Nuovi Argomenti (50)
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DUE O TRE COSE SU ALBERTO A.: 4 punti di vista su Arbasino

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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DUE O TRE COSE SU ALBERTO A.: 4 punti di vista su Arbasino

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Edoardo Albinati, Raffaele Manica, Emanuele Trevi, Leonardo Colombati, Francesco Pacifico, Alessandro Piperno, Alberto Moravia, Alessandra Grandelis, Giulio Soravia, Fikar W. Eda, Sapardi Djoko Damono, Isma Sawitri, Goenawan Mohamed, Diah Hadaning, Rayani Sriwidodo, Sitok Srengenge, Matteo Trevisani, Silvia Avallone, Giuseppe Zucco, John Ashbery, Franco Sepe, Errico Buonanno, Alessandra Cenni, Sossio Giametta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035708
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SCRITTURE

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QUALCOSA INVECE CHE NIENTE

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di Matteo Trevisani

Quando uno si ritrova in un letto d’ospedale, giovane giovane, quasi vergine delle cose del mondo, con una flebo attaccata al braccio sinistro e un sacco di macchine collegate al busto, neanche fossi una macchina anche tu bisognosa di propellente per via endovenosa, penso che sia normale mettersi a pensare alle cose che sono fatte per non tornare più. Non solo ai sentimenti, o agli episodi di vita. Anche agli oggetti. Le caramelle Rossana, la tavola della Singer, l’eskimo del secondo superiore. A tutta la roba che finisce, a tutti gli scatoloni con i quaderni delle elementari o le biciclette che alla fine non hai mai venduto. Tutto finisce, o così almeno ti dicono. L’unica cosa che dura per sempre è l’instabilità e su questo sono d’accordo. L’instabilità mi piace. Mi permette di conciliarmi coi miei errori, giustificano il mio volerli con me ovunque vada, tipo nei, tatuaggi o mazzi di chiavi.
Ma quando uno si ritrova in un letto d’ospedale, e hai appena passato i tuoi primi vent’anni, e i problemi si chiamano ancora accidenti (nel senso filosofico del termine), ti viene il dubbio che le cose che sono passate sono anche quelle che probabilmente saranno le prime a non voltarsi e a non tornare indietro.
Poi, no, onestamente cominci a non crederlo possibile, anche se effettivamente siete solo in due nel reparto di terapia intensiva e se giri lo sguardo verso la tua sinistra facendo attenzione a non staccare tutti i tubicini, puoi distinguere perfettamente il movimento della tendina che si muove al respiro dell’ottuagenaria malata di cancro terminale che per tua fortuna non passerà la notte. Cominci a immaginarti il peggio, forse perché la troppa soluzione salina ti ha rammollito e le infermiere sono sempre più attraenti ogni ora che passa e hai paura che l’erezione si noti perché sei completamente nudo sotto il lenzuolo bianco ma alle fine te ne fotti e diventi uno che è sempre stato contro la scienza, la distruzione e la logica narrativa. Al contrario, ti stupisci nell’accorgerti che hai sempre creduto nella forza della vita che ritorna, nell’astrologia e nel karma e non sai perché ma ti saresti comprato volentieri uno di quei assurdi giardinetti zen con la sabbia le pietre e il rastrellino di legno. Inizi a pensare che la morte non porta via niente, la fine non è che enif scritto al contrario. Riflettendoci seriamente, puntando cioè il dito contro la famelica linearità del tempo (fin dalle elementari, no?, a sinistra tutti gli Avanti Cristo e i d.C. a destra con in mezzo l’arrogante morbidezza dello zero), tutto ciò che è stato dovrà in qualche modo non tornare più. Peggio. Tutto quello che è stato non è mai successo veramente: esattamente a causa di questo gli orecchini che ho perduto alla mia prima ragazza torneranno sulla mia scrivania, per questo mio nonno riuscirà prima o poi a finire di raccontarmi quella storia d’Italia anni ‘50, per questo il fegato ricresce, le mamme allattano e le persone hanno, da un po’, smesso di morire sul serio.
È una cosa complicata, su questo non c’è alcun dubbio. Ed è anche vero che le cose complicate sono moltissime. Per esempio è complicato e difficilissimo indovinare la distanza da cui puoi guardare le persone per farle risplendere. Molti hanno bisogno di una grande distanza, per risaltare in mezzo al niente, o in mezzo al tutto. Per altri c’è bisogno della distanza di un indice, o di un gomito, perché ci si accorga di una cicatrice sulla guancia, o di una collana strana. Deciderlo in fretta è una cosa che ti fa sbagliare. È anche vero che non è che ci si possa ragionare molto, bisogna essere fortunati. Bisogna prendere una decisione, subito e alla svelta, anche chi non è abituato a essere tutt’uno con l’istinto. Io e Claudia per esempio eravamo distanti al punto giusto, senza mai essere lontani.
