La mia vita
  1. 560 pagine
  2. Italian
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Agatha Christie, ancora oggi la scrittrice di gialli più letta, fu una donna appassionata e piena di interessi, molto diversa, per carattere ed esperienze, dal suo «alter ego», l'anziana investigatrice Miss Marple. Come rivela questa autobiografia, l'autrice inglese ebbe infatti una vita indipendente e ricca di avventure, rievocate attraverso una narrazione sincera e avvincente. Dall'infanzia spensierata ai due romanzeschi matrimoni (il primo dei quali, con un giovane aviatore, destinato a finire con un drammatico divorzio) l'esistenza di Agatha Christie si snoda scandita dai lunghi viaggi e dai numerosi libri di successo. Una storia affascinante, che mette a nudo la complessa personalità e la vicenda umana della regina del giallo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035777
1

Ashfield

O! Ma chère maison; mon nid, mon gîte
Le passé l’habite… O ma chère maison
1

I

Una delle cose più belle che possono toccare a una persona è un’infanzia felice. La mia lo è stata molto. Avevo una casa e un giardino che amavo, una bambinaia saggia e paziente e due genitori che si volevano molto bene e che avevano fatto del loro matrimonio e del loro ruolo di educatori un vero successo.
Guardando indietro, devo riconoscere che l’atmosfera di casa nostra era davvero lieta. Il merito era soprattutto di mio padre, che era un uomo assai affabile. Purtroppo si tratta di una qualità che ha perso ogni valore al giorno d’oggi. Alla gente interessa sapere se un uomo è in gamba, se è un lavoratore, se contribuisce al benessere della comunità, se, insomma, è una persona che «conta». Ecco cosa dice Dickens in Davide Copperfield.
«Peggotty, vostro fratello è un uomo affabile?» le chiesi con cautela.
«Oh, molto affabile!» esclamò la signora Peggotty.
Se provate a porvi questa stessa domanda sui vostri amici e conoscenti, sarete stupiti nel notare che solo di rado la vostra risposta sarà simile a quella di Peggotty.
Un uomo come mio padre oggigiorno non sarebbe molto apprezzato. Intanto era pigro. A quei tempi era ancora possibile vivere di rendita: chi ne aveva una, ovviamente, non lavorava. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Comunque ho il sospetto che mio padre non fosse particolarmente tagliato per il lavoro.
Ogni mattina usciva di casa a Torquay, e se ne andava al club. Tornava in carrozza per l’ora di pranzo e, nel pomeriggio, ripercorreva il cammino in senso inverso, giocava a whist tutto il pomeriggio e si rifaceva vivo giusto in tempo per cambiarsi per la cena. Durante la season, passava i suoi giorni al Cricket Club, di cui era presidente. A volte organizzava anche degli spettacoli teatrali. Aveva molti amici, con cui amava stare. Ogni settimana i miei genitori organizzavano una cena a casa, e altre due o tre volte erano invitati fuori.
Solo in seguito capii che mio padre era un uomo molto amato. Alla sua morte arrivarono lettere da ogni parte del mondo, e la gente del luogo, commercianti, vetturini, vecchi impiegati, è andata avanti un pezzo a ripetermi: «Ah, me lo ricordo bene, il signor Miller. Difficile dimenticare un uomo così, non ce ne sono molti come lui, al giorno d’oggi».
Non che si distinguesse per qualche caratteristica particolare. Non era eccezionalmente intelligente, ma aveva un animo semplice e affettuoso e si interessava sinceramente al suo prossimo. Era dotato di un grande senso dell’umorismo e sapeva far ridere. Privo di meschinità, inattaccabile dalla gelosia, era quasi incredibilmente generoso, sereno e naturalmente ben disposto verso la vita.
Mia madre era tutto l’opposto. Dotata di una personalità eccezionale e vagamente enigmatica, molto più forte di quella di mio padre, era creativa e originale, anche se timida e molto insicura e, forse, afflitta da un fondo di malinconia.
Domestici e bambini, le eravamo tutti molto devoti, pronti a obbedire al minimo ordine. Sarebbe stata un’insegnante straordinaria. Aveva il dono di rendere interessante e viva qualsiasi cosa di cui parlasse. Insofferente di ogni monotonia, aveva una conversazione straordinariamente variata, in cui saltava con gran disinvoltura da un argomento all’altro. Come mio padre soleva dirle, non aveva il minimo senso dell’umorismo. A questa accusa rispondeva in tono offeso: «Solo perché non mi diverto alle tue storielle, Fred…», facendolo regolarmente scoppiare a ridere.
