allievo ossequioso. Noi due eravamo ormai solo due persone che camminavano in riva al mare; anzi, due amici. Lo so che si sbaglia sempre a dare troppa confidenza: si perde di autorevolezza. Troppo tardi, l’avevo già fatto. Ogni tanto, infatti, mi prendeva in giro per i miei toscanismi, proprio lui con quella erre mandrogna, licenza non poetica, licenza alessandrina.
Oltre alla confidenza c’era ormai tra noi una scherzosa competizione a chi conoscesse più canzoni del repertorio italiano d’autore. Mi aveva anche detto che l’anno seguente gli sarebbe piaciuto andare a Genova, per conoscere Fossati. Gli ho detto bene, ma non ero di buon umore. Io i gaberiani li preferisco un po’ più monotematici.
Sì, Lorenzo, racconto, racconto.
Dunque, estate 1979: dopo la tempesta, la quiete. Lo diceva anche Leopardi.
Quell’estate fu per noi diversa dalle altre: portare a termine la stagione di “Polli di allevamento” era stata davvero una fatica e Giorgio ne aveva ancora i segni addosso. Nonostante Casellato avesse più volte provato a convincerlo a portare in giro lo spettacolo anche per la stagione successiva, Giorgio proprio non ne voleva sentir parlare. Casellato – forse con qualche ragione – sosteneva che, con il secondo anno e con il naturale sedimentarsi di tutto quel livore, il clima sarebbe stato molto diverso. Giorgio, però, aveva sofferto troppo in quegli ultimi mesi e anche il lontano timore del ripetersi di una situazione simile lo induceva a mantenere il suo proposito di non replicare più. Alla fine decise infatti di non dare seguito a “Polli di allevamento” e confermò che l’anno successivo, dopo nove anni di stagioni consecutive, si sarebbe fermato.
Noi ci trovammo ancora una volta a Viareggio, ma in una situazione del tutto diversa da quella di ogni altro anno. Non avevamo alcun impegno immediato e potevamo approfondire meglio quello che ci vedevamo succedere intorno. Fu in quell’estate che maturarono tra noi le prime discussioni che avrebbero portato più tardi alla nascita di Io se fossi Dio.
Nonostante tutto continuammo a fare quello che avevamo sempre fatto, benché i luoghi fossero cambiati: dopo tante estati in albergo, Giorgio e Ombretta si erano decisi a comprare una casa in campagna, nella collina appena sopra Camaiore. Fu quella la prima estate che passammo alla Padula. Questo era, ed è ancora oggi, il nome della casa di Montemagno che Giorgio e Ombretta scelsero per il periodo estivo.
Non ricordo con esattezza quali, ma scrivemmo lì alcune delle canzoni che sarebbero uscite circa un anno dopo, nell’ottobre del 1980, in un disco in studio dal titolo “Pressione bassa”. Ho sentito dire, da quelli che si pretendono più informati di me e di Gaber, che Giorgio avrebbe manifestato in quel periodo l’intenzione di smettere con il teatro, o perlomeno con quel tipo di formula teatrale che aveva caratterizzato gli anni precedenti.
È una scemenza.
È vero però che lui allora sentì il bisogno di una pausa e che a tutto quello che era accaduto dopo la tempesta di “Polli di allevamento” doveva necessariamente seguire un periodo di silenzio. L’idea che Giorgio volesse abbandonare il teatro invece non ha alcun senso.
La pausa durò due anni, ma noi continuammo a lavorare.
Dopo “Pressione bassa”, nell’ottobre del 1981, uscì un secondo disco, “Anni affollati”. Il titolo era un chiaro riferimento al decennio che si era appena concluso e che si era lasciato dietro tanti rimpianti e speranze disattese, insieme a una pesante e artificiosa complessità da cui sentivamo il bisogno di allontanarci definitivamente.
Se, a distanza di tanto tempo, vado a rileggere i titoli delle sedici canzoni che componevano i due album, ne trovo almeno tre che io ritengo in assoluto tra le più importanti del nostro lavoro: L’illogica allegria, Il dilemma, Gildo.