Tornando alle cose che sono complicate, è anche complicato azzeccare le dosi precise di liquore da versare in un bicchiere da cocktail. C’è la regola, le parti scritte su un manuale per barman, e poi ci sono i gusti, le tendenze, le depressioni. A me per esempio piacciono le cose con tanto ghiaccio senza troppi mischiumi, ma niente rum che è troppo dolce, o tequila che ha un sapore troppo strano (e una volta, bevuta troppo calda mi ha fatto vomitare dopo anni che non succedeva).
A ciascuno la sua dose di ovvietà.
Il problema del rifuggire dal troppo non è una domanda da porsi con troppa (di nuovo) attenzione: nessuno sarà mai in grado di dare una risposta quantomeno oggettiva.
Ora che ci penso. Davanti a qualsiasi domanda.
L’unica risposta seria sarebbe il silenzio.
È questo quello che succede.
È per questo che c’è qualcosa piuttosto che il nulla.
Venerdì sera non uscire non è stato un problema, anche se sono stato indeciso fino all’ultimo. Poi ho optato per un tè e mi sono messo a pensare che se mai avrò un monolocale mi piacerebbe che per terra ci fosse legno chiaro, legno grezzo, e mi piacerebbe anche avere un soppalco. Ho guardato la tazza di tè che stavo sorseggiando sul divano, nel salotto che condivido con un numero imprecisato di persone, e alla fine mi sono alzato e mi sono versato un gin tonic senza ghiaccio. Il parquet puoi anche averlo visto in qualche film, ma non puoi desiderare per davvero anche quella vita sana e semplice dei libri dove tutti i tuoi amici sono artisti e vengono con te al concerto dei Brunori Sas, dove i doposbornia sono amici cordiali che se ne vanno subito dopo pranzo, e per Natale la tua ragazza ti regala la lampada della Kartell. Certe cose sono più complicate.
La situazione era quella che era. Venerdì sera piovoso, muffe sul soffitto di questa casa in vendita con solo due termosifoni, pacchi di libri noiosissimi da leggere per lavoro e uno strano senso di affaticamento proprio sotto la gola.
Voglio dire, puoi anche fingere, ma quando si tratta di fare i conti con la mia interiorità ho sempre cercato di restare dalla parte dell’onestà radicale e della sindrome di Tourette.
Claudia è venuta a prendermi con mezz’ora di ritardo, il che non costituisce un problema. Senza salutarla appena salgo in macchina le dico
«Con chi mi hai tradito oggi?».
«Vediamo… prima col ragazzo delle poste, poi con l’amante di mia madre, e ho fatto un pensierino anche sul cinese che mi ha portato il pranzo»
«Mh».
«E tu?» Mi chiede Claudia sorridendo.
«Oggi niente, non ne sono stato capace, mi è mancato lo slancio». Ed è vero, con questo dolore al petto la masturbazione è da escludere. La guida di Claudia è nervosa ma a guardarla in faccia non si direbbe. Fuma tranquilla e ogni tanto si tocca il polso destro, così mi metto a immaginare che stanotte si sia fatta legare da uno sconosciuto e ancora il polso le faccia male a causa del nastro. Senza farmi vedere le spio la pelle sottile. Pare che non ci sia niente. È difficile non lasciare segni, quindi mi complimento con lo sconosciuto e chiedo
«È tutto pronto?».
«Quasi» risponde lei pensandoci un attimo, dopo aver ricontrollato mentalmente tutta la lista delle cose da comprare. «Manca solo da comprare la cena. Che ti va di mangiare?».
«Qualcosa di leggero» rispondo, «che non mi sento tanto bene oggi».
«Che c’hai?» mi domanda Claudia senza prendersi la briga di fingere interesse.
Io e Claudia siamo una coppia strana. Benché ormai saranno quasi sei mesi che stiamo insieme, ancora non sappiamo quasi niente l’uno dell’altra. Lo facciamo pochissimo, e a nessuno dei due questo sembra un problema, ma ci piace stare insieme a parlare. È quasi un esercizio stilistico. Parliamo di un sacco di cose fuorché di noi. So le sue idee sulla politica, sulla religione, i suoi gusti in fatto di libri (una sera le ho regalato il Paesano di Parigi e mi sembra che le sia piaciuto) ma ignoro del tutto quale sia la sua situazione familiare, quanti ragazzi abbia avuto prima di me, o quale sia il grande sogno della sua vita.
«Mi fa male la spalla sinistra, e il petto» dico, toccandomi sotto la gola con la mano aperta a sentire il cuore.
«Saranno le sigarette, dovremmo smettercela»
«Smettila tu» le dico, «di qualcosa si dovrà pur morire».