Aveva circa dieci anni meno di lui e lo amava teneramente da quando era bambina. Mio padre, allora, era un brillante giovanotto, che divideva il suo tempo tra New York e il Sud della Francia, mentre mia madre, timida e quieta, se ne stava a casa a pensarlo. Ogni tanto gli dedicava una poesia sul suo album e una volta gli ricamò la copertina di un taccuino che mio padre conservò per tutta la vita.
Una storia d’amore tipicamente vittoriana che nasconde, però, una grossa ricchezza umana.
I miei genitori mi interessano, non solo perché sono i miei genitori ma anche perché sono riusciti a raggiungere quell’obiettivo prestigioso che è un matrimonio felice. Finora ho visto soltanto quattro matrimoni perfettamente riusciti e sono giunta alla conclusione che la riuscita di una coppia è affidata soltanto al caso. Dei quattro esempi a cui mi riferisco, uno è quello di una ragazza di diciassette anni sposata a un uomo di quindici anni più vecchio di lei. Quando lui le disse che era troppo giovane per sapere quello che voleva, lei obiettò che aveva già deciso di sposarlo circa tre anni prima! Il loro ménage fu ulteriormente complicato dal fatto che entrambe le suocere in tempi successivi si installarono in casa loro; abbastanza per rovinare la migliore delle unioni. Lei è una donna tranquilla, ma dotata di una grande forza interiore. Mi ricorda un po’ mia madre, anche se non ne ha la vivacità intellettuale e gli interessi. Hanno tre figli, ormai grandi. Il loro affetto dura ormai da trent’anni e non accenna ad affievolirsi. Il caso opposto è invece quello di un giovane sposato a una vedova più vecchia di lui di quindici anni. Dopo averlo respinto per molti anni, lei aveva ceduto e da allora erano vissuti felici fino alla sua morte, avvenuta trentacinque anni dopo.
Mia madre, Clara Boehmer, non ebbe un’infanzia felice. Suo padre, ufficiale negli Argyll Highlanders, morì per una caduta da cavallo lasciando la nonna, che allora era una bella donna di ventisette anni, con quattro bambini e senz’altro sostegno che la pensione. Sua sorella maggiore, che aveva da poco sposato un ricco americano, le scrisse offrendosi di adottare uno dei bambini e di crescerlo come suo.
La giovane vedova, piena di preoccupazioni e sommersa dai lavori di cucito che aveva preso per mantenere ed educare i suoi quattro figli, non se la sentì di rifiutare. Scelse l’unica femmina, sia perché le sembrava che i maschi potevano cavarsela meglio, mentre una ragazza aveva maggior bisogno dei vantaggi di una vita comoda, sia perché, come mia madre ha sempre pensato, voleva più bene ai suoi fratelli. Comunque fosse, mia madre lasciò Jersey per andare a vivere nel Nord dell’Inghilterra, in una casa a lei estranea. Credo che il risentimento e il profondo dolore che provò nel sentirsi abbandonata abbiano molto influenzato il suo atteggiamento nei confronti della vita, rendendola insicura e diffidente. Sua zia era una donna gentile, ben disposta e generosa, ma poco sensibile ai problemi dell’animo infantile. Mia madre godette di tutti i vantaggi che potevano offrirle: una casa confortevole e una buona educazione, ma perse, senza possibilità di sostituzione, la vita spensierata trascorsa con i fratelli in una casa che sentiva sua. Mi è capitato spesso di leggere, nelle rubriche dei giornali, lettere scritte da genitori ansiosi che si ponevano il dilemma se mandare o no un figlio a vivere presso altri, visti i «vantaggi che gliene deriverebbero e che io non sono in grado di garantirgli, come quello di un’ottima educazione». Avrei sempre voluto rispondere: «Non fatelo». Che valore può avere la migliore educazione del mondo, rispetto alla propria casa, alla propria famiglia, alla sicurezza degli affetti e al senso di appartenenza?
Mia madre era molto infelice nella sua nuova abitazione. Ogni sera piangeva fino ad addormentarsi, diventava sempre più magra e pallida e finì per ammalarsi. La zia dovette chiamare il dottore, un uomo anziano, dotato di molta esperienza che, dopo aver parlato con la bambina, tornò da lei e le disse: «La piccola ha nostalgia della sua casa». La zia rimase stupefatta e incredula. «È impossibile» rispose. «Clara è una bambina quieta, non crea alcun problema e mi sembra contenta.» Ma l’anziano dottore non si diede per vinto e tornò alla carica con la mamma. Aveva dei fratelli? Quanti? Come si chiamavano? Questa volta la bambina si sciolse in un mare di lacrime e gli confidò il suo tormento.
