1 NOTIZIA SUL TESTO
Il 24 maggio 1912 Emilio Cecchi, recensendo sulla «Tribuna» la Contemplazione della morte, inaugura, pur con riserve e cautele («[…] impossibile distinguere […] la nota del sentimento vero dall’intenzione retorica, il grottesco voluto dal grottesco involontariamente accaduto, il mistero dell’arte dalla mistificazione») la stagione di un interesse critico per la dannunziana «esplorazione d’ombra». A Merope, uscita da pochi mesi, nessun accenno. E altrettanto fa Borgese, commentando su «La Cultura» del 15 agosto un d’Annunzio «coronato e velato» (occasione immediata è lo studio del Gargiulo edito nel ’12 a Napoli da Perella). Il silenzio su Merope, imposto dai critici vociani che proprio in quegli anni tentano di assimilare l’arte dannunziana alla poetica del frammento, è certo significativo di un’avversione alla retorica pseudocivile e nazionalistica, bollata con parole dure e sprezzanti da Amendola sugli stessi fogli della «Voce» (Il Vate, 1° febbraio 1912: «[…] c’è un italiano che non sta zitto; che non medita, che non fa esami di coscienza né conti di cassa […] e quest’italiano canta e chiacchiera e quel ch’è più cerca di far chiacchierare su di sé […] Il vate, che è bizzarro come un bimbo […] grida e strepita»). Di fronte all’opposizione vociana sta l’elogio incondizionato di una borghesia conservatrice, incline, per motivi prevalentemente ma non esclusivamente economici, alla politica imperialistica, che i gesti demagogici e l’attivismo eroico convincono della possibilità di una effettiva rénaissance: le lettere al «Corriere della Sera», quotidiano su cui escono tra l’8 ottobre 1911 e il 14 gennaio 1912 le Canzoni della Gesta d’oltremare, esprimono entusiastiche attestazioni di fiducia al poeta che si è assunto, dall’esilio volontario, il ruolo di vate dei destini patrii, traducendo in mito le aspirazioni nazionalistiche di riscatto.
E del resto, nel disagio dell’epoca giolittiana, non è raro che si instaurino convergenze fra quelle adesioni irriflesse e certe analisi più meditate (gli articoli della «Rassegna contemporanea», di «Minerva», del «Marzocco», ma anche dell’«Avanti!» socialista e della «Ragione» repubblicana, attentamente vagliati nella Bibliografia dei periodici curata dalla Baldazzi), a dimostrare l’attualità di una scrittura quasi integralmente propagandistica, capace di cogliere e di instaurare un nuovo rapporto tra autore e pubblico, traducendo le frustrazioni in pretesti patriottici, la poesia in azione.
La vocazione di poeta civile appare ben radicata in d’Annunzio, se solo si pensa agli eccessi superomistici della Gloria (1899) e a quelli filocolonialistici e razzisti di Più che l’amore (1906), o ancora all’enfasi nazionalista della Nave (1908). Ma sono poi gli scritti dell’Armata d’Italia (1888) e delle Odi navali (1893), insieme con le tante figurazioni mitiche di Elettra, a costituire il precedente immediato per il nuovo poema delle gesta marinare. Nuove odi navali doveva in effetti intitolarsi il progettato quarto libro delle Laudi, abbandonata la primitiva idea di dedicarne l’argomento al Lazio, secondo l’annuncio del 1906; e allo stadio di progetto quei componimenti «più brevi e di carattere più specialmente navale» rimasero sempre, sostituiti, allo scoppio della guerra italo-turca di Libia, dalle dieci Canzoni destinate a confluire, nel gennaio 1912, in volume sotto la comune designazione di Merope.