A quest’ultima sono affezionato in modo particolare, sia per l’efficacia emotiva che riusciva ad avere in teatro, sia per la canzone in sé, per il suo significato che si può estendere anche al nostro modo di socializzare oggi. In strada in mezzo agli altri, in autobus, in un condominio dove non conosci nemmeno quelli della porta accanto, in uno stadio insieme a ottantamila persone, in una spiaggia gomito a gomito con tutti, a volte persino in una famiglia – insomma, in questa nostra vita, diciamo pure, moderna –, tutto quello che accade si potrebbe chiamare la solitudine dell’uno accanto all’altro. Invece, è strano ma è così, in certe aggregazioni forzate come, non so, il servizio militare o le grosse camerate di un ospedale o forse persino in un carcere, insomma, in tutte quelle situazioni di disagio in cui sei costretto a condividere la tua quotidianità con persone diversissime da te, che non hai scelto ma che ti sono capitate, ecco, in questi casi possono accadere dei piccoli miracoli che hanno a che fare con il senso più vero e profondo della parola solidarietà. Ma di questa parola ti parlerò più avanti, Lorenzo. Adesso torniamo alle aggregazioni forzate.
Quando mai io, viareggino, con le mie abitudini, le mie inclinazioni e la mia estrazione sociale borghese anche, sarei potuto diventare amico di un giovane contadino del bresciano se non fosse perché era il mio vicino di branda al centro addestramento reclute? A parte la difficoltà del dialetto – per almeno una settimana non ho capito niente di quel che diceva – devo dire che stranamente, in mezzo a quell’idiozia che è il servizio militare, nacque tra noi un’amicizia che ricordo a distanza di anni. Ancora una volta, vedi, devo ringraziare il caso.
Ringrazio il caso anche per la canzone Gildo, che nasce appunto in un ospedale e che io e Giorgio chiamavamo “il nostro piccolo capolavoro”. Purtroppo lo dicevamo solo noi, perché poi non ha avuto il successo che a parer nostro avrebbe meritato.
Il brano aveva sì un riferimento teorico alle aggregazioni forzate, però, come sempre, le spiegazioni e le teorie sono venute dopo: prima di tutto c’era un’immagine; un’immagine e un’esperienza personale.
Come vedi, anche per le canzoni è sempre meglio la vita rispetto alle teorie.
Ero in ospedale per una banale appendicite dove mi trattennero per più di due settimane. Ora tutto è cambiato e ti cacciano fuori appena possono perché sembra che sia dimostrato senza dubbio alcuno che guarire o morire a casa costi comunque molto meno. Non importa. Dicevo, Gildo nasce da quella mia esperienza in ospedale. Tutto il resto lo racconta la canzone: dal rapporto tenero e inusuale con un uomo che nella vita non avrei mai incontrato, al silenzio cupo di quando ti muore un uomo accanto, a quel rigurgito vitale necessario per tornare all’esistenza e accorgerti che fuori dalle finestre delle corsie il cielo è azzurro.
Al cielo non interessa molto quello che accade in un ospedale. A me e a Gaber sì. Devo dire che in questo brano Giorgio musicalmente ha dato il meglio di sé. Ora posso dirlo davvero che è un piccolo capolavoro senza sembrare sfacciato, perché io con la musica non c’entro. All’inizio c’è una melodia densa di dolore umano, con qualche corda rabbiosa e qualche pausa di dialogo intimo con l’ormai amico Gildo. All’uscita dall’ospedale, invece, avviene un cambio totale e il clima diventa tenero, struggente e, in un certo senso, purificatore. In quella melodia finale c’è una specie di strano benessere, l’atmosfera di un sogno liberatorio, una sospensione magica che rasenta la poesia. Non sono attrezzato per trascrivere la partitura musicale. Peccato, perché è la cosa più emozionante. Grazie, Giorgio.
Il cielo era azzurro e teso
e le mie gambe strane, senza peso.
Attraversavo il giardino tremante
come in un sogno riposante.
Gli occhi delle nuove madri luccicavano
e i grossi seni sotto le vestaglie biancheggiavano.
Solitario avvertivo quel candore, quell’aria di purezza
e il cielo era azzurrino e c’era un po’ di brezza
e stranamente un senso d’amore che non so dire.
Durante l’autunno del 1979 Gaber ricevette una proposta dalla RAI. Volevano registrare alcune puntate che sarebbero state un riepilogo del suo percorso teatrale di quegli ultimi dieci anni. Non avendo in programma alcuna tournée, Giorgio decise di accettare.