Lo sfogo servì ad alleggerire la tensione, ma non servì a eliminare la sensazione di abbandono. Penso che mia madre abbia covato il risentimento nei confronti della nonna fino al giorno in cui questa morì. Per reazione si affezionò, ricambiata, allo zio americano, che era allora già molto malato e a cui soleva leggere brani dal Re del fiume d’oro, il suo libro preferito. Ma la vera consolazione della sua vita erano le visite periodiche di Fred Miller, figliastro di sua zia. Il «cugino Fred», come lei lo chiamava, aveva allora circa vent’anni ed era sempre straordinariamente gentile nei confronti della cuginetta. Un giorno – la mamma aveva circa undici anni – Fred disse alla matrigna: «Che begli occhi ha Clara!».
La mamma, che si era sempre considerata terribilmente brutta, andò di sopra e, scrutandosi nel grande specchio della toilette della zia, convenne che forse i suoi occhi erano davvero belli… Il suo cuore si schiuse alla felicità e appartenne, da allora, inesorabilmente a Fred.
Un vecchio amico di famiglia americano predisse al brillante giovanotto che un giorno avrebbe sposato la cuginetta inglese.
«Clara? Ma è soltanto una bambina!» replicò questi, stupefatto.
Ma nel suo intimo non era affatto insensibile alla sua adorante cuginetta. Conservò le lettere infantili e le poesie che gli scriveva e dopo una lunga serie di flirt con bellezze in vista e ragazze brillanti della buona società newyorkese, tra cui Jenny Jerome, in seguito Lady Randolph Churchill, tornò in Inghilterra e la chiese in sposa.
Mia madre, con una delle sue tipiche impennate, lo rifiutò senza esitazioni.
«Perché l’hai fatto?» le chiesi una volta.
«Perché ero depressa» mi rispose, motivo questo piuttosto insolito ma per lei validissimo.
Papà non si arrese. Le ripeté la sua proposta una seconda volta e, finalmente, mia madre vinse i suoi timori, acconsentì seppur con qualche reticenza, perché era certa che «sarebbe rimasto deluso».
Così si sposarono e io ho un ritratto di mia madre con i capelli scuri, i grandi occhi nocciola e il bel viso serio, che indossa l’abito nuziale.
Prima della nascita di mia sorella i miei genitori andarono a Torquay, allora una località alla moda per passarvi l’inverno, il corrispettivo di quella che sarebbe poi diventata la Riviera francese, e vi affittarono un appartamento ammobiliato. Mio padre rimase incantato dal posto. Amava il mare e aveva lì parecchi amici, alcuni che vi risiedevano in permanenza, altri, americani, che venivano a trascorrervi l’inverno. Mia sorella Madge nacque a Torquay e poco tempo dopo mio padre e mia madre partirono per l’America, dove pensavano di stabilirsi. I nonni di mio padre che, dopo la morte di sua madre, avvenuta in Florida, l’avevano allevato nella quiete del New England, e a cui era rimasto molto legato, erano impazienti di conoscere sua moglie e la bambina. Mio fratello nacque in America ma, qualche tempo dopo, mio padre decise di tornare in Inghilterra. Appena arrivato, gli affari lo richiamarono a New York. Prima di partire, propose a mia madre di affittare una casa a Torquay dove stabilirsi fino al suo ritorno.
Mia madre si mise in caccia e tornò trionfante: «Fred, l’ho comprata!».
Mio padre quasi svenne. Era ancora convinto che sarebbero andati a vivere in America.
«Perché l’hai fatto?» chiese alla mamma.
«Perché mi piaceva» fu la risposta.
Raccontò di aver visto circa trentacinque case, di cui una sola le era piaciuta, guarda un po’, proprio quella che era in vendita.
Mia madre, che aveva ereditato 2000 sterline dal marito della zia, si era rivolta a quest’ultima, a cui la somma era affidata, e insieme avevano acquistato la casa.
«Ma ci resteremo solo un anno, al massimo» grugnì mio padre.
Mia madre, a cui noi tutti abbiamo sempre attribuito dei poteri divinatori, gli rispose che alla peggio avrebbe potuto venderla. Ma è probabile che, in qualche suo modo misterioso, intuisse che la famiglia avrebbe vissuto in quella casa per molti anni.