Poesia d’occasione, dunque (il Praz, sottolineandone il carattere di attualità cronachistica, la riconosceva affine ai modi «che gli Inglesi chiamano topical allusions»), scritta davvero «a tambur battente» (De Michelis), sotto l’urgere degli avvenimenti. Il mestiere dannunziano denuncia qui allo scoperto i suoi ingredienti: le fonti storiche in primo luogo, indice di un’erudizione paziente ma non selettiva, che spazia dalla Cronica del Villani alla Nuova Istoria della Repubblica di Genova del Canale, dal Giornale dell’assedio di Costantinopoli del Barbaro alla Storia della marina italiana del Manfroni, dall’Histoire de Saint Louis del Joinville alla «Stella polare» nel Mare Artico e ai diari di Umberto Cagni. Letture piuttosto eccentriche, per lo più aneddotiche e cronachistiche, che non implicano, da parte del d’Annunzio, partecipazione morale: letture a freddo, velleitarie, come avvertiva già il Gargiulo riferendosi alle Odi navali («fredde e magniloquenti esercitazioni») e a Elettra («erudizione garibaldina» – l’accenno è alla NOTTE DI CAPRERA – «messa in versi, senza residuo, con una invidiabile pazienza»; «erudizione secca» – le Città del silenzio – «rigata di lirismo superumano»). L’intenzione, al solito, è di istituire un rapporto dialettico tra passato e presente, nobilitando il contingente nel confronto e nell’identificazione con il già avvenuto, che ne legittima storicamente l’episodicità annettendola all’assoluto del mito. Il crogiuolo è dei più densi e sovraccarichi: accanto alla cultura libresca, attentamente ripercorsa dal Palmieri nell’ampio Commento (ma già le Note dannunziane in appendice al volume, singolarmente estese e puntuali, chiariscono dati storici e biografici di difficile reperibilità), stanno gli elenchi dei nomi di feriti e caduti nell’impresa libica, i cataloghi di luoghi e vicende, l’esibizione di lessici specialistici (primo fra tutti quello marinaro copiosamente attinto al Vocabolario marino e militare del Guglielmotti). «Bravura senza scopo», sentenziava Renato Serra, ed aveva indubbiamente ragione, se alla rassegna degli ingredienti storici, cronachistici, lessicali si aggiunge il ricorso alle fonti letterarie: da Dante, citatissimo (ed è il Dante eroico e prometeico di Elettra) a Whitman, l’ispiratore delle Odi navali, magari rivisitato attraverso Barrès e Maurras, da Poliziano a Tommaseo, dalle letture bibliche al Parsifal wagneriano, da Swinburne a Nietzsche, da Orazio e Tasso a Carducci. A proposito del quale c’è chi ha giustamente osservato che non a caso, quando si parla di poesia civile, pare d’obbligo suscitarne l’immagine, ingraziandosene il nume tutelare: anche se il Croce non pareva per nulla convinto della bontà dell’accostamento (non si può proprio contrabbandare Carducci – scriveva nel ’15 – con chi «inneggia alla pia verginità dei Dardanelli» – Ripensando a Giosuè Carducci, in «La Critica», 20 luglio), il Pancrazi contrapponeva il «processo di coscienza e di fatica» delle pagine carducciane al «dilettantismo» dannunziano (D’Annunzio senza coraggio, in «La Voce», 29 febbraio 1916) e il Romagnoli reprimeva a fatica l’indignazione per il confronto irrispettoso («ma non son sicuro che queste canzoni abbiano virtù d’incidere nei secoli, nel cuor della patria, i nomi dei giovani eroi»; e neppure si diceva sicuro che con d’Annunzio l’Italia acquistasse «il suo nuovo poeta civile», dal momento che il vate difettava di «quella virtù plastica» in grado di imporre l’immagine poetica «alla nostra fantasia e al nostro sentimento» – Le Canzoni della Gesta d’oltremare, in «Nuova Antologia», 1° maggio 1912).
Occorre per altro non sottovalutare il canale che si incaricava di trasmettere il messaggio imperialistico in versi: la scrittura per un quotidia...