Mi sa che Claudia ha già sentito dalla mia bocca questa uscita di finto cinismo, ecco perché non mi risponde nemmeno con uno sguardo. Il resto del tragitto lo passiamo in silenzio, solo ad ogni frenata, per la paura, io agguanto la maniglia della portiera e mi stringo nelle spalle. Ora faccio anche fatica a respirare.
Mi accendo una sigaretta e non ci penso.
Claudia ferma la macchina davanti a un sushi bar di modesta qualità, «aspetta in macchina» mi dice, cosa che faccio volentieri perché sto iniziando a sudare. Mentre la aspetto i miei piedi toccano una busta di plastica. La prendo e la apro. Sono gli oggetti che ci servono per stasera. È vero, c’è tutto. Lacci di raso, candele bianche, olio profumato, preservativi, c’è anche lo scontrino di una panetteria, ma non dovrebbe entrarci nulla, una bottiglia di Traminer, un libro per la meditazione con i cristalli e un foulard nero. Mentre tocco i nastri di raso lei rientra in macchina porgendomi una porzione di sushi da 40 euro. So quanto ha speso perché c’è scritto sulla confezione.
Mi sorride di nuovo. «Ci siamo» dice contenta, «è tutto pronto».
Io Claudia l’ho conosciuta su internet. Ma ormai mi sono inventato la sua storia ed ormai è vera.
È una ragazza invernale. Di quelle che d’estate spariscono. L’ho conosciuta una volta che stavo passeggiando con un cane che non ho sulla spiaggia del mio piccolo paese sulla costa est. La prima volta che l’abbiamo fatto mi ha portato nella mansarda dei suoi nonni, che guarda caso abitano proprio dietro casa mia. Dal divano, attraverso la vetrata, si poteva vedere un pezzettino di spiaggia. Abbiamo parlato dei cani e della noia autunnale e del vapore acqueo che contorna la città quando il mare è in festa. Portava dei jeans chiarissimi, un maglioncino rosso e solo un orecchino di perla. Il seno è modesto, elegante, di quelli che si indovinano sotto la felpa di qualche università americana di una cheerleader la domenica mattina presto.
Penso che il Gin Tonic a digiuno mi abbia spaccato lo stomaco. E che sia per questo che mi fa male. Arriviamo comunque a casa sua senza fare incidenti. Il letto è fatto, e al centro della stanza c’è la sua scrivania messa a mò di tavolo da pranzo. Non dobbiamo preparare nulla. Claudia scompare in cucina e torna con le bacchette, due piatti quadrati e la bottiglia di vino stappata.
Questo già lo ricordo in maniera confusa.
«I Californian Roll mi fanno schifo» dice Claudia appoggiando il tutto sulla scrivania-tavolo da cena.
«Claudia, devo dirti una cosa». Claudia fa una faccia strana. «No, tranquilla, niente di serio».
Il viso le si rilassa all’istante e dice
«Dimmi»
Io traggo un lungo, lamentoso, sibilante, difficile respiro e dico
«Potresti portarmi all’ospedale?».
Ricordo che mi guarda con disprezzo e si alza a prendere il cappotto.
* * *
«Fortuna che c’era la tua ragazza», mi dice il dottore quando riesco a capire quello che mi succede intorno.
«Non è la mia ragazza», dico io. «L’ho conosciuta su internet». Ma il cuore era collassato sul serio, mica per finta. Ero appena uscito dall’ospedale, ma non mi sentivo ancora del tutto apposto.
Due giorni di terapia intensiva non erano bastati. Claudia si connetteva poche volte al giorno e e non mi chiese nemmeno una volta come stessi. Se rovini il venerdì sera a una ragazza del genere puoi anche dirle addio. Non gliene feci mai una colpa. Sei mesi cancellati con una miocardite. So per certo che a qualcuno dev’essere andato peggio, se il cuore non regge la botta figuriamoci il cervello.
Anche se sentivo ancora la cardio aspirina che mi pompava nelle vene, sapevo che non avrei dovuto sforzarmi troppo. Il medico del pronto soccorso, un ciellino di merda, me l’aveva fatta prendere a male. Solo riposo. Bene dico, è quello che mi ci voleva. Torno a casa mia, quella vera, quella dove i miei genitori mi hanno concepito e dove hanno divorziato, quella dove il letto mi sa ancora ripetere a memoria la paura della mia prima volta, quella dove gli amici che non se ne sono andati vengono ancora a farsi invitare a cena.
Direi che è un buon posto per la convalescenza.
Verso la spiaggia il cielo s’è aperto. L’aria carica di pioggia mi bagna i polmoni ad ogni respiro. Cammino verso il sereno, seguendo una linea più dritta possibile. Se mi volto indietro riesco a vedere la stazione, le colline annebbiate e la luce accesa della sua soffitta. Evito di mettermi a ricordare, che la spiaggia serena e vaporosa, il Natale alle spalle, e la luce di una soffitta accesa ancora mi destabilizzano.
Poi, la tendina della malata di cancro affianco al mio letto ha smesso di muoversi.

