Tutti i racconti
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Tutti i racconti

  1. 420 pagine
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Gabriel García Márquez aveva quarant'anni quando scrisse il celebre racconto Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo, dove dà vita a quello strabiliante spazio narrativo, tanto immaginario quanto reale, che sarebbe diventato il più intenso luogo letterario del nostro tempo. Con Macondo, Márquez inaugurò l'epoca del realismo magico, la peculiare commistione tra la realtà drammatica dell'America Latina e la dimensione leggendaria e mitica che lo consacrò come uno dei massimi autori della letteratura mondiale.
Da quel momento non smise più di raccontare il fascino e la purezza della cultura degli indios, i loro dolori malinconici e la dolce intensità dei Caraibi americani, che celebrò nelle raccolte successive, nell' Incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata e nei Funerali della Mamá Grande, dove un visionario cantastorie narra le fastose esequie dell'autentica sovrana di Macondo.
Di racconto in racconto, si arriva fino ai recenti Dodici racconti raminghi, che trasferiscono lo scenario nella vecchia Europa per parlarci del destino dei latinoamericani immigrati, della loro tenacia e dei loro sogni, dove la magia e l'atmosfera tragica si mescolano in un mondo che non è altro che "un immenso giocattolo a molla con cui si inventa la vita".
Per la prima volta sono riuniti insieme tutti i racconti del premio Nobel per la letteratura, in un'opera che ripercorre il suo cammino d'autore dalle prove giovanili, in cui già si riconoscono le suggestioni e lo stile che segneranno la fortuna di Cent'anni di solitudine, fino alle più cruciali e intense riflessioni della maturità. Una testimonianza imprescindibile della preziosissima eredità di un maestro della letteratura universale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852031427