«Mi sono innamorata di quella casa non appena ci ho messo piede» insisté. «Ci regna un’atmosfera straordinariamente tranquilla.»
I proprietari erano certi Brown, dei quaccheri. Quando mia madre espresse con una certa esitazione le sue condoglianze alla signora Brown perché, dopo tanti anni, doveva abbandonare la sua casa, l’anziana signora le disse con dolcezza: «Sono felice di lasciarla a lei e ai suoi bambini, mia cara», parole che a mia madre fecero l’effetto di una benedizione.
In realtà sono convinta che sulla casa aleggiasse qualche potere benefico. Era una villa di aspetto piuttosto comune, costruita sulla parte vecchia di Tor Mohun, all’estremità opposta del Warberry o del Lincombe, i quartieri alti di Torquay. A quell’epoca la strada in cui era situata conduceva direttamente nella fertile campagna del Devon, intersecata da viottoli. Ashfield, tale era il nome della villa, è stata la mia casa, a periodi alterni, per quasi tutta la mia vita.
Infatti, nonostante le premesse, non siamo mai andati a vivere in America. Mio padre si ambientò così bene a Torquay che decise di non spostarsi e organizzò la sua vita tra visite al club, partite di whist e riunioni con gli amici.
Mia madre, invece, odiava il mare, avversava qualsiasi tipo di riunione sociale e non sapeva giocare alle carte. Ma ad Ashfield viveva felice; dava grandi pranzi, partecipava ai ricevimenti e, nelle tranquille serate casalinghe, tormentava mio padre per farsi raccontare le ultime novità locali e quello che era successo al club.
«Non è successo niente» rispondeva mio padre tranquillo.
«Ma insomma, Fred, è impossibile che almeno qualcuno non abbia detto qualcosa di interessante.»
Mio padre si lambiccava il cervello a dovere, senza risultato. Finché decideva di raccontarle che M., troppo avaro per comprarsi il giornale, veniva a leggerlo al club, assillando poi gli altri membri con il resoconto dettagliato di quello che aveva letto. «Ehi, avete visto che alla frontiera di nord-ovest, eccetera eccetera», con il risultato che tutti si seccavano perché M. era uno dei membri più ricchi del club.
Mia madre, che conosceva la storia a menadito, era tutt’altro che soddisfatta, ma mio padre, con la coscienza del dovere compiuto, ripiombava nel suo stato di serena apatia. Appoggiandosi allo schienale, stendeva le gambe in direzione del fuoco e si grattava la testa con dolcezza, passatempo, peraltro, severamente proibito.
«A cosa stai pensando, Fred?» gli domandava mia madre.
«A niente» rispondeva mio padre in perfetta sincerità.
«Com’è possibile che uno non pensi a niente?»
Per mia madre si trattava di un’affermazione incomprensibile, che la lasciava immancabilmente sconcertata. A lei i pensieri attraversavano la mente rapidi come rondini in volo. Lungi dal non pensare a nulla, mia madre di solito era impegnata con tre pensieri alla volta.
Tuttavia, e l’avrei capito parecchi anni più tardi, i pensieri di mia madre erano sempre leggermente discordanti dalla realtà. Vedeva il mondo colorato a tinte più vive di quanto in realtà non fosse e la gente migliore o peggiore di quello che era. Forse a causa dell’eccessivo controllo esercitato su se stessa negli anni dell’infanzia, tendeva ad attribuire alle cose un alone drammatico che sfociava alcune volte nel melodramma. Le sue capacità fantastiche erano così accentuate da trasformare anche i fatti più incolori e banali. Era dotata di un intuito fuori dal comune, che le permetteva di percepire in un attimo quello che gli altri pensavano. Quando mio fratello, che allora era un giovane ufficiale, era tormentato da difficoltà finanziarie di cui non intendeva informare la famiglia, mia madre una sera lo lasciò di sasso, perché, guardandolo fisso mentre se ne stava assorto e preoccupato, gli disse: «Monty, tu hai preso dei soldi in prestito. Cos’hai dato in gara...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La mia vita
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. 1. Ashfield
  7. 2. «Dire, fare, giocare»
  8. 3. Crescere
  9. 4. Sguardi d’ammirazione, flirt e dichiarazione, richiesta ufficiale e marcia nuziale
  10. 5. La guerra
  11. 6. In giro per il mondo
  12. 7. La terra della perduta felicità
  13. 8. La mia seconda primavera
  14. 9. La vita con max
  15. 10. La seconda guerra mondiale
  16. 11. Autunno
  17. Epilogo
  18. Indice analitico
  19. Copyright