GIADA

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di Silvia Avallone

Anna: «Non ti devi mettere nel bordello,cioè tu puoi benissimo vivere…».
Francesco: «No, non la voglio cambiare la vita mia…».
Roberto Saviano, Gomorra
1.
Di mattina, verso le undici, riavvolgeva la tapparella della portafinestra e dava un’occhiata da dietro la tenda. Poi, se non c’era troppo trambusto per strada, sbucava fuori intera. Si appoggiava sbadigliando allo stipite del muro e sgranchiva il corpo appena sveglio, ancora sgualcito dal sonno.
Ogni giorno, alla stessa ora, in quell’estate rovente del 2003.
Stendeva un asciugamano sul terrazzo, vi si adagiava com’era: con addosso un vestitino da notte di cotone bianco, oppure con un pigiama estivo a fiorellini azzurri. Uno di quei completini composti da culottes e canotta, la stoffa così leggera da lasciar trasparire molto. Si allungava a pancia insù sulle mattonelle che a metà mattinata dovevano scottare non poco, nell’unico balcone di cui era provvisto il suo appartamento al piano rialzato.
Si portava sempre una radiolina appresso, di quelle a pile con il lettore cd incorporato. Metteva su le canzoni da discoteca che si ballavano quell’estate, anche se in discoteca non aveva ancora il permesso di andarci. Altre volte preferiva Gigi D’Alessio, che sapeva tutto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (50)
  3. DIARIO - Edoardo Albinati
  4. DUE O TRE COSE SU ALBERTO A.
  5. INEDITO
  6. POETI D’INDONESIA
  7. SCRITTURE
  8. RIFLESSIONI
  9. Notizie biografiche
  10. Copyright