Dodici racconti raminghi

Traduzione di Angelo Morino
Premessa

Perché dodici, perché racconti e perché raminghi

I dodici racconti di questo libro sono stati scritti nel corso degli ultimi diciotto anni. Prima della loro forma attuale, cinque sono stati articoli di giornale e sceneggiature cinematografiche, e uno è stato un serial televisivo. Un altro lo raccontai quindici anni fa durante un’intervista registrata, e l’amico cui l’avevo raccontato poi lo trascrisse e lo pubblicò, e adesso l’ho riscritto a partire da quella versione. È stata una strana esperienza creativa che merita di essere spiegata, anche solo perché i bambini che da grandi vogliono diventare scrittori sappiano fin d’ora quanto è insaziabile e corrosivo il vizio di scrivere.
La prima idea mi venne all’inizio degli anni Settanta, a proposito di un sogno chiarificatore fatto dopo cinque anni che vivevo a Barcellona. Avevo sognato di assistere al mio funerale, a piedi, camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto stretto, ma in vena di bagordi. Sembravamo tutti felici di stare insieme. E io più di ogni altro, per via di quella grata occasione che mi offriva la morte di ritrovarmi con i miei amici dell’America latina, i più vecchi, i più amati, quelli che non vedevo da più tempo. Al termine della cerimonia, mentre cominciavano ad andarsene, io avevo tentato di seguirli, ma uno di loro mi aveva fatto notare con una severità risoluta che per me la festa era finita. «Sei l’unico che non può andarsene» mi aveva detto. Solo allora avevo capito che morire è non ritrovarsi mai più con gli amici.
Non so perché, quel sogno esemplare lo interpretai come una presa di coscienza della mia identità, e pensai che fosse un buon punto di avvio per scrivere sulle cose strane che succedono ai latinoamericani in Europa. Fu un’idea incoraggiante, perché poco prima avevo finito L’autunno del patriarca, che è stato il mio lavoro più arduo e arrischiato, e non sapevo come proseguire.
Per circa due anni presi appunti sugli argomenti che mi passavano per la testa senza ancora decidere cosa farne. Siccome non avevo in casa un blocco per appunti la sera in cui decisi di cominciare, i miei figli mi prestarono un quaderno da scuola. Erano loro che lo portavano negli zainetti di libri durante i nostri viaggi frequenti per timore che si perdesse. Arrivai ad avere sessantaquattro argomenti annotati con così tanti dettagli che mi mancava solo di scriverli.
A Città del Messico, al mio ritorno da Barcellona, nel 1974, mi si chiarì che questo libro non doveva essere un romanzo, come mi era sembrato all’inizio, bensì una raccolta di racconti brevi, basati su fatti giornalistici ma redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia. Fino ad allora avevo scritto tre libri di racconti. Tuttavia, nessuno dei tre era concepito e risolto come un tutto, essendo ogni racconto un pezzo autonomo e occasionale. Sicché scrivere quei sessantaquattro poteva essere un’avventura affascinante se fossi riuscito a buttarli giù tutti di getto, e con un’unità interna di tono e di stile che li rendesse inseparabili nella memoria del lettore.
I primi due – La traccia del tuo sangue sulla neve e L’estate felice della signora Forbes – li scrissi nel 1976, e subito li pubblicai in supplementi letterari di vari paesi.
Non mi presi neppure un giorno di riposo, ma a metà del terzo racconto, che era proprio quello del mio funerale, mi accorsi che stavo stancandomi più che se fosse stato un romanzo. Lo stesso mi accadde col quarto. A tal punto, che non ce la feci a finirli. Adesso so perché: lo sforzo di scrivere un racconto breve è intenso quanto cominciare un romanzo. Perché nel primo paragrafo di un romanzo bisogna definire tutto: struttura, tono, stile, ritmo, lunghezza, e talvolta persino il carattere di qualche personaggio. Il resto è il piacere di scrivere, il più intimo e solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il libro per il resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di cui c’è bisogno per cominciarlo si impone per finirlo. Il racconto, invece, non ha inizio né fine: viene o non viene. E se non viene, l’esperienza propria e quella altrui insegnano che quasi sempre è più salutare ricominciarlo per un’altra via, o buttarlo nella spazzatura. Qualcuno che non ricordo l’ha detto bene con una frase consolante: «Un buono scrittore lo si apprezza meglio da quanto straccia che da quanto pubblica». È vero che non ho stracciato gli abbozzi e gli appunti, ma ho fatto di peggio: li ho spinti nell’oblio.
Ricordo di avere tenuto il quaderno sulla mia scrivania di Città del Messico, naufrago in una burrasca di fogli, fino al 1978. Un giorno, cercando qualcos’altro, mi accorsi che da tempo l’avevo perso di vista. Non me ne importò. Ma quando mi convinsi che davvero non era sul tavolo ebbi una crisi di panico. Non rimase in casa un angolo che non fosse stato setacciato a fondo. Spostammo i mobili, smontammo la biblioteca per essere sicuri che non fosse caduto dietro i libri, e sottoponemmo domestici e amici a inquisizioni imperdonabili. Non ce n’era traccia. L’unica spiegazione possibile – o plausibile? – è che in qualcuno dei tanti massacri di carte che faccio spesso il quaderno fosse finito nella spazzatura.