Nacquero così le “Due retrospettive”, come le chiamo io brevemente: il titolo degli speciali RAI era lungo un chilometro e troppo complicato per poterlo ripetere.
Si trattava di una sintesi in due parti: la prima riprendeva i brani più significativi di “Far finta di essere sani” e di “Anche per oggi non si vola”; la seconda, invece, si basava sugli ultimi due spettacoli, “Libertà obbligatoria” e “Polli di allevamento”, salvo la rinuncia a Quando è moda è moda, troppo livorosa perché il riproporla più di un anno dopo averla scritta potesse avere ancora un senso. La sostituimmo con un brano tutto nuovo, Non è più il momento, che ribadiva il nostro distacco dal movimento – che, peraltro, alla fine del ’79 non esisteva più già da un pezzo –, ma in cui la rabbia aveva lasciato spazio a una constatazione dolorosa e rassegnata del fallimento.
Le registrazioni delle “Retrospettive” furono fatte al Lirico di Milano con la regia teatrale di Carlo Battistoni nella primavera del 1980 e andarono in onda nell’autunno di quello stesso anno, credo a un orario impossibile.
A quel tempo non si misuravano ancora gli ascolti, ma, se mi chiedi come andò, posso dartene un’idea senza dati Auditel. Il nostro lavoro in televisione non ha mai avuto un gran successo, si sa, e alla fine credo anche che sia giusto così, nel senso che ne abbiamo sempre capito i limiti, ma non abbiamo mai trovato un modo per superarli. Questo per me non ha mai costituito un vero rimpianto. Giorgio, invece, ogni tanto ci ripensava: a istinto sentiva che ci doveva essere un modo per rendere più televisivo il suo lavoro, almeno rispetto a quanto aveva appena visto con le “Retrospettive” RAI.
È molto difficile proporre un lavoro teatrale in televisione, perché teatro e televisione hanno due linguaggi completamente differenti. Anche se non è vero in assoluto che non si possa riuscire a fare bene qualcosa di teatrale in televisione. Mi viene in mente Marco Paolini, che con i suoi spettacoli riesce a tenere incollati al video per più di due ore tanti spettatori. Ma, in generale, è una cosa molto difficile.
Ecco, a Giorgio sarebbe piaciuto riuscirci e quando capitava che me ne parlasse percepivo questa sua intima frustrazione, considerando soprattutto che non lavorava più in teatro da due anni. Però non riuscivamo proprio a trovare una chiave che ci soddisfacesse.
Se devo dirti la verità, Lorenzo, oltre all’aspetto televisivo spesso abbiamo trascurato altre questioni che allora ci sembravano irrilevanti, ma che oggi per me, e credo per te e per tanti altri giovani che allora non c’erano, costituiscono un vero rimpianto. Oggi infatti mi dispiace che di tanti spettacoli dei primi anni Settanta, ma anche di qualcuno già degli anni Ottanta, non ci sia un’adeguata documentazione filmata. Deve essere stata colpa della nostra malattia ossessiva: quell’urgenza che ci sentivamo dentro di tornare sempre e solo lì, a teatro. Tutto il resto ci sembrava inutile. È vero, se io adesso mi metto qui con te a cercare dei motivi per questa dimenticanza credo di potermela cavare bene. Potrei dirti che noi stessi non avevamo la sensazione di essere dentro un percorso così lungo e articolato o che non ci piaceva l’idea di celebrarci. Tutto questo però mi suona oggi come un alibi a posteriori, una difesa confezionata dopo. La verità è che io e Giorgio non avremmo neppure mai immaginato che, a dieci anni dalla sua morte, c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. G.
  3. Il signor G
  4. Dialogo tra un impegnato e un non so
  5. Far finta di essere sani
  6. Anche per oggi non si vola
  7. Libertà obbligatoria
  8. Polli di allevamento
  9. Anni affollati
  10. Io se fossi Gaber
  11. Il Teatro Canzone
  12. E pensare che c’era il pensiero
  13. Un’idiozia conquistata a fatica
  14. La mia generazione ha perso – Io non mi sento italiano
  15. Postfazione di Roberto Luporini
  16. Per conoscere Gaber e Luporini...
  17. Crediti delle canzoni
  18. Ringraziamenti
  19. La Fondazione Giorgio Gaber
  20. Copyright