La mia reazione mi stupì: gli argomenti che avevo dimenticato per quasi quattro anni si erano trasformati in una questione d’onore. Cercando di recuperarli a qualsiasi prezzo, in una fatica ardua quanto scriverli, riuscii a ricostruire gli appunti di trenta di loro. Siccome lo stesso sforzo di ricordarli mi era servito da purga, eliminai con spietatezza quelli che mi sembrarono insalvabili, e ne rimasero diciotto. Questa volta mi animava la risoluzione di continuare a scriverli senza interruzioni, ma ben presto mi resi conto che non mi entusiasmavano più. Comunque, al contrario di quanto avevo sempre consigliato ai nuovi scrittori, non li buttai nella spazzatura ma di nuovo li archiviai. Non si può mai sapere.
Quando cominciai Cronaca di una morte annunciata, nel 1979, mi accorsi che nelle pause fra i due libri avevo perso l’abitudine di scrivere e mi era sempre più difficile ricominciare. Per questo, fra l’ottobre del 1980 e il marzo del 1984, mi imposi di scrivere un articolo ogni settimana su giornali di diversi paesi, come disciplina per mantenermi il polso caldo. Allora mi venne da pensare che il mio conflitto con gli appunti del quaderno era sempre un problema di generi letterari, e che in realtà non dovevano essere racconti ma articoli di giornale. Solo che dopo avere pubblicato cinque articoli presi dal quaderno, di nuovo cambiai parere: andavano meglio per il cinema. Fu così che ne vennero fuori cinque film e un serial televisivo.
Quello che non avevo mai previsto fu che il lavoro per i giornali e per il cinema mi avrebbe fatto cambiare certe idee sui racconti, al punto che scrivendoli adesso nella loro forma conclusiva ho dovuto stare attento a separare con le pinze le mie idee da quelle inserite dai registi durante la scrittura delle sceneggiature. Inoltre, la collaborazione simultanea con cinque creatori diversi mi ha suggerito un altro metodo per scrivere i racconti: ne cominciavo uno quando avevo tempo libero, lo mettevo da parte quando mi sentivo stanco, o quando spuntava un progetto imprevisto, e poi ne cominciavo un altro. In poco più di un anno, sei dei diciotto argomenti sono finiti nel cestino della cartaccia, e fra questi quello del mio funerale, non essendo mai riuscito a far sì che fosse una gazzarra come quella del sogno. I racconti rimanenti, invece, sono parsi prendere fiato per una lunga vita.
Sono i dodici di questo libro. Nel settembre scorso erano pronti per essere stampati dopo altri due anni di lavoro intermittente. E così sarebbe finito il loro incessante andar raminghi fra il tavolo e il cestino della cartaccia, solo che all’ultimo momento mi ha preso un dubbio finale. Visto che le diverse città d’Europa in cui si svolgono i racconti le avevo descritte a memoria e nella distanza, ho voluto controllare la fedeltà dei miei ricordi quasi vent’anni dopo, e ho intrapreso un rapido viaggio di ricognizione a Barcellona, Ginevra, Roma e Parigi.
Nessuna di queste città aveva più nulla a che vedere con i miei ricordi. Tutte, come tutta l’Europa attuale, erano rarefatte da un capovolgimento stupefacente: i ricordi reali mi sembravano fantasmi della memoria, mentre i ricordi falsi erano così convincenti che avevano soppiantato la realtà. Sicché mi era impossibile distinguere la linea divisoria fra la delusione e la nostalgia. È stata la soluzione decisiva. Finalmente avevo trovato quello che più mi mancava per terminare il libro, e che solo il trascorrere degli anni poteva fornirmi: una prospettiva nel tempo.
Al mio ritorno da quel viaggio fortunoso ho riscritto ancora una volta tutti i racconti fin dall’inizio in otto mesi febbrili durante i quali non ho avuto bisogno di domandarmi dove finiva la vita e dove cominciava l’immaginazione, perché mi sorreggeva il sospetto che forse non era vero nulla di quanto avevo vissuto vent’anni prima in Europa. La scrittura è allora divenuta così fluida che a tratti mi sentivo scrivere per il puro piacere di narrare, che è forse la condizione umana che più somiglia alla levitazione. Inoltre, lavorando a tutti i racconti al contempo e saltando dall’uno all’altro in piena libertà, ho ottenuto una visione panoramica che mi ha evitato la stanchezza degli inizi successivi, e mi ha aiutato a eliminare ridondanze oziose e contraddizioni mortali. Credo di avere così ottenuto il libro di racconti più vicino a quello che ho sempre voluto scrivere.
Ed eccolo qui, pronto per essere portato sul tavolo dopo tanti giri a destra e a manca lottando per sopravvivere alle perversità dell’incertezza. Tutti i racconti, tranne i primi due, sono stati ultimati al contempo, e ognuno reca la data in cui l’ho cominciato. L’ordine in cui compaiono in questa edizione è quello che avevano nel quaderno di appunti.
Ho sempre creduto che ogni versione di un racconto sia migliore della precedente. Come sapere allora quale deve essere l’ultima? È un segreto del mestiere che non obbedisce alle leggi dell’intelligenza ma alla magia degli istinti, così come la cuoca sa quando la minestra è pronta. Comunque, per ogni evenienza, non li rileggerò, come non ho mai riletto nessuno dei miei libri per timore di pentirmi. Chi li leggerà saprà cosa farne. Per fortuna, nel caso di questi dodici racconti raminghi, finire nel cestino della cartaccia dev’essere come il sollievo di tornare a casa.
Gabriel García Márquez
Cartagena de Indias, aprile 1992

Buon viaggio, signor presidente

(Giugno 1979)
Era seduto sulla panchina di legno sotto le foglie gialle del parco solitario, intento a contemplare i cigni polverosi con entrambe le mani appoggiate sul pomo d’argento del bastone, e a pensare alla morte. Quando era arrivato a Ginevra per la prima volta il lago era sereno e diafano, e c’erano gabbiani docili che si avvicinavano per mangiare in mano, e donne a nolo che sembravano fantasmi delle sei del pomeriggio, con falpalà di organza e parasoli di seta. Adesso, l’unica donna possibile, fin dove gli arrivava la vista, era una venditrice di fiori sul molo deserto. Stentava a credere che il tempo avesse potuto fare simili scempi non solo nella sua vita ma anche nel mondo.
Era uno dei tanti sconosciuti nella città degli sconosciuti illustri. Indossava il vestito blu a righe bianche, il panciotto di broccato e il cappello rigido dei magistrati in pensione. Aveva un paio di baffi alteri da moschettiere, i capelli azzurrini e abbondanti con onde romantiche, le mani da arpista con la fede da vedovo all’anulare sinistro, e gli occhi allegri. L’unica cosa che tradiva le condizioni della sua salute era la stanchezza della pelle. E anche così, a settantatré anni, era sempre di un’eleganza principesca. Quel mattino, tuttavia, si sentiva esente da ogni vanità. Gli anni della gloria e del potere gli erano rimasti definitivamente alle spalle, e adesso c’erano solo quelli della morte.
Era tornato a Ginevra dopo due guerre mondiali, in cerca di una risposta decisiva a un dolore che i medici della Martinica non erano riusciti a identificare. Aveva previsto non più di quindici giorni, ma erano già trascorse sei settimane di analisi spossanti e di risultati incerti, e non se ne vedeva ancora la fine. Cercavano il dolore nel fegato, nei reni, nel pancreas, nella prostata, lì dove meno si trovava. Fino a quel giovedì malaugurato, in cui il medico meno noto fra i molti che l’avevano visto non gli aveva fissato un appuntamento alle nove del mattino nel reparto di neurologia.
Lo studio sembrava una cella monacale, e il medico era piccolo e lugubre, e aveva la mano destra ingessata per una frattura al pollice. Quando ebbe spento la luce, apparve sullo schermo la radiografia illuminata di una spina dorsale che lui non riconobbe come sua finché il medico non indicò con una bacchetta, sotto la vita, l’unione di due vertebre.
«Il suo dolore sta qui» gli disse.
Per lui non era così facile. Il suo dolore era improbabile e sfuggente, e certe volte sembrava star fra le costole di destra e certe altre nel basso ventre, e spesso lo sorprendeva con una fitta istantanea all’inguine. Il medico lo ascoltò interrompendosi e con la bacchetta immobile sullo schermo. «Ecco perché ci ha depistati così a lungo» disse. «Ma adesso sappiamo che sta qui.» Poi si portò l’indice alla tempia, e precisò:
«Sebbene a rigor di logica, signor presidente, ogni dolore risieda qui.»
Il suo stile clinico era così drammatico, che la sentenza finale sembrò benevola: il presidente doveva sottoporsi a un’operazione pericolosa e inevitabile. Questi gli domandò qual era il margine di rischio, e il vecchio dottore lo avvolse in una luce di incertezza.
«Non potremmo dirlo con sicurezza» gli disse.
Fino a poco tempo prima, precisò, i rischi di incidenti fatali erano grandi, e più ancora di molteplici paralisi di vario grado. Ma col progresso della medicina dopo le due guerre quei timori erano cose del passato.
«Parta tranquillo» concluse. «Sistemi per bene le sue cose, e ci avverta. Però non dimentichi che sarà meglio occuparsene al più presto.»
Non era una buona mattina per smaltire quella brutta notizia, e tanto meno con quel tempaccio. Era uscito molto presto dall’albergo, senza soprabito, perché aveva visto un sole raggiante dalla finestra, e si era avviato col suo passo lento dal chemin du Beau Soleil, dove si trovava l’ospedale, sino al rifugio per innamorati furtivi del Parc Anglais. Era lì da oltre un’ora, sempre intento a pensare alla morte, quando iniziò l’autunno. Il lago si increspò come un oceano infuriato, e un vento di disordine spaventò i gabbiani e spazzò via le ultime foglie. Il presidente si alzò e, invece di comprarla dalla fioraia, colse una margherita dai vasi pubblici e se la infilò all’occhiello del risvolto. La fioraia lo sorprese.
«Quei fiori non sono del buon Dio, signore» gli disse, piccata. «Sono del municipio.»
Lui non le diede retta. Si allontanò con lunghi passi leggeri, impugnando il bastone al centro della canna, e a tratti facendolo girare con una scioltezza un po’ libertina. Sul ponte del Mont Blanc stavano togliendo di gran fretta le bandiere della confederazione impazzite sotto il vento, e lo zampillo sottile coronato di spuma si spense prima del tempo. Il presidente non riconobbe il suo solito caffè sul molo, perché avevano tolto il tendone verde della veranda e le terrazze fiorite dell’estate si erano ormai chiuse. Nella sala, le lampade erano accese in pieno giorno, e il quartetto d’archi suonava un Mozart premonitore. Il presidente prese dal banco un quotidiano della pila riservata ai clienti, appese il cappello e il bastone all’attaccapanni, si mise gli occhiali con la montatura d’oro per leggere al tavolino più discosto, e solo allora fu consapevo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tutti i racconti
  4. Occhi di cane azzurro
  5. I funerali della Mamá Grande
  6. La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
  7. Dodici racconti raminghi
  8. Copyright